È arrivato il temporale
Nonostante il ricorso ai soliti artifici contabili per camuffare in vittorie le disfatte, questa volta c’è poco da fare. Il trucco c’è e si vede, come nelle peggiori esibizioni del mago Casanova. Il grande sconfitto è lui, Berlusconi. Ha voluto trasformare le elezioni amministrative in un referendum sulla sua persona, ha innalzato i toni dello scontro ben al di sopra del limite di guardia, ha aizzato i giornali di proprietà e l’ala oltranzista del suo schieramento. Ha incoraggiato la metamorfosi di Letizia Moratti da nobildonna milanese a incendiaria sanfedista. Ha chiesto il plebiscito, il superamento delle 53.000 preferenze ottenute nelle passate elezioni comunali a Milano, ed è stato sonoramente battuto. Consensi personali dimezzati e Moratti costretta a inseguire nel ballottaggio che si terrà tra due settimane.
Il silenzio è d’oro
C’è posto per te
Il presidente bifronte
Dovrebbe pur esistere una via di mezzo tra il baciamani e lo sganciamento delle bombe. Per un governo che non sia schizofrenico, la normalità è data dalla coerenza delle azioni con la strategia politica. Quando c’è. Sta tutta qua la differenza tra una visione di ampio respiro della politica estera e un approccio estemporaneo, approssimativo e privo di un’idea di fondo. Da più parti è stato evidenziato l’eccesso di riverenza manifestato dal governo nelle due visite di Gheddafi in Italia, quando addirittura si tollerarono le lezioni sul Corano propinate dal rais a un uditorio di modelle appositamente retribuite e le bizze da autentica star, dalla tenda a Villa Pamphili agli indecenti ritardi negli appuntamenti istituzionali. Real politik, si dirà. Può darsi. La stessa, forse, che ha indotto Berlusconi a “non disturbare” il suo amico nei giorni iniziali della sollevazione del popolo libico.
Fischi e fiaschi
I fischi non sono una manifestazione di pensiero political correct. Su questo non si può che concordare. L’abusatissimo “non sono d’accordo con quello che dici ma darei la vita perché tu lo possa dire”, aforisma attribuito per comodità a Voltaire e pietra miliare della filosofia liberale, non ha avuto applicazione in occasione delle celebrazioni per la festa della Liberazione. A leggere i resoconti di quanto accaduto a Milano e a Roma il 25 aprile, l’intolleranza (minoritaria) di alcuni partecipanti ha vanificato l’invito alla concordia e all’unità auspicate dal presidente della Repubblica.
Sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista, condannando le contestazioni che puntualmente si ripetono da diversi anni a questa parte, ha parlato di “snaturamento di una data che dovrebbe essere celebrata con lo stesso spirito concorde che ha animato il centocinquantesimo compleanno della nazione italiana”. Un paragone approssimativo, a mio modo di vedere. Non so a quali manifestazioni si riferisse Battista, ma chiunque abbia seguito quella vicenda è in grado di verificare come, purtroppo, le cose siano andate diversamente. Dalle polemiche interne alla stessa maggioranza governativa sulla chiusura di scuole e uffici pubblici, alle dichiarazioni leghiste sull’opportunità stessa di festeggiare, tutto si è visto, tranne che unità di intenti. Tra secessionisti dell’ultima ora, borbonici di ritorno, meridionalisti più o meno di comodo fautori di una copiosa letteratura antiunitaria, le celebrazioni hanno innescato dispute ai limiti della decenza. Abbiamo potuto leggere anche sui quotidiani locali notizie riguardanti storici che, in qualche convegno, hanno preferito abbandonare il tavolo dei relatori per non dovere ascoltare talune filippiche dalla controversa attendibilità scientifica.
Al di là di queste considerazioni, le parole di Battista richiedono però un’ulteriore riflessione. Non si può nascondere che di politicamente corretto, in Italia, sia rimasto ben poco. L’urlo sembra essere assurto ad unità di misura del pensiero, tanto che il “cosa” è stato soppiantato dal “come” viene detto. L’innalzamento esponenziale dei decibel nelle discussioni esprime l’incapacità di parlarsi da parte delle tifoserie che da 17 anni occupano gli spazi della politica. I fischi potrebbero pertanto rappresentare un modo, certo discutibile, per difendere quei valori definiti da Giorgio Napolitano “punti di contatto” tra Risorgimento e Resistenza (libertà, indipendenza e unità), che agli occhi di una fetta di opinione pubblica appaiono quotidianamente minacciati. Perché si fa fatica a considerare una coincidenza fortuita il contemporaneo attacco ai due eventi cruciali della storia italiana contemporanea. La demolizione culturale delle ragioni che a lungo hanno tenuto unito il Paese passa anche dai manifesti di chi paragona i giudici alle brigate rosse, dalle iniziative parlamentari volte a riscrivere l’articolo 1 della nostra Carta fondamentale per assoggettare alle maggioranze parlamentari tutti gli altri organi costituzionali, dal disinteresse per i risvolti che può avere sulla tenuta democratica dello Stato l’operazione di salvataggio del premier dalle sue grane giudiziarie. Probabilmente, è contro tutto questo insieme di cose che i contestatori, forse in maniera scomposta, hanno voluto fare sentire la propria voce.
Votantonio
Non invidio affatto i cittadini di Reggio, costretti ad inventarsi gli stratagemmi più incredibili per schivare gli assalti dell’esercito di candidati che, fino al 15-16 maggio, batteranno anche le vie solitamente meno frequentate della città. La lotta per conquistare la poltrona di Palazzo San Giorgio vedrà infatti impegnati 6 candidati a sindaco, supportati da 25 liste, per un totale di 746 candidati a consigliere comunale. A cui vanno aggiunti i 224 candidati delle 28 liste per le elezioni provinciali, presenti negli 8 collegi cittadini. Quasi un candidato ogni 160 elettori.
La strana coppia
Fa un certo effetto leggere sul “Corriere della Sera” un intervento firmato da due parlamentari di primo piano appartenenti a forze politiche contrapposte. Ma induce anche ad uno sforzo interpretativo supplementare, per non ridurre la proposta ad estemporanea esternazione di due politici emarginati dai loro stessi partiti di provenienza. Se un politico navigato come Beppe Pisanu, ex pupillo del segretario della Dc Benigno Zaccagnini negli anni di piombo, ora senatore del Pdl e presidente della Commissione parlamentare antimafia, mette la firma (e la faccia) accanto a quella dell’ex segretario del Pd, Walter Veltroni, qualcosa bolle in pentola.
L’interpretazione letterale orienta verso una replica della ciclica riesumazione del progetto di un governo di responsabilità nazionale, una soluzione emergenziale per rasserenare l’incandescente clima politico puntando alla realizzazione di pochi punti, tra i quali la riforma dell’attuale legge elettorale. Da questo punto di vista, niente di inedito o che non sia già stato preparato in tutte le salse e puntualmente rispedito in cucina. Per dirlo con le parole dei due politici: “uniti sui valori fondanti e sulle regole del gioco, divisi sul resto”. C’è il richiamo all’esigenza di superare un “bipolarismo immaturo e litigioso”, per dare l’avvio ad “una nuova stagione politica ed istituzionale” in cui non si governi “contro” qualcuno, ma “per” l’Italia. La sottoscrizione in tempo reale da parte di quanti (Terzo polo) già in passato avevano avanzato proposte analoghe non poteva che provocare la reazione stizzita della maggioranza, espressa con la consueta e notoria eleganza dal leghista Calderoli.
A naso, la proposta di Pisanu e Veltroni appare poco realistica perché non sembra tenere conto di un dato di fatto incontrovertibile. La presenza sulla scena politica di Berlusconi. Che non si trova lì per un accidente della storia, ma per tantissime cause concatenate, non ultima la preferenza espressa in suo favore dagli elettori. E che soprattutto non ha alcuna intenzione di farsi da parte. C’è qualcuno in grado di dire al presidente del consiglio che è giunto il momento di togliere il disturbo? Forse soltanto Gianni Letta o Fedele Confalonieri, ma in un clima meno avvelenato dell’attuale. Lo stadio in cui si fronteggiano le opposte tifoserie allestito davanti al tribunale di Milano sembra indicare altro. Un contesto esacerbato, che trova conferma nell’improvvida uscita del professore Alberto Asor Rosa. Irresponsabile e controproducente, visto che affermazioni del genere fanno il gioco del premier, un vero campione nel presentare se stesso come vittima perseguitata da nemici desiderosi di abbatterlo con qualsiasi mezzo.
Per confutare l’impressione di velleitarismo suscitata esiste un solo modo: la coerenza tra le parole e le azioni. Il senatore Pisanu abbandoni insieme ai suoi non pochi fedelissimi la maggioranza, faccia cadere il governo e assuma l’iniziativa della prospettata nuova fase.
Chi sgobba, chi ride e chi piange
Per chi non avesse consultato l’albo pretorio sul sito web, il consiglio comunale di ieri poteva benissimo rientrare nella categoria delle riunioni carbonare. E pensare che la trasparenza era stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale, quando si favoleggiava addirittura di un ufficio stampa e di pubblicazioni periodiche sull’attività amministrativa del Comune. L’affissione per le strade del paese della convocazione del consiglio comunale doveva proprio rappresentare il segnale di un nuovo corso. È stato così fino a quando (casualità?) le acque non si sono agitate e si è cominciato ad economizzare sulla carta, prima affiggendo soltanto un manifesto dentro il Palazzo municipale, quindi eliminando anche quello.
Il primo punto all’ordine del giorno prevedeva la surrogazione di Eufemia Surace, presidente del consiglio dimessasi due mesi fa nell’indifferenza più completa, come se fosse normale che tre componenti, uno dopo l’altro, abbandonino il consiglio comunale. Un dovere di chiarezza che per la verità non hanno avvertito i consiglieri dimissionari per primi, almeno pubblicamente, nemmeno nei confronti dei propri elettori.
Torna così tra i banchi comunali “mastro” Mimmo Fedele, figura storica di amministratore che, dopo mezzo secolo, tra un anno dirà addio alla politica attiva dalla poltrona di presidente del consiglio. L’apertura di una discussione infinita, con botta e risposta tra il sindaco e i consiglieri di minoranza Creazzo e Papalia, ha dato vita ad un siparietto a tratti comico. Creazzo ha vestito i panni di alzatore, secondo l’eccellente tradizione pallavolistica italiana che da Fefè De Giorgi e Paolo Tofoli conduce a Valerio Vermiglio. E il sindaco non si è fatta sfuggire l’occasione per chiudere il punto. Ma si può citare come esempio di mala amministrazione la vicenda del campo di calcetto realizzato dalla passata maggioranza, quella dei propri colleghi di lista? Una struttura non collaudata, inaugurata in pompa magna per ragioni elettorali, abbandonata a se stessa e mai utilizzata. Eppure è accaduto.
Altra bizzarria, la votazione di un “ordine del giorno sulla crisi che investe il settore dell’agricoltura”, sui contenuti del quale nessuno ha proferito parola. Cosa sia stato deliberato, in concreto, resterà un mistero. Approvati infine lo schema di convenzione per la gestione associata di una stazione unica appaltante provinciale, gli oneri di urbanizzazione e lo scioglimento della convenzione di segreteria con il comune di Melicucco.
C’è stato anche il tempo per un’escursione sul terreno spinoso della centrale per la biomassa, quella dei settanta posti di lavoro propagandati in campagna elettorale, tanto per intendersi. A Papalia viene da ridere ogni volta che se ne parla, ma i giovani eufemiesi si sganasciano di meno. Il nuovo annuncio indica ottobre come possibile data di inizio dei lavori. Un risultato costato fatica reale, secondo quanto dichiarato dal sindaco: 240 kg di carta portati personalmente dallo scantinato di un palazzo della regione all’assessorato competente. Per fare il sindaco ci vuole davvero un fisico bestiale.
Elogio del passo
Se qualche decennio fa mi avessero detto che un giorno un’amministrazione comunale avrebbe realizzato un progetto denominato “Piedibus” per incentivare l’uso dei piedi negli spostamenti, avrei fatto la faccia smarrita e stupita di quel tale la prima volta che vide un televisore acceso, talmente scettico da andare a controllare che non ci fosse qualcuno nascosto dietro lo schermo.
È di questi giorni la notizia dell’iniziativa del comune di Polistena per promuovere, in collaborazione con il Servizio civile nazionale, la mobilità pedonale mediante l’impiego di sedici operatori che accompagneranno gli alunni dalla fermata dei bus al portone delle scuole, al fine di “diminuire il traffico davanti alle scuole, ridurre il tasso di inquinamento e stimolare l’apparato fisico-motorio dei ragazzi”. Il kit in dotazione agli studenti prevede un cappellino rosso, un ombrellino e una mantellina antipioggia.
Le finalità sono lodevoli. Riuscire a limitare gli ingorghi mostruosi che si creano davanti alle scuole avrebbe già del miracoloso. Alcune considerazioni però sono inevitabili. È vero: nelle strade i pericoli sono aumentati. Tra motorini, automobili e scatolette per minorenni spesso si ha la sensazione di avventurarsi in una giungla pericolosissima. Per i bambini delle scuole elementari potrebbe essere troppo rischioso, anche se non dimentico che piccoletti si andava all’edificio scolastico tranquillamente a piedi, ovunque si abitasse. Altri tempi, certamente. Ma quell’abitudine facilitava la socializzazione, perché lungo il tragitto si incontravano altri coetanei, la comitiva s’ingrossava e si conversava di più. La strada percorsa per anni, tutte le mattine, rappresentava metaforicamente il percorso di crescita di ogni ragazzino.
Passi comunque per le elementari. Ma per la scuola media e per il liceo? Non voglio pensare che i genitori di oggi abbiano così tanta sfiducia sulle capacità dei propri figli di attraversare incolumi la strada. Né credo che i nostri genitori ci abbiano amato di meno o siano stati degli sconsiderati. Forse si tratta più di un fatto di costume: l’uscita della scuola come luogo d’incontro e momento delle pubbliche relazioni.
Al di là di ogni possibile riflessione, va detto che una passeggiata permette di apprezzare le bellezze di un paese, di osservarne gli scorci più suggestivi. Operazione che è difficilmente realizzabile da dietro il finestrino di una macchina. Chiunque ami il proprio paese dovrebbe ogni tanto fare “quattro passi” lungo le sue strade, specialmente quelle meno battute.
Provate a introdurvi nei vicoli della Matrice, a Diambra, a Mistra, ad attraversare il ponte crollato dell’Annunziata per poi percorrere il sentiero che un tempo portava alla stazione e a Sant’Oreste. Oppure salite dal Paese vecchio al Muraglio e alla contrada Peras, da lì proseguite verso Campanella e Sorvia, alle “due gebbie”, e poi scendete, sempre attraverso la campagna, al campo sportivo. Se vi rimangono ancora fiato e gambe, da lì andate a Crasta dopo avere attraversato i “Candilisi”, passate al guado la fiumara – quando l’acqua è bassa – e andate a bere alla fontana di San Bartolo. Vi sentirete parte di una storia umana antichissima, perché è il “passo” il ritmo della poesia, il respiro dell’anima di un posto, da catturare in ogni sua pietra, tavola, mattone.