Per parecchi anni, gennaio è stato un mese felice. Il compleanno di mia nonna Ciccia e quello di Mario, il campionato di calcio che riprendeva dopo la pausa natalizia, la speranza della neve e la sensazione di trovarmi seduto sullo slittino al cancelletto di partenza, pronto a lanciarmi velocemente verso l’estate laggiù in fondo. Oggi è un po’ diverso. Gennaio è il mese delle assenze: di nonna, la mattina dell’esame di storia moderna; di zio Ntoni, fratellastro di mia mamma, la notte in cui la morte entrò proprio dentro la nostra casa per svegliare tutti e addormentarne uno. Diciotto anni fa.
Ntoni “u spazzinu” aveva rischiato di morire appena nato, come sua mamma a pochi mesi dal parto. Tragedie familiari frequenti negli anni Trenta e anche in seguito, con la sala parto “allestita” dentro le abitazioni che impegnava tutte le donne della rruga: chi riscaldava l’acqua, chi porgeva tovaglie e ferri del mestiere alla mammina, chi preparava il pranzo per gli altri componenti della famiglia, chi si limitava a pregare perché tutto andasse per il meglio. Le preghiere servivano, eccome.
Ntoni la superò, anche se qualche traccia di quella battaglia gli rimase incisa tra le pieghe del cervello per tutta la vita. Riuscì però ad ottenere un posto da spazzino comunale, quando ancora il politically correct non aveva introdotto la figura dell’operatore ecologico e quando il netturbino proveniva esclusivamente dai ceti più poveri della società. Grazie al lavoro, soggetti a rischio di emarginazione riuscivano a ritagliarsi un ruolo e a svolgere una funzione nella comunità, contribuendo così al perseguimento del bene comune. Che in questo caso consisteva nel mantenimento della pulizia delle strade e delle piazze del paese.
Una cantilena di nomi forse meno prestigiosa di quella “Zoff-Gentile-Cabrini” vittoriosa a Spagna ’82, ma impressa nella mente dei bambini di allora: l’autista Peppino “llipari”, Saro “mbisca”, Vincenzo “u merru”, Ciccio Lombardo, Gianni Pitasi, Mico “u bandista”, Ciccio “cciamparancella”, Vincenzo “u bagasciu”, Ciccio “gaddina”. Quest’ultimo anche vandijaturi, in possesso di una voce squillante che dagli incroci delle strade raggiungeva i cortili e le case per annunciare il bando, generalmente la chiusura dell’acqua nel periodo estivo: «jettu u bandu… ca e cincu i stasira… chiudinu l’acqua!». Infine mio zio Ntoni, appena un ciuffetto di capelli sopra il centro della fronte, nascosto dal cappello blu come la sua divisa da spazzino comunale. Un uomo forte e senza misura, la cui figura spesso s’intravedeva appena, coperta dalla carriola caricata all’inverosimile di cartoni, che spingeva nelle salite del paese cercando di tenere il castello in equilibrio.
È innegabile che il servizio porta-a-porta degli anni Ottanta fosse efficientissimo, le strade del paese spazzate tutti i giorni senza l’ausilio di mezzi meccanici, la via occupata dalle bancarelle del mercato pulita ogni domenica in tempi record. Ci pensavano loro, con le ramazze di brojera che spesso ho visto preparare per zio Ntoni da mio nonno, la faccia caliata dal sole anche in vecchiaia, come se gli anni di duro lavoro da carbonaro o nei cantieri gli avessero per sempre marchiato la pelle. Il sangiovanni con il parroco del paese don Antonio Messina, suo padrino di cresima, comportava inoltre a Ntoni alcuni impegni extra: lavori nella casa del sacerdote, ma anche la raccolta della legna e dei rami per il “luminario” che il 6 settembre – allora come oggi – veniva acceso in onore della Protettrice.
Una vita di fatica analoga a quella di molti altri lavoratori anonimi: gente umile, dignitosa, esemplare nella propria semplicità.
*Nella fotografia, da sinistra: Peppino Oliverio, Mico Bonfiglio, Saro Bonfiglio, Vincenzo Federico, Ciccio Modaffari, Vincenzo Panuccio, Francescantonio Pentimalli.