“Nel pacchetto ci sono due sigarette, una per te e una per me. Io da domani non fumo”. Con queste parole, due anni fa attaccai la sigaretta al chiodo, dopo quindici anni di onorata carriera. Qualcosa in più se contiamo anche le esperienze “giovanili”. Una terrificante N80 a quindici anni, di ritorno da Palmi sulla Littorina; un pacchetto di Merit divorato in tre alla Pineta, in non più di venti minuti; quelle scroccate a mio fratello e a Nino. Ma il “vizio” (lo spartiacque è dato dall’acquisto personale) risale al terzo anno di università. Quando ormai stavo per passare indenne dal periodo statisticamente più rischioso. L’università, si diventa grandi, si vive lontano da casa. E si fuma. Per darsi un tono, perché lo fanno gli altri, per sentirsi figo, per assumere la posa da “maledetto”.
Come James Dean nel poster alla parete della mia cameretta. O il tenebroso Humphrey Bogart che in Casablanca avrà fumato minimo due stecche di “bionde”. Gli esempi negativi, da questo punto di vista, sono infiniti.
Ho fumato Lucky Strike, per sentirmi un po’ Vasco. Avrei voluto essere De André, bellissimo con la sigaretta tra le dita. Me lo immaginavo pensoso, ubriaco e incazzatissimo, una-boccata-un-bicchiere-un-verso, una-boccata-un-bicchiere-un-verso: “evaporato in una nuvola rossa”.
Oppure Guccini: “E ho ancora la forza di guardarmi attorno/ mischiando le parole con due pacchetti al giorno”.
Non un fumatore incallito, però le mie dieci-quindici sigarette al giorno le fumavo. Anche se non sono mai stato riconosciuto come un top smoker, soprattutto in famiglia. Quando offrii a mio padre (un fuoriclasse) una Marlboro “light”, l’unica volta in cui era rimasto senza le sue “rosse”, quasi mi umiliò: “come fai a fumare questa roba? Puzza!”. Per non dire di mio fratello Luis, definitivo: “o fumi Marlboro rosse, o è meglio lasciare stare”.
Avevo provato altre volte a smettere, con scarsi risultati. Al massimo, un paio di mesi. Dopo ho sempre ripreso. Come fare, d’altronde? Metti che hai un problema che non ti fa dormire la notte. Ci vuole la sigaretta. Se devi prendere una decisione importante, ci vogliono un paio di boccate vigorose per non fare la scelta sbagliata.
“Ora ho troppe preoccupazioni” è il più comodo e infantile degli alibi. Perché motivi per non essere sereni, purtroppo, se ne presentano tutti i giorni. E poi, chi non fuma, allora come fa a sopravvivere ai propri guai? Smettere è una questione di testa. Perché, spesso, la sigaretta è un gesto istintivo. Un riflesso pavloviano. Subito dopo il caffè, appena metti in moto la macchina, all’uscita dal cinema. Proprio per questo, i primi giorni sono davvero duri. Corsi online, prodotti omeopatici, agopuntura, ipnosi, psicoterapia comportamentale, sostituti nicotinici (cerotti, gomme e pastiglie, sigarette elettroniche o senza tabacco, inalatori) sono però una perdita di tempo e di soldi. Addirittura, esistono “centri antifumo”, suppongo strutture simili alla clinica per dimagrire del dottor Birkenmayer (Il secondo tragico Fantozzi).
Questione di testa. Altrimenti si finisce come lo studente universitario che durante uno sciopero dei tabaccai, dopo avere esaurito le scorte racimolate al mercato nero, acquistò in farmacia una sigaretta senza tabacco pur di fumare qualcosa. Un mito.