La storia di Sant’Eufemia è fatta da tantissimi personaggi anonimi, gente poverissima e affamata che a fatica, negli anni della grande miseria, riusciva a racimolare tutti i giorni un misero boccone. Tra le due guerre e nei primi anni del secondo dopoguerra non era inusuale che nelle numerosissime famiglie del tempo si saltasse più di un pasto, o che questo si riducesse a un po’ di pane accompagnato da qualche oliva. Molto triste era poi la condizione di chi viveva da solo e non svolgeva nessun mestiere. A questi poveracci non restava che affidarsi alla carità altrui. Potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è: in una condizione di indigenza generale, slanci di umanità alleviavano la fatica del vivere di questi sfortunati. Si divideva il poco che si aveva.
Lalà (al secolo, Rosario Sabino) era “un innocuo vagabondo”. Così lo definisce Nino Zucco nell’omonimo racconto (Fuoco a Diambra, Bonacci Editore, Roma 1956). Un randagio senza parenti e senza un tetto, che dormiva sopra un giaciglio di “mattoni e pietre con calcinacci” in una vecchia casa terremotata. Indossava vestiti laceri, spesso sacchi rattoppati, i baffi sporchi e la barba ispida. Era letteralmente “a brandelli” e aveva i piedi spaccati dal gelo: «Sembrava che nei talloni gli avessero dato dei colpi d’accetta».
Raccoglieva per terra i mozziconi di sigaretta per alimentare la sua pipa e “si nutriva con il piatto della carità umana”, oppure con la frutta che rubava negli orti. Quando poi la fame diventava troppa, non disdegnava le galline morte “con il morbo”, che arrostiva nella forgia di mastro Rocco il maniscalco.
Il suo era per lo più un parlare senza senso: «Non sapeva fare altro che ridere e dire parole sconnesse». Il massimo del suo divertimento era attendere alla fermata della corriera l’arrivo delle bagnarote “cariche di mercanzie, che vendevano o barattavano con olio e ortaggi”: le seguiva attendendo il momento propizio per sollevare le loro vesti esclamando: «Bella Madonna!», ma spesso finiva inseguito e picchiato dalle possenti donne del mare.
Le buscava spesso Lalà. Era infatti il bersaglio preferito dei ragazzi del paese, che lo prendevano a colpi di pietra per strada oppure si introducevano di notte nel suo nascondiglio, per svegliarlo di soprassalto. Quegli stessi ragazzi che però si presero cura di lui quando si beccò la polmonite: «Rantolava rincantucciato in un angolo umido e fetido», eppure «voleva vicino i suoi ragazzi, e ad essi chiedeva un po’ di cibo e un po’ di vino, soprattutto vino».
Quella volta si salvò, ma una seconda polmonite gli fu fatale. Finiva così la vita di Lalà, il cui corpo, benedetto dal parroco (“che ebbe sempre pietà di lui”), fu portato via dagli spazzini.
A Lalà, tipico “personaggio” di paese, dedicò un suo componimento il poeta eufemiese Domenico Cutrì:
Parivi scemu, ma scemu non eri,
armenu a modu toi, tu ragiunavi,
si ’ncunu ti parrava l’ascurtavi
’mpocu sedutu e ’mpocu standu ’mperi.
Cu eri? Chi facivi? Chi speravi?
La to testa paria senza penseri,
non avivi famigghia, né mugghieri,
ridivi sempri e sempri caminavi.
Tenivi stritta ’nmanu na cortara
di crita, vecchia, rutta e nigru e lordu
tu eri sempri di ’n testa a li peri.
Na cosa avivi bona, lu ricordu,
ca ringraziavi tantu volenteri
cu ti stindiva ndi la manu ’n sordu!
*La fotografia è tratta dal libro di Domenico Cutrì, Cascami. Poesie dialettali, Tipografia La Cartografica, Palermo 1965, p. 90 (a pagina 91, la poesia).