La pacchia

Gli immigrati sono i nuovi ebrei, la feccia del mondo sulla quale scaricare l’istinto animale di una società in sofferenza. Nei momenti più bui della storia dell’umanità, per giustificare odio e violenza si è sempre cercato un capro espiatorio. Oggi il capro espiatorio è il colore della pelle di chi non ha niente, se non la forza delle proprie braccia pagata a 2-3 euro l’ora. Quelli che “rubano il lavoro agli italiani”.
Della vicenda di Sacko Soumalia so quello che ho letto sui giornali o facendo un giro nella rete. Forse stava rubando vecchie lamiere da una fabbrica in disuso per potere sistemare alla meglio il suo fatiscente alloggio del ghetto di San Ferdinando, una struttura che grida vendetta al cospetto di Dio. O forse era un sindacalista che lottava per migliorare le condizioni lavorative e di vita dei propri compagni sfruttati nella piana di Gioia Tauro.
Dal mio punto di vista è irrilevante. Quel che conta è che è stato ucciso un ragazzo di 29 anni con un colpo di fucile sparato da 60 metri; ed io penso che in una società appena appena “umana” non dovrebbero esistere cecchini che sparano per uccidere altri uomini. Penso anche che a Gioia Tauro un cecchino non avrebbe preso la mira contro un ladro bianco, magari calabrese: la vita di un negro non vale niente, solo partendo da questo assunto si può comprendere la barbarie del gesto.
Ieri il “Corriere della Sera” ha pubblicato un’intervista all’ex ministro dell’Interno Marco Minniti che andrebbe incorniciata. Non esiste altra via che quella della ricerca di un punto di sintesi tra le ragioni della sicurezza e quelle del rispetto dei più elementari principi di umanità.
La propaganda elettorale permanente nella quale viviamo, alimentata da una studiata strategia mediatica, non ci permette di fermarci per riflettere sulla complessità del fenomeno migratorio. Soffiare sul fuoco dell’odio di un elettorato impaurito e arrabbiato è politicamente redditizio. Ma poi ci sono responsabilità di governo urgenti e ineludibili, ai quali non si può dare risposta a colpi di tweet o di video-messaggi privi di contraddittorio: anche perché i migranti continuano ad arrivare. La questione è come affrontare le problematiche connesse ad un esodo inarrestabile: e questo c’entra poco con “gli stranieri che delinquono”.
Le semplificazioni vanno bene in campagna elettorale, meno quando si tratta di governare. Alimentare tensioni è da irresponsabili. Un ministro dell’Interno non può e non deve essere irresponsabile: non può permetterselo, né può esprimersi come l’avventore di una bettola.
Due anni fa mi trovavo ricoverato all’ospedale “Riuniti” per un piccolo intervento. Nella notte furono portate diverse donne, sbarcate nel porto di Reggio Calabria con altre centinaia di disperati che avevano affrontato il viaggio dall’Africa stipate nel vano motori. Avevano ustioni su tutto il corpo, soprattutto alle gambe e alla schiena, tanto che non riuscivano a stare sdraiate sopra il lettino. Uno strazio. Le vedevi tutto il giorno piegate sulla pancia, appoggiate nella parte centrale del materasso, come se stessero affacciate ad una finestra. La finestra della libertà, dalla quale affacciarsi con gli occhi gonfi di paura e di sofferenza, nel petto la speranza di una vita migliore. La “pacchia” no, nei loro occhi quella non si leggeva.

Condividi

Don Tito

Morire di dolore per la perdita di un fratello. Restiamo nudi, come se fossimo spogliati degli orpelli di questa misteriosa cavalcata che è la vita. Noi piccolissimi esseri umani e la grandezza tragica dell’amore, il sentimento che può renderci migliori se solo ci abbandonassimo ad esso senza sovrastrutture, se gli dessimo la mano e aggrappati alla sua ci lasciassimo guidare come fanno i bambini.
Forse proprio a quand’erano bambini ha pensato “don Tito” quel giorno, poco meno di un mese fa, davanti alla salma di suo fratello Sarino. E dovette succedere tutto in un attimo: i giorni spensierati dell’infanzia, lui fratello maggiore che gioca con il piccolo di casa, lo tiene sulle ginocchia, lo protegge, lo vede crescere. “Il più dolce dell’amore è l’amore che unisce due fratelli”, ci ricorda Menandro. Poi i ricordi si ingorgano, l’interruttore si spegne: emorragia cerebrale.
Era morto quel giorno Nunziato Fedele, era morto da uomo dal cuore d’oro qual è sempre stato. Una fine che mette tristezza, ma che induce a rallentare, a riflettere: in fondo a sperarci più umani.
Il medico curante Nunziato Fedele per tutti è sempre stato “don Tito”, una forma di riverenza che spiega il riconoscimento dell’importanza del ruolo esercitato in una piccola comunità. Un’epoca non troppo lontana, anche se sembra passato un secolo perché il mondo cambia ad una velocità incontrollabile, impazzito dentro al frullatore di una modernità che ci vuole asettici. Ed è cambiato anche il profilo del medico “di paese”, raro quel rapporto di fiducia basato sulla capacità di ascolto e di compenetrazione anche con le questioni non strettamente cliniche dei propri assistiti.
Don Tito apparteneva a quella antica scuola. Il suo sorriso infondeva serenità, trasmetteva la sensazione di un uomo buono che aveva il dono della compassione nel senso etimologico di partecipazione alle sofferenze altrui. Colto, elegante, distinto nei modi: inconfondibile. D’altri tempi, si dice in questi casi, e non è retorica.
Un uomo che non ha mai dismesso i panni del medico di famiglia e che anche dopo il pensionamento ed il trasferimento a Bari, ogni volta che ritornava in paese si fermava a parlare con tutti, con la consueta premura. Per aggiornarsi sui progressi dei bambini che aveva lasciato, diventati ora adulti; per chiedere degli anziani che ancora continuavano a telefonargli per un consiglio o soltanto per sentire la voce del loro vecchio medico curante.
Non ci si pensiona mai dalle proprie passioni. E la medicina, il rapporto umano con i pazienti sono stati per don Tito una passione coltivata fino all’ultimo dei suoi giorni. Fino alla manifestazione di un amore per il fratello talmente grande da morirne.

Condividi

Sant'Eufemia oggi

Magari è soltanto una mia impressione, una percezione temporanea destinata a svanire con le nuvole dei pensieri tristi. Forse è proprio così, vorrei che fosse così. Una visione amara dovuta ai cicli naturali della vita, che portano via figure di riferimento per un’intera comunità mentre l’orizzonte appare confuso: tempo di mezzo, tra un’epoca che sta per finire e un’altra che stenta ad iniziare.
Mi chiedo come sarà domani, se ci saranno giovani pronti a raccogliere il testimone e a proseguire il cammino dei tanti che ci hanno preceduto. Avverto una malinconica sensazione di riflusso, di ripiegamento su se stessi. Come se la visione d’insieme non conti nella formazione e nell’esaltazione dell’anima di un paese. Come se trama e ordito non abbiano bisogno di tenersi stretti per dare vita a un tessuto. Quel tessuto sociale oggi sempre più sfilacciato, debole.
Non si fa un buon servizio se si dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Non si è onesti con gli altri, né con se stessi. Sant’Eufemia si sta impoverendo, nonostante la caparbia di quanti si oppongono a un declino che è sotto gli occhi di tutti. E non si tratta di politica, no. Quello semmai è l’effetto, non la causa. Le ragioni sono più profonde, strutturali: è un declino figlio della congiuntura storica contemporanea, della crisi economica ed etica che scava la roccia, giorno dopo giorno.
Un paese impoverito dai troppi salassi dell’emigrazione, chiuso anche fisicamente: che non prende aria, che non respira, che non vola. Negli ultimi anni sono scomparse associazioni storiche: l’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, anni fa; la Pro Loco, più di recente. Neanche la squadra di calcio esiste più. C’è l’isola felice del “Terzo Millennio”, ma è un’eccezione: una vitale eccezione. Il resto è fatica e caparbia di chi non vuole arrendersi, encomiabili e da incoraggiare. Ma il pluralismo associazionistico è ricchezza e carburante prezioso per la crescita culturale e sociale di una comunità, anche quando mostra la faccia della sana competizione.
Il liceo scientifico ad ogni inizio di anno scolastico fatica a comporre la prima classe: e fortuna che ancora ci soccorrono i paesi vicini. I nostri figli sono per lo più fuori. Le strade e le piazze deserte sono una pugnalata al cuore, il certificato di morte che accomuna i piccoli centri interni dell’Aspromonte.
Non ho la soluzione in tasca: osservo, considero. Nel mio piccolo cerco di fare il mio “pezzettino”, come altri, perché aveva ragione Robert Kennedy: «Pochi sono grandi abbastanza da poter cambiare il corso della storia. Ma ciascuno di noi può cambiare una piccola parte delle cose, e con la somma di tutte quelle azioni verrà scritta la storia di questa generazione».
Credo che si dovrebbe cercare di amare un po’ di più il proprio paese (tutti: chi ci vive, chi ci torna ogni tanto, chi guarda da lontano). Chissà che non sia questo l’antidoto giusto.

Condividi

Il professore Marafioti, un maestro e un uomo perbene

“I maestri di una volta”, si dice per sottolineare non soltanto il livello di preparazione ma anche un certo modo di intendere la professione: qualcosa che ha molto a che fare con la “missione” di educatore e con il ruolo di punto di riferimento per il microcosmo di una scuola di “frontiera” quale potevano essere trenta o quaranta e passa anni fa le classi elementari “del Purgatorio”, al Paese Vecchio. In quella scuola per moltissimi anni hanno insegnato il professore Francesco Marafioti e tanti altri maestri e maestre del paese, attenti alla didattica e alla crescita umana dei propri alunni.
Una concezione romantica dell’insegnamento che trovava attuazione in un approccio pacato e serio. Mai sopra le righe, il professore. Discreto, umile, di un’educazione fuori dal comune, tutte doti umane che poggiavano sulla base solidissima di uno spessore culturale altrettanto elevato. Un professore che ha sempre continuato a studiare, nel silenzio del suo studio.
A me piace ricordare che ogni tanto la sua vasta cultura trovava sbocco in un articolo per la rivista “Incontri” dell’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, come in quel pezzo bellissimo dedicato al maggiore Luigi Cutrì, eroe della prima guerra mondiale ai più sconosciuto nonostante l’intitolazione della strada più ampia di Sant’Eufemia (la “quindici metri”): era il 1988.
Una missione portata avanti insieme alla moglie Anna Violi: quanti bambini e adolescenti hanno frequentato la loro casa, di pomeriggio, quando entrambi tenevano lezioni private per gli studenti delle scuole elementari, medie e superiori? Lei, professoressa di matematica alle scuole medie, le materie scientifiche; lui, le materie letterarie e classiche.
Quanti hanno potuto apprezzare la gentilezza e l’affetto (che si manifestavano anche con un gelato, merendine, cioccolatini e caramelle) di questa coppia di insegnanti dallo stile di vita rigoroso e schivo, che oggi andrebbe incoraggiato e indicato a modello?
Nel dicembre scorso fa l’associazione “Insieme per crescere” organizzò una bella manifestazione per omaggiare la figura del maestro nella nostra comunità. Il professore Marafioti avrebbe dovuto ritirare il premio alla memoria dedicato alla moglie, ma purtroppo le sue già compromesse condizioni di salute non gli consentirono di essere presente. Si trattava di un riconoscimento da dividere in due, perché è impossibile distinguere l’uno dall’altra: un ringraziamento per tutto quello che avevano fatto e per ciò che hanno rappresentato nella formazione di molte generazioni di eufemiesi.
Nel suo ultimo viaggio i figli hanno voluto che portasse con sé il libro di pedagogia letto e riletto un’infinità di volte: vademecum e sigillo della vita di un maestro e di un uomo perbene.

Condividi

Sportività di provincia

Dai, adesso diamoci una calmatina. Bel gesto l’appaluso tributato dai tifosi juventini a riconoscimento della bellezza del gol di Cristiano Ronaldo. Un atteggiamento che rende onore ai supporters bianconeri, da apprezzare e incoraggiare affinché diventi la regola sugli spalti. Ma anche nella vita di tutti i giorni, sul lavoro, nei rapporti interpersonali. Basta invidie, basta rancori: viva la sportività!
La cartolina turistica però risparmiatecela. Non è credibile perché la storia dice altro.
Penso che il contesto internazionale incoraggi questo genere di reazioni. Siamo italiani, a noi interessa soltanto che l’erba del nostro vicino sia più secca della nostra. I giardini più lontani riusciamo ad apprezzarli senza eccessivi rodimenti di fegato. Se si vuole, c’entra un po’ anche l’attitudine provincialotta a rivelarsi forti e arroganti con i deboli, deboli e dimessi con i forti.
Il Real Madrid gioca un altro campionato, in fondo non viene considerato secondo i dettami che impone la categoria del nemico. Per questo riusciamo ad essere buoni e obiettivi, qualità che si manifestano raramente quando l’avversario è, appunto, il nostro vicino di casa con il suo giardino più curato e fiorito del nostro.
Sarebbe bello che questo encomiabile sforzo di obiettività emergesse anche quando l’avversario è un concorrente diretto per la vittoria nel campionato italiano. Che le “sviste” arbitrali a favore non venissero rivendicate quasi con orgoglio, con il ghigno sadico e cinico di chi gode nel ribadire il concetto filosofico cardine dello stile Juve: «Conta solo vincere».
Non ricordo applausi per le prodezze di Maradona o di Luis Nazario de Lima Ronaldo, tanto per citare due fenomeni probabilmente antipatici perché curavano giardini confinanti con quello bianconero.

Condividi

I motivi del No alla cittadinanza onoraria per Barbara D’Urso



Tra i punti dell’ordine del giorno del consiglio comunale di oggi c’era il conferimento della cittadinanza onoraria di Sant’Eufemia d’Aspromonte a Barbara D’Urso. Come gruppo consiliare “Per il Bene Comune” abbiamo espresso voto contrario. Di seguito, la nostra dichiarazione di voto:

Non riconosciamo alla signora Maria Carmela alias Barbara D’Urso meriti particolari, tali da giustificare il conferimento della cittadinanza onoraria di Sant’Eufemia d’Aspromonte: a meno che non sia sufficiente avere origini eufemiesi e soprattutto (azzardiamo, ma non tanto) essere personaggio celebre. Requisiti che indubbiamente sono in possesso della nota conduttrice televisiva.
Ma di che genere di televisione stiamo parlando?
La tv della lacrimuccia elemento essenziale di un abusato copione. La tv dello sciacallaggio e della cinica spettacolarizzazione del dolore, offerto sull’altare del dio auditel. La tv del gossip, che per mesi e mesi segue le vicende di coppie che scoppiano, si ricompongono e poi scoppiano ancora, ovviamente a favore di telecamera. La tv dei vip in lotta per un’eredità o in contatto con l’aldilà. La tv dei “morti di fama” che si sottopongono a decine e decine di interventi chirurgici per somigliare a una bambola. La tv del kleenex e dei guardoni, che fa l’occhiolino alla pancia e al voyeurismo di certo pubblico. Di questa televisione stiamo parlando. Ma se anche si volesse sorvolare su considerazioni opinabili, che attengono ai gusti e alle inclinazioni personali di ciascuno di noi, la signora D’Urso ha mai contribuito in qualche modo alla crescita del nostro territorio? Si basa forse su questo assunto un riconoscimento di così grande valore? Non ci risulta.
Il conferimento della cittadinanza onoraria a Barbara D’Urso è soltanto una bassa operazione di marketing, forse utile per intascare una comparsata in televisione.
Siamo perfettamente consapevoli che questi sono i tristi tempi che viviamo. La religione del nostro tempo ha elevato la frivolezza a valore e l’apparire ad essenza della stessa azione politica.
Non vogliamo arrenderci a questo declino. Siamo convinti che la politica debba volare alto, concentrarsi sulle risposte da dare ai problemi dei cittadini, che sono molti e gravi, non scadere nell’utilizzo di imbarazzanti armi di distrazione di massa finalizzate all’effimero godimento di un quarto d’ora di celebrità.
Per tutte queste ragioni, esprimiamo voto contrario.

DOMENICO FORGIONE – Capogruppo
PASQUALE NAPOLI – Consigliere

Condividi

Il ritorno del Bikini

Correvano i favolosi anni ’80: giocavo a calcio (of course), a tennis, pedalavo sulla bici da corsa. E divoravo un numero spropositato di Bikini, un gelato prodotto dall’Algida che ho adorato. In teoria avrebbe dovuto fare concorrenza al Maxibon Motta, anche se era molto diverso. Metà biscotto, come bordo una cornice di cioccolato, la parte superiore bigusto (vaniglia e cioccolato), ricoperto di cioccolato croccante e granella di nocciole. Negli anni ’90 fu ritirato dal commercio e sostituito dal Magnum Sandwich (buono, ma tutta un’altra cosa): un trauma dal quale ho faticato non poco per riprendermi.
Ad ogni inizio di stagione (che ora in realtà non ha soluzione di continuità, mentre al tempo iniziava in maniera “istituzionale” in vista della ricorrenza di San Giuseppe) rivolgo al mitico Tonino, che da 35 anni fornisce il bar di mio padre, la stessa angosciata domanda: «Perché non mettono nuovamente in produzione il Bikini?». Una preghiera finalmente esaudita quest’anno, per la gioia di un bambino un po’ cresciuto.
A questo punto e visto che sognare non costa nulla, consiglierei all’Algida di riproporre il Magnifico (ignominiosamente ritirato dal commercio qualche anno fa), ma soprattutto il tartufo nella coppa di plastica marrone scuro: gelato al tartufo e nocciole tritate (e il cuore cremoso di cioccolato con un non so che di liquoroso). Sulle pareti della coppetta restava attaccato cioccolato duro, sul fondo un paio di millimetri spessi e spaventosamente squisiti. In assoluto, il mio preferito e il mio rimpianto più grande. Una nostalgia lacerante.
Se poi qualcuno volesse completare il sogno, ridatemi pure il Vasco di “C’è chi dice no”, Altobelli e Rummenigge all’Inter, Pertini al Quirinale, Goldrake e Shingo Tamai, Bud Spencer, i giochi di piazza e i muretti sempre occupati da decine e decine di ragazzi felici solo per quello stare insieme.

Condividi

Milano chiama, Napoli risponde

La trasmissione sportiva «90° Minuto» fu fenomeno di costume negli anni Settanta e Ottanta. Un rito collettivo celebrato da milioni e milioni di telespettatori sintonizzati ogni domenica pomeriggio su RaiUno per vedere, dopo la loro conclusione, le immagini delle partite del campionato disputate tutte, rigorosamente, allo stesso orario. Rito officiato fino alla sua morte (1990) da Paolo Valenti, un signore d’altri tempi: «Amici sportivi, buon pomeriggio», il suo consueto incipit.
Collegamenti da tutti i campi di serie A (16 squadre, la vittoria valeva due punti), big match della serie B e, in chiusura di trasmissione, la lettura dei risultati delle partite di serie C.
Ripenso con nostalgia a quegli anni, all’epica delle partite ascoltate grazie a «Tutto il calcio minuto per minuto». Tutti attorno alla radio, al bar, con in mano le schedine per aggiornare negli spazi bianchi delle matrici i risultati mano a mano che qualche squadra segnava. I più grandi sulle macchine: davanti alla pineta, parcheggiate accanto ai marciapiedi, al municipio o al campo sportivo (magari mentre giocava l’Eufemiese). Poi l’attesa di «90° Minuto», difficile da spiegare all’epoca delle pay-tv e dei contenuti video su internet in tempo reale.
Abbiamo amato Paolo Valenti come uno zio e ci siamo affezionati ai corrispondenti dai vari campi come se fossero parenti in visita, preceduti dal jingle indimenticabile della sigla della trasmissione. Personaggi semplici, alcuni all’apparenza strampalati ma in realtà dotati di cultura, professionalità e attaccamento alla Rai. Da Firenze Marcello Giannini, che era stato la “voce” dell’alluvione del 1966; da Ascoli Tonino Carino con le sue giacche assurde; Giorgio Bubba da Genova e Gianni Vasino da Milano, dopo la morte del grandissimo Beppe Viola; Cesare Castellotti con le sue cravatte granata da Torino; da Roma un giovane Giampiero Galeazzi; Riccardo Cucchi da Campobasso e Lamberto Sposini da Perugia; Emanuele Giacoia da Catanzaro e Puccio Corona da Messina.
E poi Luigi Necco, il più simpatico di tutti con quel suo faccione, gli occhiali spessi e i tifosi del San Paolo che finivano sistematicamente per travolgerlo. Raccontò i trionfi del Napoli del Pibe de Oro («San Gennaro perdona, Maradona no»), ma anche le salvezze dell’Avellino di Barbadillo e Diaz, di Juary e Dirceu. Forse il primo a fare il gesto della “manita”, la sua ironia garbata e il suo sorriso («Milano chiama, Napoli risponde», ai tempi del testa a testa con il Milan di Arrigo Sacchi) in fondo ci ricordavano che il calcio è un gioco. Un bel gioco però: «Nella mia carriera ho scritto un po’ di tutto, dalla malavita all’archeologia, però niente è stato più bello del calcio».

*Luigi Necco fu giornalista di cronaca giudiziaria (per il suo lavoro fu gambizzato dalla camorra) e grande esperto di archeologia: suo il ritrovamento del “tesoro di Troia” scomparso alla fine della seconda guerra mondiale. In suo omaggio, Rai Cultura stasera alle 23.00 e Rai Storia domani alle 18.00 proporranno lo Speciale “Mesopotamia”, nel quale il giornalista racconta il tragico destino dei tesori della Mesopotamia, distrutti dall’Isis.

Condividi

La scoppola elettorale

Tre dati oggettivi: 1) hanno vinto M5S e Lega; 2) il centrodestra a trazione leghista avrà il maggior numero di parlamentari; 3) PD e LeU hanno fallito rovinosamente. Partendo da questi dati credo si possano fare alcune considerazioni.
Le correnti populiste sono maggioritarie in Italia (pure il dato della Meloni si può leggere da questa prospettiva), anche se nell’operazione di “sfondamento” della Lega al Sud c’è dell’altro e proprio la provincia di Reggio Calabria ne è la dimostrazione evidente.
La bocciatura del PD va in gran parte ascritta al solipsismo di Renzi e all’inadeguatezza di una classe dirigente disconnessa dalla realtà e indifferente agli “avvertimenti” più volte lanciati dagli elettori (elezioni amministrative, referendum).
La scissione di LeU, che si prefiggeva di recuperare “dal bosco” i tanti delusi, non ha sortito alcun effetto a parte la garanzia di una ridotta presenza parlamentare: ma di questo fallimento bisogna prendere atto. Io per primo, che nel mio piccolo ho sostenuto un progetto il cui esito lascia ora un senso di forte smarrimento, nonostante la convinzione della sua bontà ideale.
L’Italia uscita fuori dalle urne è tagliata in due, con il Nord in mano al centrodestra e il Sud conquistato dai grillini. Quest’esito si può spiegare con il contributo determinante della Lega al Nord o, più semplicemente, con il fatto che evidentemente gli enti locali di quell’area geografica sono amministrati bene: in caso contrario la sua classe dirigente sarebbe stata bocciata dalle urne. Nel Sud le cose vanno diversamente. Al netto del fallimento di rappresentanti politici che (a destra, a sinistra e al centro) hanno sempre pensato a perpetuare se stessi, ogni elezione viene caricata di aspettative così pesanti puntualmente disattese, che provocano lo spostamento di interi blocchi sociali da uno schieramento all’altro. L’assenza di partiti radicati, ormai ridotti a comitati elettorali ottocenteschi, aiuta questo fuggi-fuggi generale. Altrimenti non si spiegherebbe come la Calabria abbia potuto accordare in scioltezza ampie maggioranze prima a Berlusconi, poi al PD e oggi a Di Maio.
C’è sempre l’attesa del messia che compia il “miracolo” di risollevare questa terra, ma la questione calabrese (sottocapitolo della più ampia questione meridionale) è argomento di campagna elettorale che muore il giorno dopo il voto. Per colpa di Roma, ma anche per colpa di una classe dirigente locale che a Roma conta meno di zero. I tempi della politica sono diventati velocissimi, bastano un paio di anni per disperdere consensi molto vasti.
La palla passa ora a Mattarella e subito dopo al Parlamento italiano. Personalmente non ho mai temuto l’esito di una votazione: la nostra repubblica ha anticorpi che impediscono paurosi salti nel buio.
Vivo gli appuntamenti elettorali come una festa: la festa della democrazia. Il voto va sempre rispettato. Chi ha vinto deve governare il Paese ed essere messo alla prova per verificare se all’abilità nella critica corrisponde la capacità di passare dalla politica parlata a quella delle realizzazioni concrete.
Certo, la mancanza di una maggioranza numerica complica le cose: ma credo che i numeri, alla fine, si troveranno.

Condividi

Un voto utile

Credo nelle idee e credo negli uomini e nelle donne che quelle idee fanno camminare sulle proprie gambe. Che per quelle idee sono disposti a lottare, ad abbandonare il porto sicuro per affrontare il mare aperto con tutte le insidie che tale rischio comporta. Per questo sono convinto che esista un solo “voto utile”: quello che la nostra coscienza riconosce come rappresentativo del proprio bagaglio di valori e della propria storia personale.
Domenica voterò LIBERI E UGUALI per votare “a favore di qualcosa” e non “contro qualcuno”. Il voto è talmente sacro che in ogni caso va rispettato, anche quando dista mille miglia dalle proprie convinzioni. Non penso che siano stupidi o delinquenti gli elettori che sceglieranno altre formazioni politiche. Ma questa campagna elettorale non mi è piaciuta, a tratti è stata insopportabilmente volgare, indirizzata contro avversari demonizzati o ridicolizzati. Rivolta alla pancia degli elettori.
Credo nella politica sobria e seria, mi indispongono le urla e le offese. E credo in un progetto, quello di LIBERI E UGUALI, che va oltre l’appuntamento elettorale e ha l’ambizione di ridare dignità e riconoscibilità a una sinistra attenta ai bisogni degli ultimi. Una sinistra che abbia ancora la forza di indignarsi di fronte a politiche del lavoro umilianti, che vorrebbero fare passare come una conquista la precarizzazione selvaggia di milioni di giovani. Una sinistra che difenda con forza il carattere pubblico della sanità e della scuola. Una sinistra capace di rispondere alla sfida degli esodi biblici contemporanei con umanità.
LIBERI E UGUALI non è un punto d’arrivo: rappresenta l’inizio di un percorso difficile e affascinante, che proprio per questo condivido. Sarà importante avere una rappresentanza parlamentare, la più ampia possibile, per portare avanti tematiche sociali che altrimenti rischiano di scomparire dall’agenda politica per i prossimi cinque anni.
Non è il momento delle polemiche, anche se in questi giorni se ne stanno facendo tante. Ma non mi appassionano. Mi appassiona invece l’idea di un “nuovo inizio”, che vedo possibile e necessario.

Condividi