Ci aveva aspettati nel letto. Non in cucina, dove anche dalla sedia a rotelle fino all’anno scorso riusciva a cucinare per figli e nipoti. Come le altre volte aveva baciato il ricordino dell’Agape e l’aveva fatto sistemare sulla specchiera antica, accanto a quelli più vecchi e alle foto in bianco e nero della sua vita. Il nostro modo di celebrare Natale, Pasqua o la “Giornata Mondiale del Malato” istituita nel 1992 da Giovanni Paolo II, che l’11 febbraio di ogni anno impegna i volontari dell’associazione nelle visite domiciliari e presso la residenza sanitaria assistenziale “Mons. Prof. Antonino Messina” di Sant’Eufemia. Una lunga fila di presepi, madonnine, rosari, immaginette sacre. L’essenza dei suoi giorni, comprensibile forse solo da chi ha la fortuna del dono di una fede incrollabile.
Mariuzza aveva avuto questo regalo. Almeno questo. La sua vita non è stata affatto rassegnazione, un calare la testa davanti ai colpi implacabili del fato. Se era una prova, l’ha superata brillantemente. E non perché abbia affrontato con dignità gli schiaffi che il destino non le ha risparmiato, ma perché delle avversità ha fatto la ragione della sua vita. Ergendosi a modello di mamma e di donna. Mostrando agli altri, a tutti noi, quanta forza può sprigionare l’amore per la propria famiglia.
Una lotta quotidiana e infinita contro malattie e disabilità, condotta col sorriso e senza mai un lamento. Alzandosi alle tre di notte per fare il bucato, perché di giorno c’era da mandare avanti il negozio di alimentari e un fratello, due figli e infine un marito bisognosi d’assistenza.
I veri eroi di questi nostri tempi sciagurati sono le donne e gli uomini come Mariuzza. Eroi silenziosi e forti, capaci di salvare il mondo con l’umanità dell’esempio, con l’umiltà che solo i grandi possiedono.
Non abbiamo saputo fare altro che abbracciare quel bambinone che singhiozzava il dolore di una solitudine che siamo certi la famiglia non permetterà. Eppure in quelle lacrime c’era l’amore più limpido e puro, che spesso non riusciamo a vedere perché lo cerchiamo dove ce l’aspettiamo, nella banalità delle nostre vite “normali”.