Ho perso un amico. Può apparire insolito adoperare un termine, già di per sé impegnativo al giorno d’oggi, in riferimento al rapporto istauratosi tra due uomini anagraficamente così distanti. Eppure gli ottantacinque anni di Vincenzo Martino non sono stati di ostacolo alla bella amicizia che c’è stata tra noi. Merito suo, uomo d’altri tempi capace di misurarsi con questi tempi senza recedere un centimetro dalle sue salde convinzioni, dal valore irrinunciabile del rispetto e dalla sacralità della parola data. Un uomo austero, intransigente, essenziale come le frasi non sprecate, mai fuori luogo. Ho avuto il privilegio di apprezzarne la coerenza e il rigore morale grazie ad una frequentazione diventata via via assidua. Quotidiana come il caffè consumato al bar ogni mattina, o seduti sulla panchina sotto casa sua: un piacevole pretesto per vedersi, per stare un po’ insieme e per confrontarsi su ciò che leggevamo sui giornali, ascoltavamo in televisione, vedevamo accadere in paese. Dal globale al locale, il suo punto di vista mi interessava; la stessa cosa valeva per lui.
Quando poi il passato prendeva il sopravvento, i suoi racconti mi portavano in un mondo che non ho conosciuto ma che ho potuto rivivere attraverso i suoi occhi. Ho ascoltato con riverenza i suoi ricordi degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, la dura vita dei contadini, il sudore e il sangue di esistenze che hanno regalato a chi è venuto dopo un orizzonte diverso. Il lavoro nei campi con il padre («Lui sì che era un comunista vero. Oggi non ce ne sono più; neanche io lo sono»), a zappare la terra o a “rampare” gli uliveti. Il paese attraversato zappa in spalla di buon mattino, a volte inutilmente se il maltempo costringeva la squadra dei braccianti a fare ritorno a casa, a mani vuote dopo un paio d’ore di cammino all’andata e altrettante al ritorno. I muri tirati su a Gambarie, dove ci eravamo riproposti un giorno di andare, affinché io vedessi. Le stagioni alla guida dell’Ape per portare nei mercati i prodotti dei contadini delle nostre campagne. Gli anni da operaio delle Ferrovie, inizialmente sulla ionica, poi a Gioia Tauro.
Alla propria famiglia ha donato tutto sé stesso, dai figli e dai nipoti ha ricevuto amore smisurato, attenzione e cura.
Comunista tutto d’un pezzo, la sua più grande passione è stata la politica intesa come appartenenza («Al Partito volevo bene come a mio padre»), lotta contro le ingiustizie sociali e per il riscatto degli ultimi. Il voto come diritto, ma soprattutto dovere («Non votare, per me, sarebbe come per un credente non entrare in chiesa. Lo farò finché avrò la forza di respirare»), da assolvere il prima possibile, magari aspettando all’ingresso della sezione l’arrivo dei componenti del seggio elettorale.
Fu al mio fianco quando fui candidato a sindaco. Ci mise cuore ed impegno senza risparmiarsi, con coraggio e lealtà perché ci credeva. E questo è stato per me il più bel regalo. Abbiamo parlato molto negli ultimi anni: delle sue parole spero di fare tesoro, ora che mi mancheranno.