Per chi non c’era, il testo del mio intervento alla presentazione del libro di Antonio Calabrò, Reggio è un blues, presso la sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso, a Bagnara Calabra. La foto è tratta dal profilo facebook di Ginevra Hepburn
Ho incrociato Antonio Calabrò sei mesi fa, grazie alla sua rassegna “Calabria d’Autore”, un’iniziativa culturale di successo portata avanti in collaborazione con l’Associazione “Incontriamoci Sempre” di Reggio Calabria in quello splendido gioiellino che è la stazione ferroviaria di Santa Caterina: una struttura abbandonata che l’Associazione presieduta da Pino Strati ormai da anni ha restituito alla collettività, rendendola uno dei luoghi culturalmente più vivaci di Reggio.
Antonio Calabrò è tante cose, tutte molto intriganti: scrittore, giornalista di punta del giornale online ZoomSud, simpatico cultore di quella musica che sembra arrivare dal mare e che lui raccoglie e rilancia dal suo “Balcone sullo Stretto”. Ma anche agitatore culturale, un vulcano di idee che si traducono in iniziative di riconosciuta qualità. Calabrò rappresenta uno dei tanti volti belli di quella Reggio che egli stesso definisce “bella e dannata”.
Conoscevo già, invece, Salvatore Bellantone. Avevamo avuto un “contatto” un paio d’anni fa e la cosa che mi colpì nel nostro primo incontro furono le sue parole: “voglio fare l’editore, qui”. Nel mondo della piccola editoria, è un’affermazione molto coraggiosa, perché spesso si finisce con il diventare semplici stampatori.
Bellantone invece ha coraggio e talento. E quindi fa l’editore, qui: legge quello che gli propongono o che lui stesso intuisce possa essere meritevole di essere divulgato e se la sua valutazione è positiva, pubblica. I volumi di “Disoblio” sono l’esito finale di un’operazione editoriale molto attenta ai contenuti, che devono coincidere con la “mission” di questa giovane casa editrice: valorizzare le energie e le risorse locali, portare alla luce quel patrimonio culturale del territorio che va ricercato con pazienza certosina. Perché esiste, Bellantone lo sa, però va cercato con quella lanterna che è il simbolo di “Disoblio” e che, in fondo, fa svolgere alla casa editrice la stessa funzione etica delle biblioteche in Marguerite Yourcenar: granai nei quali vengono ammassate le riserve contro “l’inverno dello spirito”. Un’attività che è culturale e sociale. E che pertanto va incoraggiata e sostenuta.
“Reggio è un blues”, quindi. Calabrò aveva già avuto modo di farsi apprezzare nel 2005 con Johnny Rolling. Una gioventù di musica, battaglie e amori nella Calabria degli anni ’70, un libro sulle passioni e sulle contraddizioni della generazione post-sessantottina; e nel 2010 con Un libro ci salverà, un titolo che ci dice molto sulla vera natura di Antonio Calabrò. Un ottimista irriducibile: anche quando la realtà che racconta è amara e dolorosa, Calabrò concede uno spiraglio alla speranza, alla convinzione che la strada del bello esiste e che spetta a noi cercarla e percorrerla.
Calabrò è giornalista e scrittore. La tempestività è quella del cronista di strada. Leggendo ZoomSud a volte mi chiedo: “ma come ha fatto a scrivere già un pezzo su quell’avvenimento, se si sa qualcosa da neanche un’ora?”. Antenne dritte, fiuto e penna fluida. Queste sono le doti dei grandi giornalisti. Che, ovviamente, non inficiano il giudizio sullo “scrittore”: semmai, ne arricchiscono il profilo. Perché è anche vero che Calabrò “narra” la realtà che lo circonda mettendoci tutto se stesso. Il suo non è mai un racconto asettico. La passione trasuda da ogni parola utilizzata per raccontare storie e drammi di questa martoriata e splendida città che è Reggio. Una città sempre in bilico tra salvezza e dannazione, che Calabrò racconta senza farsi prendere la mano né dalla retorica indulgente e fatua, né dal qualunquismo parolaio di chi è bravo soltanto a criticare senza mai sporcarsi le mani per migliorare la società in cui vive. Una scrittura “impegnata”, quindi, perché le parole non sono involucri vuoti, ma lo scrigno di emozioni e sentimenti che vanno tradotti in energia positiva.
Da attento osservatore, Calabrò rileva le storture, le contraddizioni, i difetti della sua città. È proprio dalla constatazione di ciò che rende Reggio brutta e invivibile che occorre ripartire: gli scempi ambientali, il malaffare, la ’ndrangheta. Ma anche dalla deriva etica di una società che sembra avere smarrito la bussola dei vecchi e sani valori. Nascondere la polvere sotto il tappeto non serve. Ecco perché i racconti di Calabrò sono un costante invito alla responsabilità. Senza una collettiva assunzione di responsabilità, ogni sforzo si rivelerebbe inutile.
La denuncia si accompagna quindi alla proposizione di esempi di bellezza pescati nell’attualità o nel passato della storia della città. Il ricordo diventa resistenza, ribellione e speranza. Anche quando racconta il disastro materiale e morale di Reggio, l’autore lo fa offrendo la possibilità di un’altra città. Non tutto è perduto, ma solo se ci rendiamo conto di ciò che siamo diventati possiamo darci un orizzonte di speranza e confidare in un futuro migliore.
Calabrò utilizza diversi registri di scrittura: l’arma sottile dell’ironia, quella romantica della nostalgia per i bei tempi andati, quella asciutta della fedeltà a una rappresentazione mai edulcorata. La sua sensibilità è attratta da storie dimenticate che hanno spesso come protagonisti i “vinti”: storie che racconta con “compassione”, che è la capacità di “patire con”, di sentire cioè sulla propria pelle la sofferenza altrui. Il dramma delle vite stentate degli ultimi, la crisi economica e quella etica del gorgo che ci sta risucchiando: siamo più soli e più arrabbiati, in un mondo dominato dall’egoismo e dall’edonismo.
Come un vecchio menestrello Calabrò racconta storie ascoltate chissà dove e chissà quando. Il suo rapporto con Reggio Calabria rimanda a quello tra Jorge Luis Borges e Buenos Aires, alla profondità e alla magia di un’affermazione ripresa da Leonardo Sciascia in riferimento alla sua amata Racalmuto: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”.
Storie dimenticate e una città che purtroppo non esiste più. La Reggio non ancora violentata da una cementificazione selvaggia; la Reggio non ancora umiliata da due terrificanti guerre di ’ndrangheta; la Reggio non ancora saccheggiata da una classe dirigente inadeguata e truffaldina, la Reggio dei mestieri; la Reggio dei “rioni”: il “Pescatori”, il “Ferrovieri”, il confine geografico del Calopinace, sorta di “via Emilia” nell’accezione gucciniana di limite estremo nella Modena del secondo dopoguerra, al di là del quale c’era il “West”.
Ricomporre le tessere di questo antico mosaico non è ginnastica per la mente, bensì corrisponde ad un maturo impegno civile. Nella ossessiva ricerca di conferme di un passato diverso da questo triste presente emerge il tema principale dei racconti di Calabrò: l’amore incondizionato per la propria città, che l’autore dichiara senza giri di parole: “è la potenza dell’amore che mi spinge a criticare Reggio e perfino ad odiarla”.
Perché amare non significa coprirsi gli occhi o nascondere la realtà. Amare significa non arrendersi al declino; significa grattare il passato per togliere la polvere dell’oblio da avvenimenti e persone, trarre insegnamento da vicende minime ma emblematiche.
Reggio è un blues è amore, nostalgia, delusione, dolore. Ma è soprattutto un messaggio di speranza. Reggio non può essere “quella” che incendia il Museo dello strumento musicale (“lo stesso fuoco della biblioteca di Alessandria, lo stesso fuoco dei roghi nazisti”). Reggio è la fiumana di gente che reagisce riversandosi nelle strade, che suona, balla e canta per non darla vinta alla barbarie. Perché Reggio è un blues, la musica del riscatto.
Un riscatto nel quale Antonio Calabrò, nonostante tutto, continua a credere. E noi con lui.