Un tema serissimo come la riforma federalista si è trasformato in un terreno di battaglia la cui posta in palio non è la revisione dell’impianto istituzionale dello Stato. Siamo dentro al solito ring, con contendenti che si producono nell’ennesima esibizione muscolare, senza alcuna capacità o volontà di confrontarsi sul merito delle proposte. È il consueto muro contro muro, tra mondi incapaci di parlarsi. A rimetterci è la politica, che gode ogni giorno di sempre minore credibilità, e il Paese, in costante affanno. È evidente che sul tavolo ci sono esigenze principalmente strumentali. E quando il collante si riduce all’opportunità politica del momento, è illusorio sperare in operazioni di ampio respiro.
L’approvazione, in fretta e furia, del decreto legislativo in materia di federalismo municipale che, di fatto, calpestava le prerogative di parlamento, regioni e enti locali (come ha ammonito il Colle dichiarando il provvedimento “irricevibile”), tradisce il comprensibile nervosismo della Lega, dopo la bocciatura del parere di maggioranza da parte della commissione bicamerale sul federalismo municipale. La forzatura procedurale – qualcosa di simile ad una “prova d’amore” – pretesa da Bossi per non fare cadere il governo, conferma la subalternità di Berlusconi nei confronti del Carroccio, il vero dominus dell’Esecutivo. Da questo punto di vista, l’irritazione attribuita al sempre equilibrato e felpato Gianni Letta, rappresenta la spia del crescente imbarazzo che serpeggia tra alcuni fedelissimi del premier, ormai stanchi di una “guerra santa” contro tutto e tutti, oggi il Quirinale, domani la magistratura, dopodomani il parlamento e la corte costituzionale.
Per dirla con parole prese a prestito dal gergo sportivo, la Lega aveva però l’esigenza vitale di portare a casa un risultato positivo. Non può presentarsi ad eventuali elezioni senza avere centrato l’obiettivo storico del federalismo, la ragione stessa della sua esistenza e del suo successo elettorale. Il popolo leghista dà segnali di insofferenza e comincia a non credere più al fortunato e abusato slogan di “Roma ladrona”. Tra tutti i partiti in Parlamento, il Carroccio è quello che più di tutti ha governato dal 1994 ad oggi, per cui diventa sempre più difficile sostenere una posizione di “purezza” contrapposta ad un mondo marcio. La Lega è parte integrante del sistema politico italiano e l’auto-rappresentazione di forza anti-sistema attecchisce sempre meno presso un elettorato disincantato da una gestione del potere non molto dissimile da quanto avveniva nella nefanda Prima Repubblica. Nell’attuale quadro politico, fatto di annunci e propaganda, Berlusconi non può permettersi il lusso di fare “brutta figura” con il prezioso alleato. Pare infatti che, di fronte al risultato della votazione nella commissione bicamerale, Bossi sia sbottato: “A me delle questioni interpretative frega niente, qui c’è una questione politica. E questo è il momento di vedere se abbiamo le palle”. Mentre, a sbrego costituzionale compiuto, avrebbe esultato: “La Lega mantiene le promesse e porta a casa un risultato concreto nell’interesse dei cittadini”.
La disinvoltura con cui sono state calpestate fondamentali prerogative istituzionali dovrebbe indignare chiunque possegga un minimo di senso delle istituzioni. Non Berlusconi, che al momento ha anche l’esigenza di guadagnare tempo e spostare il più in avanti possibile la data delle possibili elezioni politiche. Posizione, questa, condivisa anche dalla Lega, poco propensa a ricoprire in campagna elettorale lo scomodo ruolo di difensore del premier davanti al proprio elettorato, tutt’altro che indulgente da quanto si intuisce ascoltando alcune telefonate a Radio Padania. Proprio per questi motivi, l’opposizione ha intravisto la possibilità di rientrare nel gioco e tenta di inserire un cuneo tra Bossi e Berlusconi, facendo intendere che con un’altra compagine la riforma non incontrerebbe alcun ostacolo. Per commentare l’attuale condotta del premier è stato rispolverato l’andreottiano “tirare a campare”: “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, rispose un giorno il divo Giulio a chi contestava la sua filosofia di vita. Essere giunto ad una situazione del genere rappresenta il contrappasso più crudele per chi era “sceso in campo” per sconfiggere il teatrino della vecchia politica.