Quelli che sono da “stendy novescion”

Diversi anni fa avevo dedicato agli strafalcioni grammaticali e sintattici più diffusi l’articolo “L’italiano, questo sconosciuto”. Da allora la situazione è peggiorata e, ahinoi, l’ulteriore sviluppo delle piattaforme social, ogni giorno, impietosamente ce lo ricorda. Nonostante, ad esempio, la scaltrezza di qualche originale giustificazione al consueto uso del condizionale al posto del congiuntivo: «Ho sbagliato a cliccare i tasti». Chapeau per la prontezza di riflessi!
D’altronde – ci informa Lercio – anche l’Accademia della Crusca, avvilita, ha alzato bandiera bianca di fronte ad uno degli errori più diffusi: «Scrivete qual è con l’apostrofo e andatevene affanculo».
Non tornerò pertanto su quanto già scritto. Chiedo però l’aiuto del genio eterno di Enzo Jannacci per mettere in fila, sulle note della celebre “Quelli che”, una selezione delle perle pescate qua e là nel 2018.
Sì, questo è un post da cantare, oh yes!

Quelli che hanno il vizio del gioco e si sono ridotti “all’astrico”
Quelli che hanno paura del “terramoto”
Quelli che “pultroppo” si muore
Quelli che muoiono nel “Niugersi”
Quelli che fanno le “condoglianse”
Quelli che “si dispenza” dalle visite
Quelli che vorrebbero vivere alle “Awai”
Quelli che tifano per una “scuatra” di calcio
Quelli che vanno in palestra e pubblicano la foto con la didascalia “wuork in progress”
Quelli che pregano Sant’Eufemia “Vergine e Madre”
Quelli che “avvolte” non trovano una spiegazione
Quelli che invece capiscono che “il senzo cera”
Quelli che “l’oro” lo sanno come va il mondo
Quelli che vanno “a daggio”
Quelli che sono da “stendy novescion”
Quelli che questa canzone potrebbe continuare “al infinito”… oh yes!

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I leghisti calabresi e il carro dei vincitori

Non mi sorprendono i sei bus che partiranno dalla Calabria per partecipare, sabato 8, alla manifestazione in sostegno della Lega di Matteo Salvini. Così come non mi ha sorpreso il pienone registrato qualche giorno fa, alla manifestazione leghista di Roccella Ionica su “Giovani e politica”.
Nel Sud e in Calabria è sempre stato così, sin dai tempi dell’ascarismo giolittiano. In un bel racconto (“Masse e potere”, in: “Il popolo delle cantine e altri racconti della Caulonia di un tempo”), Ilario Ammendolia narra la storia di Ciccillo, nato ai primi del Novecento. Il nostro protagonista era appena un ragazzo quando nella cittadina si sparse la voce che dalla stazione ferroviaria (da raggiungere a piedi alla marina) sarebbe passato il principe ereditario, il futuro Umberto II. Vestito a festa dalla madre, anche lui assistette con altre centinaia di persone al passaggio del figlio di Vittorio Emanuele III: sindaco con tanto di fascia tricolore e cilindro sulla testa, carabinieri in alta uniforme, magistrati, gnuri e gente comune. Un’attesa frustrata dal ritardo del treno, che quando arriva rallenta appena ma non si ferma, per la delusione del sindaco, che aveva preparato due pagine di discorso, della banda musicale e dei cittadini accorsi: solo un veloce saluto con la mano portata alla visiera. Anni dopo sarebbe stata la volta del Duce. Anche in quella circostanza tutto il paese viene mobilitato: tutti vestiti in camicia nera o nelle divise delle organizzazioni fasciste ad accogliere l’Uomo della Provvidenza. E anche quella volta un passaggio rapido: il treno rallenta e subito riparte. Finita la guerra è la volta dei pullman per la DC di De Gasperi, per il PCI di Togliatti, per i monarchici di Lauro.
«Ogni volta – considera Ammendolia – la gente partiva a salutare il “Salvatore” di turno. Poi tutto tornava come prima». Ormai vecchio e stanco Ciccillo, che in gioventù aveva partecipato a tutte le manifestazioni, va anche a vedere Fanfani, all’epoca presidente del consiglio dei ministri, in visita al centro storico. Tuttavia, “un tarlo gli rodeva il cervello”: la constatazione di una “sostanziale continuità” tra vecchie e nuove generazioni, entrambe – ogni volta – esaltate e organizzate per acclamare il politico di turno “eccezionale”, colui che avrebbe risolto ogni problema. Ma che puntualmente non risolveva un bel niente, lasciando tutti con l’amaro in bocca.
Un Ciccillo vissuto negli ultimi 25 anni avrebbe probabilmente acclamato il Berlusconi “unto del Signore”, come molti in Calabria hanno fatto finché Sua Emittenza è stato l’elemento centrale della politica nazionale. Successivamente sarebbe impazzito per Renzi. Ho bene impresse nella memoria, per averle vissute da (allora) segretario del Pd di Sant’Eufemia d’Aspromonte, le primarie che incoronarono l’uomo di Rignano segretario nazionale e le successive regionali, che contrapposero Mario Oliverio e Gianluca Callipo nella candidatura a governatore. In entrambi i casi ci fu la straordinaria mobilitazione di un elettorato tradizionalmente e platealmente di destra a supporto di Renzi e di Callipo. Nel primo caso, perché l’exploit renziano era nell’aria e il berlusconismo allo sbando: insomma, personaggi in cerca d’autore se ne videro parecchi. Nel secondo caso, perché il Pd nazionale fece di tutto per stoppare una candidatura che godeva di ampi consensi, ma che risultava indigesta al giglio magico: ricordiamo tutti le pressioni per non fare svolgere le primarie e decidere il candidato a Roma.
Oggi Ciccillo è leghista, non ci sono dubbi: è stato al convegno di Roccella e sabato sarà a Roma. Niente di nuovo sotto il sole. Questo è il momento di Salvini: quelli più in buona fede si affidano al nuovo “salvatore”, quelli più furbi prosaicamente si schierano con il vincente di turno. Questi ultimi, in genere, sono quelli che decidono le elezioni: alcuni cambi di casacca e distinguo dell’ultimo periodo, dalla Sila all’Aspromonte, non fanno altro che confermare la tendenza atavica degli ascari nostrani ad accodarsi al potente del momento, in cambio della propria sopravvivenza e di qualche briciola. Il popolo, come Ciccillo, va avanti e indietro dalla stazione, con in mano il fazzolettino da sventolare.

*Il Quotidiano del Sud, 8 dicembre 2018 (“Lettere e interventi”).

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Essere volontario

«Il volontariato costruisce comunità resilienti» è il tema scelto dall’Onu per celebrare la 33ª Giornata internazionale del volontariato, che in Italia ha avuto oggi il suo evento principale a Roma, con l’incontro organizzato dal Forum Nazionale del Terzo settore, da Csvnet e dalla Caritas Italiana: «Quando le persone fanno la differenza. Il volontariato che tiene unite le comunità».
Resilienza, ovvero la capacità di reagire di fronte ai traumi, di resistere agli urti della vita e di riprendere il cammino. In Italia sono oltre 5 milioni i volontari, impegnati in 340.000 tra organizzazioni, enti, associazioni: si occupano di assistenza agli anziani, ai disabili, ai soggetti che vivono in condizione di disagio sociale ed economico; promuovono i beni culturali e la tutela dell’ambiente. Si sporcano le mani e sono presenti dove spesso lo Stato non riesce ad arrivare, perché è distratto o perché non può contare su risorse adeguate.
A volte mi chiedo cosa significhi per me essere un volontario. Le domande alle quali è più difficile rispondere sono quelle che ci riguardano personalmente. Forse perché essere volontario è un sentimento e i sentimenti dipendono molto da circostanze che non sempre è facile preventivare né controllare, che cambiano e ci cambiano come è successo a me grazie a questa esperienza che dura da vent’anni. Sono stato in posti in cui mai pensavo che sarei stato in vita mia (Lourdes), semplicemente perché in quel momento servivo là. Credo che ci sia una buona dose di “utilità” nelle cose fatte da un volontario, che va ben oltre la retorica del “lasciare il mondo un po’ migliore”, della ricerca della felicità, del “si riceve più di quanto si dà”. Almeno, per me è così e ogni occasione è un’emozione diversa, per quanto forte.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha oggi ricordato che “il volontariato è un antidoto alle chiusure e agli egoismi che possono generarsi di fronte a momenti di difficoltà personale o collettivi”. Nell’essere volontario c’è, di fondo, un approccio alla vita fondato sulla consapevolezza di avere dei doveri nei confronti della propria comunità, che si traduce in senso di responsabilità. Il volontario non è un buono, nel senso che non è un santo: ha pregi e difetti esattamente come coloro che non fanno volontariato. Ecco perché, in teoria, tutti possono fare volontariato. Si sforza però di osservare la vita con occhi attenti o, meglio, di guardare “le” vite che molti fingono di non vedere.
Non so se questa sensibilità può condurre alla salvezza personale e, sinceramente, non credo neanche sia questo il punto. L’aspetto importante è la disponibilità del volontario a dedicarsi all’altro, in quello che Mattarella ha definito “uno spazio importante del protagonismo civico, prezioso alleato nella ricostruzione del desiderio di impegno politico e civile”.

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L’erezione del mignolo

– Oggi ho un mal di testa incredibile. La testa mi sta scoppiando. Cosa puoi darmi?
Bel problema, soprattutto se tu non sei né un medico, né un farmacista: purtroppo, sei soltanto un barista. Per mal di gola e chiusura delle vie respiratorie però sei preparato.
– Prendi queste caramelle alla menta. Già quelle nella confezione blu vanno bene, quelle nella confezione nera sono più forti, “liberano” che è una meraviglia.
– Bruciano molto?
– Ah, guarda: uno sturalavandini.
Vai a capire, poi, perché l’effetto balsamico dovrebbe “bruciare”.
Misteri da bar, osservatorio privilegiato per lo studio della sorprendente varietà della natura umana. Che può manifestarsi in diversi modi: con i discorsi ripetuti all’infinito e le stesse cose ripetute ogni giorno, tutti i giorni. Con i problemi gravi e seri che possono sembrare sciocchezze; mentre problemi lievi, insignificanti, possono diventare ragioni di vita. Un mondo capovolto, fatto di gesti e rituali incomprensibili, curiosi, spesso originali nella loro irrazionalità.
Il mignolo teso in alto come una lancia da giostra, mentre pollice e indice portano alla bocca la tazzina del caffè, fa ormai parte della letteratura baristica internazionale. «Via er mignolo!»: raccomandava Nando Moriconi. Non molto ascoltato per la verità, ma con le dita è sempre complicato trovare un compromesso. Lo sapeva bene il conte Mascetti: «Lo vedi il dito? Lo vedi che stuzzica?».
Il mignolino in erezione, quindi: ma non solo. C’è chi accompagna ogni sorso con un “ah” di benessere, ad esempio. Un leggero sbuffo. Tre, quattro, cinque “ah”: e sono soddisfazioni per il barista. C’è invece chi bagna il bordo della tazzina con un po’ di caffè, per disinfettarlo. La prudenza in questi casi non è mai troppa. Chi invece non si fida delle proprietà disinfettanti del caffè e quindi si aggroviglia in gesti acrobatici, per poggiare le labbra sulla parte della tazzina meno toccata – si presume – dagli altri consumatori: proprio sopra il manico, più raramente nel tratto opposto. Chi invece no, nella tazza no: «Il caffè nel bicchierino di vetro ha un altro sapore». Chi l’acqua prima, per sciacquare; chi l’acqua dopo, per lavare. E poi i migliori: quelli del caffè lungo, “perché è più lento e fa meno male”; o del caffè macchiato, “che lo stempera” e, neanche a dirlo, “fa meno male”. Ma la dose di caffeina assunta dipende esclusivamente dalla quantità di caffè contenuta nella tazzina: più caffè uguale più caffeina. Elementare, Watson!
Non solo caffè, comunque. Interessante il metodo di “sgasare” le bibite aggiungendo e girando nel bicchiere una punta di zucchero: la glicemia sentitamente ringrazia. Così come andrebbero studiate anche le diverse tecniche di tenere la bottiglia della birra: piantata in cima alla pancia, e la potenza scenica del risultato dipende dalla circonferenza della pancia; oppure sotto un’ascella, mentre le braccia sono conserte sulla pancia di cui sopra. Senza dimenticare il tocco di classe dello schiocco della bottiglia con il pollice.
Ad ogni modo, il farmaco per sconfiggere il mal di testa al bar esiste: poche gocce di limone nel caffè non zuccherato. Un rimedio naturale infallibile. Se non ci credete, provate a chiedere al vostro medico curante.

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Nino Fedele, l’eufemiese di casa al Metropolitan di New York

Fedele Antonino, figlio di Francescantonio e Rosa Gentiluomo, nasce a Sant’Eufemia d’Aspromonte l’11 novembre 1916. Dopo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, vissuti tra gli orti di “Campanella”, “Crasta” e “Candelisi”, si iscrive all’Università e si laurea in Giurisprudenza e Scienze Politiche. Partecipa alla seconda guerra mondiale come tenente pilota dell’Aeronautica militare e, nel dopoguerra, vince un concorso per ispettore delle Poste e Telecomunicazioni che ne determina il trasferimento a Roma, nel 1948. Nella capitale può coltivare i suoi interessi per la letteratura e soprattutto per la musica, un retaggio di famiglia trasmesso a Nino ed ai suoi fratelli dal padre, suonatore di violino in chiesa e appassionato cultore di musica classica e lirica. Frequenta il “Teatro dell’Opera” e incomincia a scrivere i primi articoli di critica musicale. Il 31 luglio 1950 sposa Angelina Luppino, ma già l’anno successivo solca l’Oceano Atlantico. Poliglotta (conosce l’inglese, il tedesco e lo spagnolo), ben presto diventa critico musicale per il più diffuso e influente giornale statunitense in lingua italiana: “Il Progresso Italo-Americano”, fondato da Carlo Barsotti nel 1880 e pubblicato in edizione quotidiana, che conobbe il suo periodo d’oro tra le due guerre mondiali, sotto la guida di Generoso Pope. In pochi anni Nino Fedele diventa un autorevole giornalista e il 26 maggio 1959 viene naturalizzato cittadino statunitense.
Per lunghi decenni recensisce le performance degli artisti che si esibiscono a Broadway, nel celebre “Metropolitan Opera House”, anche quando il quotidiano cesserà le pubblicazioni (1988) e la sua eredità verrà raccolta da “America Oggi”, che ancora oggi viene stampato: “per trent’anni – scrive Carmelita Tripodi – è stato un osservatore preciso, quasi pignolo, del cosmo musicale americano ed internazionale, del quale ha scritto con passione innumerevoli piccole pagine di storia” (“Incontri”, gennaio-marzo 1992).
I suoi articoli “ritraggono” i più grandi artisti: la bellissima Anna Moffo, Anselmo Colzani, Luciano Pavarotti, Renata Tebaldi, Renata Scotto, Mario Del Monaco e la “divina” Maria Callas. Con alcuni di loro Fedele intrattiene anche significativi scambi epistolari. In una lettera, Renata Tebaldi (già affermatissima “voce d’angelo”, secondo la celebre definizione del direttore d’orchestra Arturo Toscanini) gli rivolge infatti parole di sincero ringraziamento, che Isabella Loschiavo riporta in un articolo per “Incontri” (aprile-giugno 1997): «Lei sa cogliere tutte le sfumature, conosce perfettamente ogni opera e sa bene quello che dice».
Moltissimi gli scritti di Fedele dedicati alle opere di Puccini. In particolare, apprezza la “Bohème” che, il 14 aprile 1975, segna l’esordio al Metropolitan di Katia Ricciarelli accanto a José Carreras. La sua acuta penna passa al vaglio la messa in scena delle opere di Gaetano Donizetti, Giuseppe Verdi, Pietro Mascagni, Francesco Cilea, che conobbe personalmente nell’abitazione romana dell’amico d’infanzia Nino Zucco, altro illustre eufemiese, in grande intimità con l’autore di Adriana Lecouvreur; ma si occupa anche di compositori non italiani: Richard Wagner, Jules Massenet, Benjamin Britten. In occasione del decimo anniversario della morte di Toscanini, celebra a tutta pagina il Maestro “simbolo imperituro del genio italiano”.
Nel 1982 gli viene assegnato il premio “Calabria d’Oro”: «Per aver portato oltre confine la sua passione di calabrese, per aver sostenuto con coraggio la voce più alta della nostra arte, per aver testimoniato l’apporto italiano al progresso americano».
Nel 1984 il presidente Sandro Pertini lo insignisce dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana.
Muore a Brooklyn il 5 gennaio 1992.

*Fonti:
– Ufficio Anagrafe e Stato civile del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, “Registro delle nascite” (anno 1916);
– Isabella Loschiavo, Scrittori, poeti e giornalisti di Sant’Eufemia d’Aspromonte (terza parte), rivista “Incontri”, aprile-giugno 1997;
– Carmelita Tripodi, Deceduto in Usa il dottor Antonino Fedele, rivista “Incontri”, gennaio-marzo 1992;
– Nino Zucco, Incontri, Edizioni E.P.A.R., Roma 1978, pp.66-68.

**La foto è tratta dalla rivista “Incontri”, gennaio-marzo 1992.

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Lettera dal Quirinale

Una ventina di giorni fa avevo inviato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella una copia del libro “Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra”. Lo ritenevo un gesto doveroso nei confronti di colui che “rappresenta idealmente la storia della nostra patria”, come scrissi nella lettera di accompagnamento.
Ieri ho ricevuto la risposta dell’Ufficio di Segreteria del Presidente della Repubblica. C’è un passaggio che mi emoziona e che voglio condividere perché in poche parole racchiude il senso di tutti i miei scritti sulla storia di Sant’Eufemia: “testimonianza dell’impegno civico con cui segue la storia del Suo territorio”.
Questa è per me la più grande gratificazione. Ed è anche un riconoscimento di quanto siano preziose le piccole case editrici come “Il Rifugio” di Reggio Calabria che permettono di tirare fuori dall’oblio vicende minime, di dare a personaggi sconosciuti dignità pari a quella dei più celebrati protagonisti della Storia grande.

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Biblioteca comunale: un’occasione mancata

Secondo i dati divulgati dalla Fondazione Openopolis e riportati sul giornale online “Il Corriere della Calabria”, nell’ultimo anno due bambini/adolescenti su tre di Calabria, Sicilia e Campania non hanno letto nemmeno un libro. Un dato preoccupante, che dovrebbe fare riflettere anche sull’importanza di una presenza virtuosa e dinamica delle biblioteche nei territori.
Spiace constatarlo, ma la biblioteca del nostro comune presenta standard qualitativi molto bassi. Eppure gli strumenti per tentare di migliorare la situazione ci sarebbero, se solo si fosse più attenti. Il 23 maggio scorso la Regione Calabria aveva ad esempio emanato un avviso pubblico “per la selezione e il finanziamento di interventi finalizzati a sostenere il funzionamento delle biblioteche e degli archivi storici calabresi” (decreto dirigenziale n. 5052). L’azione 1 mirava a “sostenere il funzionamento delle biblioteche calabresi degli Enti locali, dei Sistemi Bibliotecari, delle Biblioteche scolastiche e delle biblioteche riconosciute di interesse locale con DPGR”. L’azione 2, invece, era riservata agli archivi storici. Per l’azione 2, in ogni caso, non ci sarebbe stato niente da fare, non avendo Sant’Eufemia un archivio storico comunale. Ma questo è un altro discorso, che tra l’altro ripeto inutilmente da più di dieci anni.
Veniamo all’azione 1. Pochi giorni fa la Regione Calabria ha approvato la “graduatoria provvisoria del finanziamento degli interventi finalizzati a sostenere il funzionamento delle biblioteche e degli archivi storici calabresi – annualità 2018” (decreto dirigenziale n. 12542 del 5 novembre 2018). In particolare, per l’azione 1 (quella destinata alle biblioteche) sono stati ammessi al contributo regionale 80 progetti; 15 proposte non sono state ammesse per il mancato raggiungimento del punteggio minimo; 19 sono state escluse dalla valutazione per la mancanza di requisiti o per errori formali.
Ho cercato inutilmente tra gli allegati il comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Non è presente in nessuno dei tre elenchi pubblicati: né tra le proposte finanziate, né tra quelle escluse. Ciò significa che l’amministrazione comunale non ha nemmeno presentato la domanda per accedere al finanziamento.
Sinceramente, tutto questo suscita amarezza. Insomma, la biblioteca comunale è là, a languire. Da poco sono stati almeno sistemati negli scaffali i volumi che per quasi due anni hanno fatto bella mostra sparsi disordinatamente un po’ ovunque, rendendo di fatto non fruibile la biblioteca stessa. Continuo a credere nella funzione culturale delle biblioteche in una comunità: luoghi che però hanno bisogno di essere animati con atti e fatti, altrimenti si riducono a cimiteri di libri.
Sappiamo bene che i fondi destinati alla cultura sono sempre striminziti. Proprio per questo è auspicabile una maggiore attenzione da parte di chi ha responsabilità amministrative per tentare di intercettare quelle poche opportunità che ogni tanto si presentano.

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Cent’anni dopo

«Mi affascina il mistero delle vite/ che si dipanano lungo la scacchiera…»: è l’inizio di una bellissima canzone di Francesco Guccini (“Vite”), cantautore che amo e che spesso ha ispirato le cose che scrivo. Quando iniziai la ricerca sui soldati di Sant’Eufemia che presero parte alla prima guerra mondiale, mi affascinava l’idea di soddisfare la mia curiosità; e ancor più mi affascinava la speranza di riuscire ad andare oltre le statistiche, che pure mancavano.
Volevo trovare i numeri, ma a quei numeri volevo dare un nome, un cognome e un’età. Disegnarli sul foglio: altezza, colore dei capelli e degli occhi, colorito del viso, segni particolari. Conoscere la vita che avevano in paese. E poi fare uno sforzo in più: affiancarli mentre partivano per il fronte e stare con loro sul Carso o sull’altopiano di Asiago, sul fronte francese o su quello balcanico. Nel freddo delle trincee, affamato come loro quando non arrivavano i rifornimenti. Tra gli stenti dei campi di prigionia. Vivere anch’io il dramma e gli orrori di quella immane carneficina. I boati delle cannonate, la pioggia degli shrapnel, i gas asfissianti. La follia degli attacchi “in salita” per conquistare una cima, mentre dall’alto le mitragliatrici del nemico si esercitavano in un facilissimo tiro al bersaglio. Respirare il tanfo dei cadaveri in putrefazione, nei campi di battaglia ridotti a paesaggio lunare. Sentire con le mie orecchie i lamenti dei feriti e le urla disumane degli amputati (“sembrava che scannassero maiali”); poggiare la mia mano sulla fronte degli ammalati, nei lettini degli ospedali da campo. Trascorrere i miei anni migliori con la morte accanto, come loro. Questo volevo.
Ricordare è un atto di giustizia, fare opera di memoria significa riconoscere pari dignità alle piccole/grandi pagine di storia scritte dai nostri avi. Staccare dalle ragnatele del tempo le loro vite, tirare fuori dall’ombra dell’oblio quei 580 giovani di Sant’Eufemia spediti in posti a loro sconosciuti: contadini, pastori, calzolai, falegnami, mulattieri. Erano i nostri nonni, furono fanti mandati al macello. Si beccarono polmoniti, malaria, infezioni intestinali. Patirono il congelamento dei piedi. Furono fatti prigionieri (72) e furono feriti (130). Morirono in 88 (più un soldato fucilato per diserzione): 39 sul campo di battaglia (11 dei quali dispersi), 15 in seguito alle ferite riportate in combattimento, 5 per gli effetti dei gas asfissianti, 6 nei campi di prigionia, 21 per malattia, 2 per infortunio.
Li ricordiamo oggi, cent’anni dopo, come un dovere.

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Bannato da Facebook

È capitato anche a me: prima o poi doveva succedere. «Questo post non rispetta i nostri standard della community, pertanto nessun altro può vederlo». Il blog è stato bannato da Facebook, per cui – al momento – non è possibile condividerne i contenuti. Me ne farò una ragione. Ora non so cosa posso fare, mettersi in contatto con Facebook è impossibile, se non rispondendo alle Faq. E tutta questa voglia onestamente non ce l’ho.
In tutti questi anni ho utilizzato quel social soprattutto per dare più visibilità ai contenuti del blog, che sinceramente non mi sembra siano così terrificanti!! In otto anni ho scritto quasi 600 articoli, che hanno avuto quasi 400.000 visualizzazioni: la maggior parte racconta la storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte (il mio paese), i suoi personaggi più o meno famosi e quello che ho ritenuto bello raccontare per rafforzare l’identità collettiva della comunità eufemiese.
Non sono un genio, non mi sento migliore di altri (forse dei coglioni che hanno fatto bloccare le condivisioni un po’ sì). Sono uno che cerca di mettere a disposizione degli altri quel poco che ricerca, per saperne di più, e che ha piacere a condividere i risultati della sua curiosità con gli altri. Insomma, non proprio un terrorista.
“Messaggi nella bottiglia” non ha inserzioni commerciali: questo per dire (ma chi mi conosce lo sa bene) che dell’aspetto dei possibili ricavi che può dare la gestione di un blog non mi è mai fregato niente. Altrimenti avrei fatto altro. Che a qualcuno questa mia attività possa avere creato disturbo mi fa provare pena: viviamo un momento davvero brutto, dove le piccinerie dei nani danno la misura del livello delle persone e della società che ci circonda. Ma forse è vero che la cultura è un’arma pericolosa.
Siamo governati dagli algoritmi e le competenze, soprattutto nel campo della comunicazione, valgono sempre di meno. Così può accadere che una segnalazione, fatta da qualcuno al quale evidentemente stai sulle palle, possa limitare la tua libertà di pensiero. Un mondo superficiale governato con superficialità. Il post segnalato, per dire, raccontava le mie vicissitudini, causate da una diagnosi fortunatamente sbagliata e conclusasi con un bel lieto fine. Chissà che non sia stato proprio il lieto fine ad avere “disturbato” chi ha segnalato il blog!
Ridiamoci sopra: si continua ad andare avanti. “Messaggi nella bottiglia” è uno strumento utile principalmente a me stesso. Il fatto che io ci scriva non dipende insomma dal numero dei lettori, anche se indubbiamente fa piacere sapere di avere un seguito, composto da gente che mi stima o che è semplicemente curiosa di sapere ciò che scrivo. Una vita senza curiosità è una vita a metà.
Forse la sto facendo lunga, ma il senso di queste parole è che continuerò come sempre a scrivere sul blog, nonostante un po’ di comprensibile amarezza per il mondo incattivito nel quale viviamo. In qualche modo, cercherò lo stesso di comunicarlo a chi, tra i miei contatti Facebook, nutre interesse per quello che scrivo.

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Il mio secondo padre

Molti pensano che Nino Altavilla sia mio zio, insomma che lui o sua moglie Eufemia siano fratello o sorella di uno dei miei genitori. Non è così e la storia che lega le nostre due famiglie è la testimonianza di come a volte i rapporti di amicizia siano più forti, più profondi di quelli di sangue.
Vorrei scrivere qualcosa di bello, oggi che Nino compie settant’anni, anche se so di correre il rischio di apparire agiografico o retorico. Due aggettivi che non si conciliano con la sua personalità riservata. Non apprezzerebbe. Probabilmente un po’ di fastidio lo proverà anche se verrà a conoscenza di queste mie parole: i festeggiamenti “in suo onore” non li ha mai graditi. Comunque capirà e mi perdonerà.
Come faccio a mettere da parte sentimenti che riempiono la mia vita dal 1977, da quando con i miei genitori e fratelli tornammo dall’Australia? Ce ne innamorammo allora, con Luigi e Mario. Abbiamo giocato sulle sue ginocchia, goduto della sua simpatia e del suo affetto smisurato, della sua naturale capacità di farsi amare dai bambini: nei miei nipoti oggi rivedo noi piccoli, che stravedevamo per lui.
Nella casa dei suoi genitori, nel cortile dove anch’io sono cresciuto, ho ascoltato le storie della dura alba del Novecento. Ancora, i racconti della sua infanzia, ricordi di bambini sgualciti del secondo dopoguerra che avevano sempre mondi nuovi da scoprire e avventure da vivere in spazi sconfinati. Spericolati o forse soltanto più liberi e geniali con i loro giochi di strada, la caccia ai nidi e alle lucertole, gli orti razziati, i bagni nelle fiumare. I mille mestieri dai “mastri” più disparati. Le avventure ardimentose con mio padre (la foto sotto li ritrae in piazza municipio) e con i giovani della sua generazione, quasi tutti poi emigrati. Come Nino, che all’inizio degli anni Settanta va a finire a Cuba: e mi sembra un eroe della Frontiera in sella al suo cavallo, allacciati agli stivali gli speroni in seguito regalati a mio fratello Luigi.
Ma non voglio raccontare Nino, né la forza di questi suoi settant’anni. Mi ha insegnato l’amicizia vera, quella che non si lascia sfiorare dal dubbio se sia il caso di lanciarsi contro il fuoco; quella fatta di parole di verità e di giustizia, sempre. Non si diventa casualmente punto di riferimento per fratelli, sorelle, nipoti, amici: occorrono saggezza, generosità, rispetto dell’opinione altrui, lealtà.
Un uomo “preciso” che pretende serietà e che in ogni circostanza sa pesare le parole, trovare i modi giusti, dare i consigli più opportuni: questo è Nino, il mio secondo padre.

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