Reggio, “per noi che stiamo in fondo alla campagna”, è il terminale di un cantiere sempiterno, il luogo in cui si arriva o dal quale si parte, ospedali, un gelato sul lungomare, le vetrine del corso, i film al cinema, l’impossibilità di trovare un parcheggio. Non riusciamo a definirla una volta per tutte, perché tende a sfuggirci e perché una diffidenza reciproca crea distanze e pregiudizi.
Soltanto l’epopea della Reggina in serie A è riuscita a farci sentire un unico popolo. Per il resto, noi della provincia siamo quelli che vengono a Reggio e fanno casino: il volume della radio anticipa il nostro arrivo, rimbomba talmente forte dentro gli abitacoli che ci impedisce di ascoltare l’anima più profonda della città. E se anche ci riuscissimo, non capiremmo. Perché noi siamo spremuntari. Voi invece avete la puzza sotto il naso e non ci date confidenza, però per una cassa di patate o una pezza di formaggio vendereste anche le vostre madri. Perché siete riggitani, che è cosa ben diversa dall’essere “reggini”. Stereotipi, naturalmente: durissimi da estirpare.
Per comprendere una città, bisogna farsela raccontare da chi la ama, anche quando è dispettosa o, addirittura, fedifraga.
Di Reggio “bella e dannata” è intrisa ogni parola di Antonio Calabrò, scrittore e punta di diamante del giornale online “ZoomSud”, sul quale negli ultimi due anni sono apparse le trenta storie di Reggio è un blues (Disoblio edizioni).
Amare non significa essere ciechi o nascondere la realtà. Amare significa non arrendersi al declino e al facile qualunquismo, grattare la storia per togliere la polvere dell’oblio da fatti, sentimenti, uomini e donne, trarre insegnamento da vicende minime ma emblematiche. Un lavoro che è una dichiarazione d’amore sia quando Calabrò, da “indagatore della storia”, riporta alla luce vicende dimenticate o sconosciute: il corteo antifascista in piena crisi Matteotti, alla diffusione della falsa notizia della caduta di Mussolini; l’episodio dell’affondamento dell’incrociatore “Pola” al largo di Capo Matapan, nel 1941; il racconto picaresco di Antonio “Gabba Dio” e l’irriverente aneddoto con protagonista Riccardo Cuor di Leone, il “re ladro di polli” . Sia quando usa l’arma dell’ironia per mettere in guardia del gorgo che ci sta risucchiando: siamo più soli e più arrabbiati, in un mondo dominato dall’egoismo e dall’edonismo. Sia quando la cronaca prende il sopravvento, con il dramma quotidiano della crisi economica, le vite stentate degli ultimi, l’orrore della morte.
Reggio è un blues è amore, nostalgia, delusione, dolore. Ma è anche un messaggio di speranza. Reggio non può essere “quella” che incendia il Museo dello strumento musicale (“lo stesso fuoco della biblioteca di Alessandria, lo stesso fuoco dei roghi nazisti”). Reggio è la fiumana di gente che reagisce riversandosi nelle strade, che suona, balla e canta per non darla vinta alla barbarie. Perché Reggio è un blues, la musica del riscatto.
*Articolo pubblicato su ZoomSud il 16 gennaio 2014: http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/62543-recensione-reggio-e-un-blues-di-antonio-calabro.html