Le babbucce di Carminuzza

Sono nato in Australia nel mese di luglio, ed era inverno. Un inverno senza feste comandate, senza quei crudeli segnatempo carichi di malinconia per gli anni volati via, per volti e ricordi in dissolvenza. E sempre d’inverno sono arrivato, a quattro anni e mezzo, in questo paese che è diventato il mio guscio, alla vigilia di un ormai lontanissimo Natale. Non conoscevo nessuno, ma le rrughe di un tempo conoscevano i bambini prima ancora che nascessero. Così, le babbucce di lana lavorate ai ferri da Carminuzza hanno tenuto caldi i miei piedi, difendendoli dal freddo. C’era la neve: non l’avevo mai vista, né avevo mai sentito al tatto il suo gelo. Cominciai allora a sviluppare l’interesse per ciò che non conosco.
Oggi che porto sulle spalle il peso di parecchi anni in più, mi rassicura verificare intatta la curiosità di quel bambino. Lei muove tutto. Spinge a guardare dietro, oltre e in profondità. Raramente ciò che appare chiaro è verità: quando va bene è parte di una verità, che ha tante facce quante sono le angolazioni dalle quali si osservano fatti e persone. L’illusione di possederne una a portata di tasca è la presunzione di Icaro, con le sue ali di cera squagliate dal Sole.
La vita sa essere sorprendente, nel bene e nel male. È polvere e altare. La ricerca spasmodica della Felicità con la effe maiuscola crea insoddisfazione e incapacità di coglierne l’essenza, che è intrisa di normalità.
«Perché dovrebbe essere felice? Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?», risponde il Cardinale al regista in crisi («Eminenza, io non sono felice»), in una celebre scena del film “8½” di Federico Fellini. Spesso siamo felici, ma non ce ne accorgiamo, salvo rimpiangere molto tempo dopo ciò che è stato, quando realizziamo di non averne saputo godere mentre la sua routine svanita si srotolava. Il paesaggio osservato sfrecciando a 180 all’ora non è uguale a quello che assaporiamo attraversandolo a piedi. La differenza sta nella fretta, nell’ansia di fare e di arrivare. Dove?
Tiziano Terzani ci ha insegnato che “contento” è un vocabolo molto più calzante di “felice”. Accontentarsi significa non sottomettersi ad un sistema che produce sempre nuovi desideri, per lo più inutili, che generano frustrazione e tristezza. È il legno al quale aggrapparsi per non affondare quando le onde incombono altissime e minacciose, pronte a travolgere tutto.
Non si può scappare dalla vita, bisogna viverla qui e ora. Inseguendo la propria serenità, cercando di rendersi utili per qualcosa o per qualcuno. Tenendo a mente – con Georges Clemenceau – che i cimiteri sono pieni di persone indispensabili. Ostinandosi ad abbracciare l’umanità delle strade storte, a trarre insegnamenti dal prossimo e da ciò che accade (perché desiderato o contro la propria volontà), dagli errori, dalla miriade degli impercettibili miracoli quotidiani.
Mantenendosi seri, senza prendersi troppo sul serio.

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