Anche nell’Aspromonte c’è stato un tempo in cui, come nella Macondo di Gabriel Garcia Màrquez, “il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”. Ogni cosa ebbe poi un nome, ma, più tardi, i nomi furono cancellati e con essi la civiltà che li aveva prodotti, esito funesto del processo di omologazione culturale denunciato da Pier Paolo Pasolini mezzo secolo fa, che spazzò via i dialetti e ridusse “tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività”.
Il nuovo romanzo di Gioacchino Criaco (Il custode delle parole, edito da Feltrinelli) è un libro dalle molteplici suggestioni. Riecheggia il monito di Corrado Alvaro sulla “civiltà che scompare” e sulla quale “non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”. Criaco non piange, anzi indica la via di una possibile rinascita offrendo al lettore, alla maniera dell’ottico “mercante di luce” di Edgar Lee Masters e Fabrizio De Andrè, le lenti speciali per “rubare il sole” e consentire a chi avrà freddo di riscaldarsi: verbo che, non a caso, nel grecanico ha la stessa etimologia del termine “cuore”.
Il custode delle parole è un poema sull’Aspromonte tutt’altro che incline al compiacimento o al vittimismo. Ci è stato rubato tutto, perché noi per primi ci siamo svenduti e abbiamo rinunciato a tutto. Perché abbiamo fatto la fine degli indiani d’America, fregati “con un po’ di acqua di fuoco e un mucchio di perline colorate”: questa la sorte dei pastori africoti deportati sul mare dopo l’alluvione del 1951 e lì costretti a vivere, rinunciando alla propria identità montanara. Le responsabilità dello scippo vanno equamente divise tra noi e “loro”, i nemici della Calabria. Ci siamo fatti scippare le parole, ma “se a un popolo rubano le parole, quel popolo è morto. E la nostra gente non vive più già da qualche secolo: è morta e non lo sa”.
Passaggio obbligato del riscatto deve essere dunque la riappropriazione di un linguaggio e di una storia millenari, che nel romanzo hanno il volto di Andrìa Amèroto. Il vecchio pastore che sabota le dighe e sa cosa è giusto fare – anche se quel giusto è “troppo difficile da praticare”, perché “qui tutti siamo colpevoli per la legge, retti e loschi” – ha realizzato il suo sogno di libertà tra gli alberi dell’Aspromonte. Ascoltando anche i silenzi, in uno spazio dove nessuno può dirgli cosa deve fare, e vivendo pienamente la propria storia: quella di custode delle parole “per un popolo che le ha perse e vaga, negli anfratti delle nuvole”. Parole che “mette in un piatto e gli apre la pancia con il coltello”.
Cosa fare della propria vita, invece, non lo sa il nipote (Andrìa, come il nonno), lavoratore precario in un call center insieme alla battagliera fidanzata Caterina, nata in Francia da genitori emigrati e ritornata nella Locride. Fino a quando non salva il profugo libico Yidir, il quale diventa aiutante del nonno, che lo tiene clandestinamente con sé. La lenta presa di coscienza consentirà al giovane Andrìa di superare il lacerante conflitto interiore tra restare e partire, che in fondo sono due facce dello stesso coraggio.
Per costruire il futuro, è necessario recuperare il passato nella sua autenticità ed originalità. Si può così scoprire l’inganno non puramente semantico di una montagna lucente che altri hanno decisa aspra e ostile, distorcendone l’etimologia. O che la morte stessa può rappresentare un inizio, poiché i vocaboli morire e volare, nel greco aspromontano, sono quasi identici: “al posto di morire si può dire volare. E chi vola non muore mai”.