La bella stagione

Sarà che i primi ad avvertirne l’arrivo sono i ragazzi delle scuole, sarà che l’età non è più quella delle no-stop in riva al mare, sarà che certe estati non torneranno più. Ma questa sembra non iniziare mai. Meno male che ci sono i programmi televisivi da saldo a ricordarci che, in fondo, l’estate è l’intervallo tra il palinsesto primaverile e quello autunnale. Repliche, film in bianco e nero e poco altro.
Per certi versi non è un male. Personalmente preferisco il programma Da da da, che all’ora di cena su Rai 1 propone il meglio della storia della televisione pubblica, facendo rivedere spezzoni tratti dagli archivi, alle tante insulsaggini che ci propinano durante il cosiddetto periodo di garanzia,  quello che interessa di più agli investitori pubblicitari. Sempre meglio di certi telegiornali. Con tutto quello che accade in Italia e nel mondo non c’è spazio che per le nuove coppie reali, le abitudini più strampalate, psicologi per cani, notizie di costume. La Libia, tanto per fare un esempio, è scomparsa. Probabilmente ne riparleranno a Gheddafi catturato o ammazzato. Nel frattempo, si spara, si uccide, si vìola il mandato dell’Onu, che non prevedeva la caccia all’uomo. Come se nulla fosse.  
Certo, ci sono anche le tantissime serate di premiazione per questo o quell’evento a ricordarci che sono ancora in circolazione conduttori decaduti e tirati fuori dal sarcofago per l’occasione, che panem et circences è una formula che funziona sempre, che un premio, come il sigaro e la croce di cavaliere di giolittiana memoria, non si nega a nessuno, soprattutto se consente di allestire un baraccone pubblicitario per qualche amena località turistica o qualche ras locale. Ne abbiamo avuto un assaggio con la serata di Miss Italia nel Mondo. Uno spettacolo costato alle casse regionali 900 mila euro, secondo il consigliere del Pd Francesco Sulla. Un anticipo del trasferimento su scala regionale del “modello Reggio”, star e starlette sul corso e rubinetti dell’acqua secchi in periferia. Prossimo appuntamento, l’allestimento del villaggio di Rtl sul lungomare di Reggio, a spese della Regione, dopo i precedenti gravati sulle sofferenti casse comunali.  
Lo spettacolo della politica non va mai in ferie. È un filone dal successo assicurato. Le ultime gag sono state confezionate nelle recenti sedute parlamentari. Il numero evergreen della proposta di abolizione delle province conclusosi, al solito, con un nulla di fatto e con i promotori a fare la figura di Gianni dei Brutos, quello che prendeva sempre gli schiaffi. E il tentativo maldestro di inserire nella manovra economica una norma pro Fininvest, ennesimo e spudorato provvedimento ad personam, ritirato in fretta una volta sgamato l’inghippo e rimasto orfano dopo l’affannosa e generale presa di distanza. A sentire i protagonisti, non ne sapeva niente nessuno, né Berlusconi, né Tremonti, né la Lega. Va a finire che è davvero tutta farina di Gianni Letta, come ha maliziosamente insinuato il ministro dell’Economia. L’elezione di Alfano alla guida del Pdl e la dichiarazione sul “partito degli onesti” appartiene invece ad un’altra categoria. Più sopra ci sono solo Totò e Peppino. 
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Oh, l’amour

In un anno e passa ho utilizzato rarissimamente il blog per parlare delle mie vicende personali. Non posso però fare a meno di condividere la novità che ha rivoluzionato la mia vita nell’ultimo mese. Ebbene sì, anche per me è giunto il momento di chiudere con la vita da single incallito. C’è una lei nel mio cuore e l’ha già occupato quasi completamente. In realtà, c’è sempre stata. Ci eravamo conosciuti molti anni fa, poi si sa come va a volte la vita. Fa dei giri impensabili… E poi ritorna. Forse doveva andare così. Forse era necessario un distacco così lungo. Capita spesso di apprezzare qualcosa soltanto dopo averla perduta.
È successo tutto come in un film. L’incontro, la passione travolgente, i primi dissapori e l’allontanamento in quell’età in cui non si è disposti a rinunciare a niente di sé. Ero troppo preso dai miei studi e da una vita che mi aveva portato altrove.
Ora, di nuovo il colpo di fulmine. Due miti sfatati in un sol colpo. Il colpo di fulmine esiste. Non solo, a volte concede anche il bis. Magnifico.
Sto attraversando la fase dello zerbino. La mia volontà è a livelli decimali, ne risente anche la mia produttività. Come ha osservato Francesco Alberoni in Innamoramento e amore, “il nostro amore non è nelle nostre mani, ci trascende, ci trascina e ci costringe a mutare”. Ho in mente un articolo? Spunta lei e mollo tutto. Si esce, a fare altro, in queste splendide giornate di sole. Pomeriggi in giro per i posti più belli della nostra terra. Io, lei e la natura.
Difficile prevedere quanto durerà. Forse non è nemmeno importante. Quando ci si ritrova dopo tanto tempo, c’è sempre la fretta di riguadagnare il tempo perduto e scacciare il rimpianto per essersi lasciata sfuggire la vita tra le dita. Altrimenti si finisce con il crogiolarsi nella nostalgia, pensando “a tutti i giorni che abbiamo sprecati, a tutti gli attimi lasciati andare” (Canzone per Piero, Francesco Guccini). Vivo momento dopo momento. Emozione dopo emozione. Vaticinare il futuro è una pratica che non mi affascina. Ora stiamo di nuovo benissimo insieme. Come se non ci fossimo mai lasciati.
Non so se, come Bartali nell’omonima canzone di Paolo Conte, ho il naso triste come una salita e gli occhi allegri da italiano in gita. Lungo la nostra strada non incontriamo francesi che s’incazzano e nemmeno giornali che svolazzano. Però la mia bicicletta da corsa è bellissima. 
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Il grande bla bla

C’è fermento o è solo ammuina? Guardando Tizio che parla con Caio, quello all’angolo della strada che dialoga fitto con gli altri, i due compari sulla macchina in giro per il paese, le riunioni carbonare che di carbonaro hanno tutto tranne che la segretezza dei luoghi e dei partecipanti, potrebbe sembrare che siano iniziate le grandi manovre in vista delle prossime elezioni comunali. Cosa ci riserverà il futuro non è possibile prevederlo. Troppo presto, troppa confusione, troppa approssimazione. La situazione è molto fluida. Almeno, così appare. Ma può darsi che sia in proiezione il consueto spettacolo dei cineasti della politica nostrana.
L’amministrazione Saccà è ai titoli di coda ed è tempo di guardare al futuro. Qualcuno ci sta già riflettendo. Anzi non ha altro pensiero, soprattutto perché per un giro è dovuto rimanere fermo ai box, a malincuore, per un forzato pit stop. Ne ha però approfittato per riallacciare qualche contatto bipartisan. E magari ripresentarsi come il nuovo. Non sarebbe la prima volta, e non solo a queste latitudini. In genere, il nuovo che avanza ha i capelli grigi, tinti o ne possiede pochissimi.
A memoria, chi ha ambizioni esce allo scoperto dopo l’estate. L’attuale è invece la fase dei guastatori, quelli che hanno un unico scopo, bruciare le possibili candidature in modo che, alla fine, qualcuno sia “costretto” al grande sacrificio: “mi sono dovuto candidare perché me l’hanno chiesto quasi in ginocchio”. C’è chi ama corteggiare, chi preferisce essere corteggiato e chi corteggia nascondendo il volto da cacciatore dietro la maschera della preda.
Si è sfiorata una lunghissima campagna elettorale, colpa dell’eccitazione suscitata dal rinnovo del consiglio provinciale che ha risvegliato istinti da tempo in naftalina, e si sta correndo il serio rischio di ritrovarsi con più pretendenti alla poltrona di primo cittadino che elettori. Un film già visto nel 2007, con la fantomatica terza lista abortita sul nascere perché, su otto promotori, sette aspiravano al vertice dell’amministrazione comunale. Todos caballeros. Qualcuno si è perso per strada, ma molti sono ancora in pista. Bisognerebbe rendersi conto che per guadagnarsi l’investitura è indispensabile avere un esercito dietro. L’orgoglio e le ambizioni personali non possono bastare, anzi andrebbero tenuti a freno. Anche perché l’autocandidatura non è per niente chic. Un moderno Copernico direbbe che occorre partire da un gruppo e da un programma, per poi procedere alla scelta del candidato più idoneo a rappresentare entrambi. Nell’ipotesi più striminzita, servono almeno i candidati al consiglio comunale. Tutt’altro che facili da trovare, soprattutto da quando i partiti sono passati a migliore vita e la selezione del personale politico-amministrativo predilige altri strumenti, trasversali ad ogni schieramento e imperniati sul rapporto personale, familiare o clientelare.
In questa situazione, quando i soliti noti avranno preso l’iniziativa, agli altri non rimarrà che accodarsi o defilarsi. E sul ponte di comando tornerà la calma: Tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora…


 
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Il furbo, il sordo, il diffidente

In origine furono gli spaghetti western di Sergio Leone: Il buono, il brutto, il cattivo, nella magistrale interpretazione di Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef. Poi fu il turno della parodia di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Il bello, il brutto, il cretino) e del riadattamento poliziottesco (Il cinico, l’infame, il violento) con gli attori cult del genere, Tomas Milian e Maurizio Merli. Mancava l’ambientazione politica. Quale scenario più adatto del centrosinistra ringalluzzito dagli scivoloni del governo e perciò concentrato nella singolare attività di immolare le vittorie sull’altare delle lotte fratricide? Detto, fatto. E così è ricominciato ufficialmente il campionato nazionale dell’autolesionismo, dopo la pausa imposta dalle elezioni amministrative e dai referendum. C’è da stare uniti per portare a casa il risultato? Neanche a dirlo. Via con le divisioni e con il piano T (o Tafazzi), quello che prevede, morettianamente, di continuare a farsi del male. Non sia mai che gli elettori prendano eccessiva confidenza con i sorrisi.
Nel centrosinistra il dopo-Berlusconi è cominciato da un pezzo. Lo si capisce dalle scaramucce iniziate già quando, due settimane fa, le bottiglie dello spumante tirate fuori dal frigo erano ancora mezze piene. Si aspetta soltanto di sapere chi scriverà la parola fine e se una dignitosa exit strategy darà al premier la soddisfazione di lasciare un’eredità alla destra post-berlusconiana. Per cui ognuno si ingegna nell’opera di perimetrazione di una propria area. Di Pietro non ha altra scelta che quella semplificata rozzamente dalla fotografia che lo ritrae in conversazione nientemeno che con il presidente del consiglio, quasi fosse un Responsabile qualsiasi. Per farsi largo tra Bersani e Vendola, occorre qualcosa in più dell’antiberlusconismo viscerale di questi anni, soprattutto perché l’antiberlusconismo, dopo Berlusconi, sarà un’arma spuntata. Serve un profilo nuovo, moderato e dialogante con l’elettorato prevedibilmente in uscita dal centrodestra. Un ritorno alle origini? Forse. D’altronde, Di Pietro con la storia della sinistra c’entra poco. Ai tempi di Mani pulite, l’area giustizialista del Movimento sociale italiano faceva apertamente il tifo per il grande accusatore e non è un segreto l’offerta fatta dallo stesso Berlusconi per averlo ministro dell’Interno nel suo primo governo. Quando ancora il premier cavalcava le istanze giacobine e il tg4 di Emilio Fede teneva Paolo Brosio di picchetto davanti al Tribunale di Milano. Non è da escludere che il nuovo schema provochi qualche mal di pancia, peraltro già manifestato da alcuni commenti inferociti sulla rete e dalla dichiarazione di De Magistris: una svolta priva di senso perché “non è lì che vogliono andare i nostri sostenitori” e perché “dobbiamo essere coerenti” (“Non possiamo di punto in bianco trasformarci da ala sinistra ad ala destra del centrosinistra”).
Ma il dado ormai è tratto. Se n’è accorto subito Vendola, finito al pari di Bersani nel mirino di Di Pietro: il leader di Sel perché troppo estremista, quello del Pd perché troppo attendista. C’è della verità nelle parole del governatore pugliese: “Di Pietro vede esaurito lo spazio della rincorsa a sinistra. E sceglie di ricollocarsi come ala destra del centrosinistra”. Legittimo, ovviamente. Anche se fa drizzare le antenne di Vendola, uno abituato a tenere in gran sospetto gli alleati. A ragione, se si pensa che i maggiori ostacoli gli sono stati sempre frapposti dai compagni di viaggio. Insomma, una furbata alla quale non ha abboccato neanche Bersani che, dopo avere messo il cappello sul successo dei referendum – non ascrivibile in toto al Pd, in virtù delle antiche ambiguità su acqua e nucleare e del sostegno espresso apertamente quasi al triplice fischio –, prosegue nel suo corteggiamento a Casini, incurante della propensione della base per un’alleanza Pd-Idv-Sel.
Il problema principale del centrosinistra rimane quello di riuscire a darsi delle priorità, che dovrebbero avere a che fare più con la sconfitta del premier e meno con la cura di orticelli e con la gestione di personalissime porzioncine di potere. Ai generali del centrosinistra – è evidente dall’impegno nel rianimare l’avversario agonizzante – non piace vincere facile. Altrimenti non avrebbero affossato per ben due volte Prodi, l’unico in grado di battere Berlusconi. Un peccato che al Professore, in fondo, non è mai stato perdonato.
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Due mondi lontanissimi

Ancor più che per la grave affermazione (“questa è la peggiore Italia”), il ministro Brunetta dovrebbe provare vergogna per la successiva autoassoluzione, una colossale menzogna sbugiardata dal video del convegno. Per il resto, potrebbe anche avere ragione: se uno ha voglia di lavorare, si alza alle cinque di mattina e va a scaricare cassette ai mercati generali. Verissimo, ma c’è gente che già si regola più o meno così, nonostante per il proprio futuro avesse investito in altri campi, rimettendoci tempo e soldi. Perché il conseguimento di una laurea – persino Brunetta dovrebbe saperlo – costa anni di fatica e denaro. Per poi ritrovarsi, nella migliore delle ipotesi, precari costretti a subire gli insulti di un ministro arrogante e rancoroso.

Che la politica in generale appaia sideralmente distante dai problemi della gente comune, in particolare da quelli di famiglie sempre più impoverite e di giovani che vivono il dramma della disoccupazione, della precarietà e della dequalificazione, non è un mistero. Per incapacità di dare risposte, per difficoltà a volte dovute a una situazione di crisi globale. Non si vuole per forza dare la croce addosso a chi ha responsabilità di governo. Eppure, c’è qualcosa che non torna, non può essere sempre colpa di quattro provocatori se da un po’ di tempo le bordate di fischi e le contestazioni si sprecano. Forse perché il “governo del fare” ha fatto solo promesse rimaste imprigionate nelle quattro mura delle stanze del potere, mentre fuori una realtà di macelleria sociale è sotto gli occhi di tutti.
Un lavoro dignitoso è un miraggio, a meno che non si abbia qualche santo in paradiso. Gira e rigira, il problema al quale nessuno riesce a dare una risposta convincente è sempre lo stesso. Quello dell’uguaglianza delle opportunità e del diritto a costruirsi un futuro, che vanno garantiti a tutti. Non quello di andare a scaricare cassette alle cinque di mattina. Ci possiamo andare tutti, senza perderne in dignità. Però con noi devono venirci anche i figli di quelli come Brunetta, quelli che prendono incarichi e consulenze in strutture pubbliche senza avere nessun merito particolare, i “figli di”, i “parenti di” e le “amanti di” che scalano rapidamente le carriere universitarie. L’indignazione nasce dalla certezza che i figli di quelli come Brunetta non andranno mai ai mercati generali, neanche per farci la spesa. Perché anche se bocciati tre volte all’esame di maturità, hanno pronto il posto da collaboratore del deputato europeo di turno, in attesa di qualcosa di meglio. Mentre chi ha lauree e dottorati non riesce ad assicurarsi neanche uno straccio di contratto atipico.
Sono tanti i giovani che sanno di non potere pretendere, nella situazione attuale, il posto fisso. Aspirano soltanto (è troppo?) a un’occupazione che consenta un progetto sull’avvenire, farsi una famiglia, avere un minimo di garanzie economiche e di tutela sociale. Si può e si deve accettare qualsiasi tipo di lavoro. Lo facciamo tutti. Ma non chiedeteci anche di applaudirvi perché avete ucciso i nostri sogni.
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27 milioni di sberle

Non può che essere accolta con favore la resurrezione dell’istituto referendario, talmente bistrattato negli ultimi sedici anni e fino a ieri da provocare fastidio ogni qual volta se ne annunciava la riproposizione: “tanto il quorum non verrà raggiunto neanche in questa occasione”. Dopo 24 quesiti affossati, finalmente la fatidica soglia è stata superata. Ed è stata una valanga di sì. La percentuale dei votanti (57%), confrontata con il massiccio astensionismo del secondo turno delle amministrative, è stata imponente, anche perché raggiunta al termine di una battaglia impari contro tentativi di azzoppare i referendum al limite della decenza. La scelta dell’ultima data utile, nella speranza che l’avvicinarsi dell’estate incoraggiasse la diserzione; gli espliciti inviti all’astensione di gran parte dell’esecutivo; la scarsissima informazione televisiva. Con la menzione particolare guadagnata dal tg1, grazie alla chicca dell’invito ad “organizzare una giornata al mare”. La scientifica campagna di oscuramento è stata però stracciata dall’insistente passaparola su internet, che ha sancito la vittoria della rete sul mezzo televisivo. L’azione del movimento pro-referendum, tambureggiante e coinvolgente, ha incrociato la volontà degli elettori di non delegare le decisioni riguardanti i grandi temi, per non vedere mortificata l’aspirazione ad essere artefici del proprio destino e per sentirsi protagonisti in una stagione che annuncia grandi cambiamenti.

Sì alla politica, no ai politici. Si potrebbe sintetizzare così il significato di un voto che riconsegna al popolo quel potere decisionale leso dall’attuale vergognosa legge elettorale. Politica energetica “verde”, gestione pubblica dell’acqua, giustizia giusta per tutti. Il merito dei quesiti aiuta a spiegare il dato dell’affluenza e la partecipazione di tanti elettori che hanno sentito il dovere civico di esprimersi sullo specifico dei referendum, ma anche – per esempio – su una questione di principio: quando il pubblico non funziona, occorre fare in modo che sprechi e inefficienze vengano superati, non procedere allo smantellamento e alla cessione ai privati. Un ragionamento che ovviamente vale per l’acqua, ma anche per quei comparti spesso finiti sotto accusa (scuola, sanità, trasporti).
L’altro messaggio stampato sulle schede imbucate nelle urne, la bocciatura del governo Berlusconi e la fine della sintonia del premier con la maggioranza degli italiani, conferma il trend delle recenti elezioni amministrative. Un tramonto che molti hanno accostato all’epilogo del craxismo per l’invito ad andare al mare, ignorato dagli elettori ora come nel 1991, quando il referendum sulla preferenza unica diede il via alla fine di un’epoca. Sarebbe però esiziale abbandonarsi a facili entusiasmi. La vera sfida, per i partiti e per la società civile, è riuscire ad incanalare in una proposta politica alternativa l’energia sprigionata il 12 e il 13 giugno. Perché l’antiberlusconismo può bastare per fare passare un referendum, ma per governare l’Italia occorre altro.
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La sentinella del bidone

Secondo la propaganda fascista, si poteva servire la patria anche montando di guardia a un bidone di benzina. Occorre aggiornare la metafora: è possibile rendersi utili pure se il bidone è un partito politico, purché se ne accetti la nomina a segretario.
Se da un lato la decisione di affidare il Pdl alle cure di Angelino Alfano va nella direzione di un ricambio generazionale e di un fisiologico svecchiamento della politica, non può che lasciare perplessi il metodo dell’investitura medievale scelto per consentire al partito del predellino di sopravvivere al dopo-Berlusconi. L’imperatore ha scelto il delfino, a ulteriore riprova, per chi ancora nutrisse qualche dubbio, del concetto berlusconiano di democrazia. Un’operazione di maquillage e poco altro. Perché non si capisce il senso di una figura che va a sovrapporsi ai tre coordinatori (Verdini, La Russa, Bondi) già esistenti, che conserveranno le rispettive poltrone. Provocando – non è difficile prevederlo – ulteriori tensioni in una situazione già caratterizzata da costante fibrillazione. Ma soprattutto perché bisognerebbe spiegare cosa mai potrà significare “assumere i pieni poteri” in un partito in cui a comandare è notoriamente un altro (Berlusconi). Non è un caso che nel Pdl la figura del segretario non sia neanche contemplata, per cui prima di procedere alla sua elezione (sic) il Consiglio nazionale dovrà approvare la modifica delle norme statutarie.
Qualcuno intuisce una sorta di exit strategy del premier, il famoso passo indietro. Ma nonostante i tentativi in zona Cesarini, il Pdl non sembra in grado di sfuggire alla logica dell’uomo solo al comando che – come si è visto anche di recente – non è in grado di risolvere alcunché. In ogni caso, dietro potrà esserci la terra ferma o il baratro. L’esito della verifica non è affatto scontato.
Per quanto il Pdl sia un partito fortemente carismatico, al suo interno è infatti possibile cogliere sensibilità e accenti diversi. C’è chi, come Formigoni, smania per giocare da protagonista la partita della successione a Berlusconi; chi, come La Russa, teme le insidie del futuro e una probabile deminutio capitis; chi, come Alessandra Mussolini, contesta il metodo dell’investitura: “non si può nominare un segretario politico in una nottata di convivialità, senza aver convocato l’ufficio di presidenza e senza un congresso”. Il segretario in pectore si è affrettato a dichiarare che “si devono aprire le finestre per fare entrare un po’ di aria fresca”. Ancor più radicale Claudio Scajola: “buttiamo via nome e simbolo e facciamo qualcosa di nuovo”. Magari ricorrendo al sistema delle primarie, quanto di più lontano possa esistere dalla mentalità aziendalista del presidente del consiglio, che infatti non ha aspettato molto per avvisare i naviganti sui rischi di un metodo non controllabile al cento per cento. Fare la fine del Pd, costretto a subire i Vendola e i Pisapia di turno, sarebbe davvero troppo.
Ecco perché questa svolta non appare convincente. C’è sempre il timore di trovarsi di fronte a uno spot pubblicitario. Il solito ammiccamento a favore di telecamera.
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Viale del tramonto

Non è vero che si trattava “soltanto” di elezioni amministrative. Non lo è perché Berlusconi per primo ha voluto dare alla consultazione elettorale una dimensione nazionale, mettendoci la faccia e chiamando a raccolta i suoi elettori per la crociata del bene contro il male. Milano invasa dall’Islam, i talebani a Porta Sempione, piazza Duomo trasformata in una zingaropoli. Forse il premier ha avvertito l’arrivo della bufera e ha reagito nell’unico modo che gli è congeniale, attaccando a testa bassa, contro tutto e tutti, per vincere o morire sul campo di battaglia e lasciare dietro di sé il deserto, in eredità soltanto cocci che qualcuno, forse, tenterà di ricomporre. Ha voluto il referendum sulla sua persona e l’ha perso. Questo è il dato principale. Di certo, niente sarà più come prima. Una stagione lunghissima, durata quasi un ventennio, è giunta al capolinea. Crisi di governo o meno, il dopo-Berlusconi è già iniziato. E i topi cominciano ad abbandonare la nave prima che affondi.

A tempo di record – e a urne ancora chiuse – Daniela Melchiorre, nominata sottosegretario il 6 maggio, che aveva visto premiato il suo rientro tra i ranghi della maggioranza dopo un breve pit-stop al box del Terzo polo. Ma anche tra diversi pretoriani del presidente del consiglio prevale l’insofferenza per scandali e ossessioni giudiziarie, mista all’imbarazzo per alcune discutibilissime uscite internazionali: di recente, l’incredibile piagnisteo e l’attacco ai giudici durante il G8 in Normandia, di fronte ai potenti della terra. Exploit che – per inciso – ha spinto alla fuoriuscita dalla maggioranza la deputata dei Liberaldemocratici, una sorta di marziano spedito da poco sul nostro pianeta, se ha compreso soltanto adesso l’idea della giustizia che alberga nella testa del leader pidiellino.
Il fuoco incrociato di avversari e alleati sul premier, barricato dentro Palazzo Chigi mentre attorno tutto scricchiola, ha accelerato lo smarcamento da un abbraccio che sta diventando soffocante. Si è visto in queste amministrative: l’effetto-traino è evaporato e l’eccessiva esposizione del premier ha nuociuto ai candidati a sindaco del centrodestra. Sono finiti i tempi in cui Berlusconi poteva candidare a governatore della Sardegna uno sconosciuto che vinceva grazie alla sua sola presenza sul palco in chiusura di campagna elettorale. Sta invece accadendo un fatto inedito per il fronte berlusconiano: l’esplosione del correntismo, come nella peggiore tradizione primorepubblicana. Un contrappasso davvero amaro per colui che si era presentato come la novità capace di sconfiggere il vecchio teatrino della politica. E che si ritrova a tirare, ora da una parte ora dall’altra, una coperta diventata cortissima. Non ci sono soltanto i casi Polverini, Micciché, Scajola, Alemanno, sgomitanti e impegnati nel radunare truppe personali per riposizionarsi al meglio quando la slavina travolgerà tutti. Ci sono anche i malpancisti che non si riesce più a rabbonire singolarmente perché, accontentatone uno, si suscita la rabbia degli altri, sempre più numerosi e sempre più famelici, un esercito di pretendenti a poltrone ministeriali.
Senza ricercare congiure che non esistono, Berlusconi paga l’inconcludenza di tutti questi anni su fisco, liberalizzazioni, piano Sud, giustizia stessa. Stringi stringi, l’uomo del fare si è rivelato una promessa non mantenuta.
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I furbetti del quorum

Ora che i toni della campagna elettorale si sono abbassati – si fa per dire, visti gli spot a reti unificate del Cavaliere e l’asprezza del ballottaggio meneghino –, si può spendere un po’ d’inchiostro per l’appuntamento referendario del 12-13 giugno. Non prima però di avere denunciato i sotterfugi del governo per fare saltare il quorum della metà più uno degli elettori richiesto per rendere valida la consultazione. Che il governo giochi sporco lo si è capito sin da subito, dalla decisione, economicamente dannosa per le casse dello Stato, di non accorpare i referendum alle amministrative e dalla scelta dell’ultima data utile, nella speranza che gli elettori, in una domenica quasi estiva, preferiscano concedersi una gita fuori porta. D’altronde, da tempo l’elettorato si dimostra refrattario ai referendum. L’ultima volta in cui è stato raggiunto il quorum risale al 1995. Da allora, sei appuntamenti e 24 quesiti sono stati annullati, l’ultimo con il record negativo di percentuale di votanti (poco più del 23% nel 2009).

Il referendum che realmente interessa Berlusconi è quello promosso da Idv per cancellare la legge del 2010 sul “legittimo impedimento”, l’istituto giuridico che consente di giustificare l’assenza dell’imputato dall’aula del processo. Non occorre essere particolarmente perspicaci per intuire la logica della legge (o meglio, la “linea difensiva” del premier). Difendersi “dal” processo e non “nel” processo, utilizzando qualsiasi mezzo per sottrarsi al giudizio di un tribunale. Da una parte si allungano i tempi del processo, dall’altra si accorciano i tempi della prescrizione con ripetuti interventi legislativi, e il gioco è fatto.
L’altro quesito promosso da Idv vuole impedire la realizzazione sul territorio nazionale di impianti di produzione nucleare. Un tema caldissimo, dopo il disastro di Fukushima, per le perplessità non infondate sulla sicurezza degli impianti, sul problema dello smaltimento delle scorie radioattive, sulla valutazione del rapporto costi/benefici. Che Berlusconi ha però pensato bene di depotenziare con un ragionamento democraticamente impeccabile: poiché l’onda emotiva del momento non farebbe passare il nucleare, è meglio rimandare la questione per evitare una bocciatura definitiva. Come? Semplice. Facendo saltare il referendum con la moratoria di un anno sull’avvio del programma nucleare italiano contenuta nel decreto Omnibus, sul quale il governo ha posto la questione di fiducia. A fine mese, toccherà alla Corte di Cassazione stabilire se si dovrà votare anche sul nucleare. Se così non dovesse essere, più in là, a babbo morto, si potrebbe riprendere il discorso da dove ora è stato interrotto.
I due quesiti promossi dal comitato referendario “2 Sì per l’Acqua Bene Comune” al grido di “vogliamo l’acqua e il sole, mica la luna”, vogliono invece scongiurare la privatizzazione dell’acqua, di fatto realizzata con le norme che ne regolamentano la distribuzione. Ma l’acqua è un bene della collettività, non una merce che il gestore del servizio idrico può sfruttare come un bene privato. Anche in questo caso, il governo ha disinnescato il referendum istituendo un’Autorità di vigilanza e regolazione dell’acqua che dovrebbe rendere superfluo il referendum.
Il “massaggio” governativo ai quesiti su acqua e nucleare punta sfacciatamente a incoraggiare l’astensionismo per impedire l’abrogazione della legge sul legittimo impedimento, l’unica questione che davvero sta a cuore al premier. È però evidente che, in queste condizioni, c’è chi picchia con due mani e chi con un braccio legato dietro la schiena. Per avere una lotta ad armi pari sarebbe necessario eliminare il quorum di validità. Gli oppositori dell’abrogazione di una legge sarebbero costretti ad andare a votare e si metterebbe così fine alle furbate di chi, unendo i propri voti all’astensionismo fisiologico, ricorre al trucco per vincere la partita. Da un buon funzionamento dell’istituto referendario, la democrazia del Paese avrebbe soltanto da guadagnarci. Una ragione in più per votare sì, contro il nucleare, contro la privatizzazione dell’acqua e contro l’ennesima legge ad personam.
 
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