Conviveteci voi, se ne siete capaci, con una gobba che vi deforma il corpo e lo spirito. Con il disprezzo della gente, ché jimbu e zoppia non possono non avere a che fare con i peccati di qualche impresentabile antenato e, quindi, ben vi sta. Non ascoltate Ezechiele. Geremia avverte che le colpe dei padri ricadono sui figli, perché qualcuno deve pur pagare: nessuno pensi di riuscire a farla franca. Ve lo fa credere anche il prete, lo so, sfogliando la margherita del librone che sistemo già aperto alla pagina che ascoltate in un silenzio gelido. Voi non sapete leggere, io sì. A fatica, ma quel tanto che mi basta per capire che le parole vanno interpretate e che chi le interpreta è l’unico vero Dio.
Don Saverio mi prese con sé, per rispetto del sangiovanni che aveva con mio nonno: un modo per dare a uno sgorbio un ruolo nella società affidandogli il compito di accendere e spegnere le candele, togliere la cera bruciata, annunciare con lo sguardo l’inizio della messa. Insomma, ho imparato a cantilenare brani arcani proprio grazie a questo panetto da mezzo chilo che mi ritrovo piantato sulla scapola, a incurvarla. Altrimenti sarei rimasto un cafone come voi, schiavo di gnuri che a stento vi riconoscono il diritto di mangiare, quando arriva il momento di spartire con loro il raccolto di ciò che voi avete seminato. Che fra voi e il mulo con cui condividete sforzo e fame e freddo non fanno differenza. Che si scopano le vostre mogli e le vostre figlie perché qua, in questo inizio di Novecento, è ancora e sempre tutta roba loro.
Quando faccio tintinnare il campanello e vi lasciate cadere sulle ginocchia, a questo pensate, alla pena che certamente state scontando sulla terra, che vi varrà – sperate – una carezza sul prezzo finale: perdona, Signore, i miei peccati e quelli dei miei cari. Lo leggo sulle vostre labbra tremanti per gli spifferi e per la paura dell’inferno che potrebbe toccarvi in sorte.
La vostra ripugnanza è il carburante della mia abiezione. La vomito sui ragazzi che si prendono gioco di me, quando riesco ad acciuffarne qualcuno e lo rimando dai genitori pestato per bene. Come il chierichetto cui dovettero staccare la tavoletta chiodata che rabbiosamente gli avevo conficcato nella coscia mentre cercava di tuffarsi fuori dalla sagrestia.
A risalire controcorrente il sangue del mio sangue, dicevo, bisogna perciò imbattersi per forza in un nonno assassino o in una zia puttana. Un ubriacone che per un bicchiere di vino negato al tocco avrà chiamato fuori dalla cantina il cornuto che ha osato tanto, per poi lasciarlo dentro la conetta della strada, riverso sulle sue stesse luride viscere. Una zitellona indifferente al sudore stantio di corpi sfatti dalla fatica e dall’alcol, perché il denaro non fete se la pancia reclama un boccone. La ragione di una punizione divina così appariscente va ricercata in altre vite, mi pare ovvio.
Eppure sono salvo, mentre tutto intorno a me continua a crollare. Il flagello di questo finale d’anno è per voi che avreste banchettato con il poco che custodite nelle credenze di povere baracche, cicatrice ancora fresca di un’altra recente punizione divina. Perché la mia pena è dietro alle mie spalle, non davanti ai miei occhi. Non avrei certo festeggiato, io. Non ne ho motivo. Avrei invece agognato il mattino, per incontrare volti da scrutare e non salutare.
Ne sto incrociando molti, stamattina. Stravolti, impolverati, incrostati di sangue rappreso. Mi aggiro tra le rovine e le vittime che – dicono – sono più di cinquecento, forse mille. Non provo pietà per il dolore e per le lacrime che rendono vive queste strade morte. Come se l’orrore di questo 28 dicembre 1908 fosse la mia rivincita, una vittoria finalmente: la bruttezza ci salverà.
La bruttezza ti salverà. Non tanto il grido d’aiuto che solo io ho raccolto – di certo non possono ascoltarlo le vite che saranno e che attendono le tue mani per affacciarsi al mondo – e che ha portato il mio passo claudicante davanti al cumulo di macerie che ti sta seppellendo viva. Ti tirerò fuori solo se accetterai di sposarmi.
Tocca a te decidere.