Il rapporto Mezzogiorno-Governo centrale rischia di scivolare verso una china molto pericolosa, ma c’è una generale sottovalutazione di questa emergenza. Fino a quando, infatti, le popolazioni meridionali potranno sopportare di essere defraudate da un governo sfacciatamente sbilanciato sopra la linea Gustav?
Basta mettere in fila i provvedimenti adottati o comunque proposti per farsi un quadro del grado di attenzione riservato alle regioni meridionali e, in particolare, alla Calabria.
La vicenda dei fondi FAS (fondi per le aree sottosviluppate) è emblematica. Istituiti per sostenere lo sviluppo e l’occupazione al Sud, negli ultimi due anni sono stati platealmente saccheggiati (circa 31 miliardi di euro su un totale di quasi 54) dal governo con una logica da Robin Hood alla rovescia che ha consentito la redistribuzione alle regioni del Nord di fondi destinati a quelle meridionali.
Come se si trattasse di un bancomat, sono stati prelevati soldi per ripianare il debito pubblico, per l’emergenza rifiuti di Napoli, per la riqualificazione energetica degli immobili, per il taglio dell’Ici, per ripianare i buchi di bilancio dei comuni di Roma e Catania, per finanziare il Servizio sanitario nazionale, per mettere a posto i conti dell’Alitalia e delle Ferrovie dello Stato e per tanti altri provvedimenti (uno su tutti: la realizzazione, mai avvenuta, del G8 della Maddalena).
L’utilizzo improprio ha provocato la condanna della Corte dei Conti, che ha stigmatizzato l’andazzo di considerare i fondi FAS veri e propri “fondi di riserva” ai quali “si è fatto ricorso in modo massiccio” e in settori “non direttamente connessi con la missione concernente il riequilibrio territoriale”. Che tradotto vuol dire che soldi assegnati per risollevare l’economia del Sud sono stati invece utilizzati per coprire spese di diversa natura al Nord. Per essere più chiari: lodevole quanto si vuole (ci mancherebbe altro) l’iniziativa di alleviare con la cassa integrazione le pene degli operai rimasti senza lavoro, ma i soldi prelevati dai fondi FAS per finanziare l’operazione andavano destinati ad altri interventi, al Sud (mentre gli operai beneficiati risiedono prevalentemente al Nord).
Per non parlare degli imprenditori senza scrupolo scesi dal Nord – secondo la denuncia della senatrice UDC Dorina Bianchi – per fare della Calabria “terra di conquista”, approfittando dei finanziamenti della legge 488 e del Contratto d’area che hanno consentito loro di aprire le aziende “giusto il tempo necessario per avvalersi degli incentivi. Poi hanno chiuso le imprese, lasciando a spasso i lavoratori e tornandosene al Nord”.
E che dire della proposta, contenuta nella bozza originaria della manovra correttiva, poi scartata (ma ora riapparsa in un emendamento al disegno di legge sulla Carta delle autonomie all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera), di sopprimere le province con popolazione inferiore a 220.000 abitanti? È un esempio classico di come un progetto in linea di principio condivisibile – l’abolizione degli enti provinciali per tagliare un po’ di spese inutili, anche se, personalmente, preferirei tornare all’impianto originario del nostro Stato, abolendo le Regioni e conservando le province – diventi indigesto per la Calabria, visto che la scure governativa avrebbe risparmiato le province delle Regioni a statuto speciale e quelle direttamente confinanti con Stati esteri. Facevano prima a scrivere “si aboliscono le province di Vibo e Crotone”.
Non è antimeridionalista un provvedimento che, pur necessario, diventa punitivo soltanto per una parte d’Italia?
E la proposta di introdurre il pagamento del pedaggio sull’A3 Salerno-Reggio Calabria e sul raccordo reggino tra A3 e statale 106? O è uno scherzo, per cui chi l’ha proposto è inadeguato a governare, o è una vera e propria dichiarazione di guerra contro la Calabria. Vogliamo almeno sperare che il provvedimento riguardi qualche tratto già concluso e non il rischiosissimo budello-mulattiera che quotidianamente molti lavoratori sono costretti a percorrere facendosi il segno della croce prima di mettersi in viaggio.
Il ceto dirigente meridionale è chiamato ad un atto di grande responsabilità, pena il suo rovinoso naufragio. È necessaria una Santa Alleanza che superi le divisioni partitiche e realizzi un fronte comune (principalmente in Parlamento, dove non dovrebbe essere complicato bloccare i lavori affossando sistematicamente le iniziative della maggioranza) per ribaltare la logica del “divide et impera” che ha caratterizzato l’azione di tutti i governi post-unitari.
O la classe politica riuscirà ad incanalare su binari istituzionali il magma che si agita nella pancia della società, o verrà travolta dagli eventi.