Inseguivo questo libro da diversi anni, sperando in un colpo di fortuna che mi consentisse di acquistarlo ad un prezzo non troppo oneroso. Tutto sommato, ritengo che mi sia andata bene. La palma va a nord, unico libro di Leonardo Sciascia mai ristampato dopo il 1981 (Edizioni Quaderni Radicali) e il 1982 (Gammalibri) è un’antologia curata da Valter Vecellio che comprende “26 articoli, 23 interviste, 7 lunghe dichiarazioni, due comunicazioni e convegni, i testi di tre interventi parlamentari”, pubblicati tra il 1977 e il 1980.
Un libro corrosivo, potente, per certi versi scandaloso. Con La Sicilia come metafora rappresenta il punto più alto della produzione non narrativa del “maestro di Racalmuto”, dello Sciascia intellettuale, polemista, illuminista.
Il titolo riprende l’immagine di una celebre pagina del romanzo Il giorno della civetta: «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… Gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno. La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma». La linea degli scandali, del malaffare, della corruzione, della partitocrazia parassitaria, del degrado morale delle istituzioni, temi scandagliati da Sciascia nei suoi romanzi. Oggetto de La palma va a nord sono i temi caldi degli anni a cavallo dell’assassinio di Aldo Moro. L’affaire Moro è d’altronde del 1978: molti articoli e interventi di Sciascia sono dedicati proprio alla difesa del libro attaccato dal fronte della fermezza, contrario alla trattativa con i brigatisti, che poteva contare sull’influenza dei giornali e degli intellettuali di riferimento della democrazia cristiana e del partito comunista. Altrettanti alla polemica sulla sua candidatura con il partito radicale e l’abbandono del partito comunista che, tra l’altro, provocò la rottura dell’amicizia con il pittore Renato Guttuso.
Ho annotato alcune riflessioni di Sciascia che mi hanno particolarmente colpito per la loro attualità a quarant’anni di distanza, constatazione che a miei occhi rende inspiegabile la mancata ristampa di un libro che parla anche al nostro presente.
Sulla questione meridionale, oggetto delle attenzioni teoriche di tutti i governi succedutisi dall’Unità d’Italia in poi, Sciascia scriveva: «Del Sud ormai si parla soltanto nelle crisi di governo, come di un punto programmatico. Da lasciare, si capisce, sulla carta».
A proposito di scuola e meritocrazia: «La scuola di massa, secondo me, dovrebbe dare a tutti in partenza le stesse condizioni favorevoli, e poi vadano avanti coloro che possono andare avanti… Io sono ancora di quelli che credono nella meritocrazia. Non sono un reazionario, ma credo che non si possa accedere alle professioni senza conoscenza».
Sulla lotta alla mafia, che in nome dello Stato di diritto andrebbe condotta senza il ricorso ad una legislazione emergenziale che contrae fino ad annullare gli stessi principi costituzionali: «Lo scrissi nel 1960 nel Giorno della civetta. Continuo a pensare che il modo migliore per combattere la mafia è quello di mettere le mani sui conti bancari. Non capisco come fra l’incostituzionalità del confino e l’incostituzionalità del controllo dei conti bancari i governi abbiano scelto sempre la prima. Anzi, lo capisco benissimo: perché al confino si mandano sempre i soliti stracci, mentre per i conti bancari si sarebbe costretti ad andare più in alto».
Al quesito “Cos’è la libertà per lei?”, ribadiva: «A questo punto, una regola di buona educazione. Tutto sommato significa questo: non esiste più. Ormai abbiamo delle libertà corporative. Ognuno si prende la libertà senza badare a quella degli altri, mentre la libertà è il badare alla libertà degli altri».
Di straordinaria attualità la risposta alla domanda “Questa sembra essere l’età del malessere. Siamo sempre più infelici, viviamo sempre peggio. Perché?”: «Perché abbiamo finito col votarci a un edonismo senza gioia. Si “deve” essere felici, tristemente felici, a tutti i costi, nel modo più disperato. E crediamo di poterlo essere tutti con la stessa formula, secondo moduli di felicità da riempire proprio come i moduli a stampa. La felicità, invece, va inventata giorno per giorno, ora per ora. Ma ho l’impressione che sia perduta perfino la nozione della felicità: forse perché, avendo perduto la nozione della morte, il pensiero della morte, si è perduto insieme il senso della vita».
Così, infine, controbatteva all’osservazione di essere diventato, da sconosciuto insegnante siciliano, “il più grande scrittore del dopoguerra”: «Io ho sempre voluto essere “qualcuno”. Il posto dove vivo meglio è il mio paese nativo, dove infatti sono “qualcuno”, dove sono come sarei stato anche se non avessi mai scritto i miei libri».