Magari è soltanto una mia impressione, una percezione temporanea destinata a svanire con le nuvole dei pensieri tristi. Forse è proprio così, vorrei che fosse così. Una visione amara dovuta ai cicli naturali della vita, che portano via figure di riferimento per un’intera comunità mentre l’orizzonte appare confuso: tempo di mezzo, tra un’epoca che sta per finire e un’altra che stenta ad iniziare.
Mi chiedo come sarà domani, se ci saranno giovani pronti a raccogliere il testimone e a proseguire il cammino dei tanti che ci hanno preceduto. Avverto una malinconica sensazione di riflusso, di ripiegamento su se stessi. Come se la visione d’insieme non conti nella formazione e nell’esaltazione dell’anima di un paese. Come se trama e ordito non abbiano bisogno di tenersi stretti per dare vita a un tessuto. Quel tessuto sociale oggi sempre più sfilacciato, debole.
Non si fa un buon servizio se si dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Non si è onesti con gli altri, né con se stessi. Sant’Eufemia si sta impoverendo, nonostante la caparbia di quanti si oppongono a un declino che è sotto gli occhi di tutti. E non si tratta di politica, no. Quello semmai è l’effetto, non la causa. Le ragioni sono più profonde, strutturali: è un declino figlio della congiuntura storica contemporanea, della crisi economica ed etica che scava la roccia, giorno dopo giorno.
Un paese impoverito dai troppi salassi dell’emigrazione, chiuso anche fisicamente: che non prende aria, che non respira, che non vola. Negli ultimi anni sono scomparse associazioni storiche: l’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, anni fa; la Pro Loco, più di recente. Neanche la squadra di calcio esiste più. C’è l’isola felice del “Terzo Millennio”, ma è un’eccezione: una vitale eccezione. Il resto è fatica e caparbia di chi non vuole arrendersi, encomiabili e da incoraggiare. Ma il pluralismo associazionistico è ricchezza e carburante prezioso per la crescita culturale e sociale di una comunità, anche quando mostra la faccia della sana competizione.
Il liceo scientifico ad ogni inizio di anno scolastico fatica a comporre la prima classe: e fortuna che ancora ci soccorrono i paesi vicini. I nostri figli sono per lo più fuori. Le strade e le piazze deserte sono una pugnalata al cuore, il certificato di morte che accomuna i piccoli centri interni dell’Aspromonte.
Non ho la soluzione in tasca: osservo, considero. Nel mio piccolo cerco di fare il mio “pezzettino”, come altri, perché aveva ragione Robert Kennedy: «Pochi sono grandi abbastanza da poter cambiare il corso della storia. Ma ciascuno di noi può cambiare una piccola parte delle cose, e con la somma di tutte quelle azioni verrà scritta la storia di questa generazione».
Credo che si dovrebbe cercare di amare un po’ di più il proprio paese (tutti: chi ci vive, chi ci torna ogni tanto, chi guarda da lontano). Chissà che non sia questo l’antidoto giusto.