Il commediografo greco Menandro sosteneva che “il più dolce degli amori è l’amore che unisce due fratelli”. Ora che te ne sei andato, caro zio Stefano, non posso non pensare al sentimento fortissimo che ti legava a tuo fratello, mio padre. Ho assorbito come una spugna i vostri racconti, le vostre parole continuano a riscaldarmi.
Un autore che prediligo, Erri De Luca, ha scritto che “tutti gli occhi per vedere hanno bisogno di lacrime, se no diventano come quelli dei pesci che all’asciutto non vedono niente e si seccano ciechi. Sono le lacrime che permettono di vedere”. A tutti noi che ti abbiamo voluto bene, le lacrime di questi giorni hanno permesso di vedere, come in una rivelazione, ciò che sapevamo ma su cui spesso si sorvola, catturati come siamo dall’urgenza del quotidiano, dalla materialità dei giorni che si succedono ai giorni. Nella vita conta l’amore, conta ciò che di bello e di profondo riusciamo a costruire nel rapporto con gli altri e che sempre ritorna, come un’onda, quando abbiamo bisogno di capire chi siamo e cosa desideriamo.
La nostalgia è qualcosa che, facendo rivivere persone e luoghi, tiene compagnia. Ho nostalgia di te e della tua bonaria allegria. Ho nostalgia di te e di mio papà insieme, di quel rapporto simbiotico che poteva indurre a confondere un fratello con l’altro. Nel mio ricordo siete giovani e caparbi, pronti a prendere a morsi la vita per non soccombere alle avversità.
Conoscevate la miseria perché il suo volto vi era stato familiare. Da questa consapevolezza nasce la capacità di attribuire il giusto valore ad ogni cosa, anche a ciò che può sembrare insignificante agli occhi di chi ha tutto. Per voi non è stato così e se noi, oggi, comprendiamo la grandezza del sacrificio e la dignità del lavoro, lo dobbiamo al vostro esempio.
Nei vostri racconti ho cercato di cogliere l’epica della lotta. Quella di bambini cresciuti sotto le lamiere di una piccola baracca: corpo contro corpo, nel letto condiviso con adulti e piccini, per riscaldarsi in inverno. Senza acqua, se non quella prelevata dalla fontana pubblica. Senza luce, se non quella debole del lume ad olio. Senza molto da mangiare, dentro la pentola messa a bollire sul fusto alimentato con la segatura.
L’emigrazione in Australia è stato il prezzo da pagare per tendere con dignità ad una prospettiva diversa, che risparmiasse ai figli gli stenti dell’adolescenza dei padri. Con rulli e pennelli avete donato al loro futuro il colore di una speranza nuova. Affondiamo le nostre radici in questa storia, che sa di fame, di orgoglio, di coraggio e di riscatto; che ci ricorda da dove veniamo e ci esorta a non smettere mai di inseguire una possibilità.
Dal giorno della tua morte, tra le pieghe dei miei ricordi fa capolino un episodio di allegra spensieratezza, risalente all’estate che molti anni fa trascorresti a Sant’Eufemia. Ogni mattina si andava al mare e ogni mattina, arrivati nella curva che costeggia il castello di Scilla, nel punto esatto in cui la spiaggia sottostante si presenta e la bocca del mare si spalanca, puntualmente canticchiavi l’attacco di un vecchio successo di Edoardo Vianello: «Con le pinne, il fucile e gli occhiali/ mentre il mare è una tavola blu…». Mi aggrappo al tuo sorriso di allora, all’immagine di te felice insieme ai tuoi “niputeddi”, come fino alla fine ci hai sempre affettuosamente chiamati.
Buon viaggio, zio.