Una regina di nome Ciccia

La corona di Ciccia non era d’oro. Era fatta di capelli. Non aveva pietre preziose incastonate, ma tanti ferretti. Quelli che tenevano arrotolata sulla sua testa una lunga treccia, d’inverno nascosta sotto un foulard prima a fiori, poi nero.
Da bambina Ciccia non era stata una principessa, anche se era riuscita a completare la scuola elementare. Una rarità, in un paesino dell’Aspromonte negli anni ’20 del secolo scorso. Tempi in cui si diventava presto donne, soprattutto se si avevano due sorelle e un fratello più piccoli. A 12 anni si era già mamme. Non erano tempi di amori da feuilleton. Se uno zio acquisito, Micu, rimaneva prematuramente vedovo perché la moglie era morta di parto, era quasi naturale che toccasse alla nipote più grande allevare, assieme ai fratelli, i due cuginetti. Non di rado, capitava di andare in sposa allo zio. Quattordici anni di differenza non sono pochi, ma questa era l’ultima delle preoccupazioni. I problemi si risolvevano in famiglia.
Quando iniziava la primavera, Micu si trasferiva sull’Aspromonte, mesi e mesi senza tornare a casa, giorni interi a tagliare legna e, di notte, a sorvegliare la carbonaia. Poi la guerra nel teatro libico, la prigionia e il rientro a casa. Un carbonaio analfabeta, spedito dal Duce a difendere la Quarta Sponda, doveva per forza diventare comunista. E così fu per Micu, tessera del Pci nel portafogli e sul comodino i ritratti di Stalin e Togliatti, accanto al rosario e al libro di preghiere della moglie.

Il mondo di Ciccia era un cucinino, un gabinetto e due stanze. Per qualche tempo, una. Da dividere con mamma, marito, uno dei due cugini e due figli (un maschio e una femmina), per il periodo in cui nell’altra camera si accampò un parente con tutta la famiglia, una sistemazione “provvisoria” durata diversi anni. Sempre meglio dei molti che, ancora negli anni ’60, vivevano nelle baracche in legno del dopo terremoto, monolocali affollatissimi privi di acqua, servizi igienici, corrente elettrica. Attaccato al suo mondo c’era l’Eden, raggiungibile varcando l’uscita sul retro. Un piccolissimo ma ricco giardino, curato con amore e applicazione: rose bianche e rosse, calle, fior d’angelo, biancospino, gladioli, begonie, garofani, tulipani, dalie, un cespuglio di margherite, un albero di camelie, due di mele del paradiso, un mandarino, un arancio.
Nel suo mondo c’erano soprattutto due figli da accudire, in particolare la piccola di casa, alla quale portava ogni mattina una tazza di latte e fette di pane nel letto. Ai piedi, a mo’ di borsa dell’acqua calda, un mattone riscaldato nel braciere; in caso di mal di gola, anche un calzino pieno di cenere viva da tenere arrotolato al collo come una sciarpa.

La stessa attenzione usata più avanti nei confronti dei nipoti, le cui date di nascita teneva appuntate su un quaderno di prima elementare: 10.000 lire al festeggiato, 5.000 agli altri. A Natale, Capodanno, Epifania e Pasqua, uguale trattamento per tutti.
A cavallo degli anni ’80, si stava bene da Ciccia. Stretti stretti, il calore aumentava. La porta era sempre aperta e i bambini entravano di corsa dal cortile per bere, accaldatissimi e sporchi. Si faceva merenda con pane, sale e olio. D’estate, l’orzata. Dolcissima, nel bicchiere che portava stampate sul vetro macchinine d’epoca. L’idrolitina del cavalier Gazzoni, no: quella la beveva soltanto lei. Per i gelati bastava andare in uno dei due alimentari della ruga: i putijari segnavano nella libretta, poi passava Ciccia. Si dormiva nello stesso letto e, appena svegli, la colazione era baldoria, con la scatola dei biscotti Doria da tre chilogrammi al centro della tavola e tutti attorno cinque piccole pesti pronte a sfidare enormi tazze arancione. La domenica tutti a messa: al momento dell’offerta, nella mano di ogni bambino scivolava una moneta da deporre nel cestino. Subito dopo, la cucina sprigionava l’odore del sugo con le polpette che avrebbe condito i maccheroni fatti in casa e stesi sul letto matrimoniale, sopra un lenzuolo bianchissimo. Ed era festa.

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Eppure avevo capito che il problema della discarica è di tutti, non che qualcuno ne avesse l’esclusiva

Ho ricevuto stamattina un’email che mi ha fatto riflettere su alcune cose. Ne riporto uno stralcio:

Sono nauseata dal dibattito che ne è venuto fuori. L’unica cosa buona è che ora conosco molto di più il problema, e conosco molto di più le persone.

Per un po’ sono stato indeciso se darne notizia, così come ieri sera mi era sorto il dubbio se limitarmi a cancellare l’intervento del coraggiosissimo e anonimo Rocco Aspromonte, oppure se parlarne. Alla fine ho optato per questa seconda soluzione, certo che la chiarezza non può che fare bene e che, alla fine, sono le azioni e le parole a qualificare gli uomini.
Ora però l’argomento è chiuso. Questa vicenda mi ha insegnato due cose. Una riguarda la vicenda in sé. Dagli approfondimenti che ho fatto e dalle parole pronunciate ieri dal sindaco in consiglio comunale, temo che la discarica si farà, perché attorno ad essa ci sono interessi troppo forti. Questo il timore, che si unisce alla speranza che, se proprio si dovrà fare, che venga fatta nel rispetto di tutte le regole e con la previsione di controlli strettissimi su ciò che vi si andrà a scaricare. Il secondo insegnamento è sulla natura umana, su quelle persone che si lamentano sempre perché i cittadini non appoggiano le loro iniziative e, quando invece questo accade, perdono la testa perché considerano la cosa “roba loro” e temono che qualcun altro gliela voglia sottrarre.
Rassicuro tutti. Contrariamente ad altri, non cerco visibilità o pubblicità. Rinuncio volentieri al surplus di visualizzazioni che ha avuto il mio blog in questi ultimi giorni (oltre 400 nell’ultima settimana) e spero che, nel giro di poco tempo, si possa tornare all’antica eleganza, quella presente anche in articoli e commenti nei quali non è certo mancata una buona dose di spirito polemico.
Ho un unico rammarico. A causa dell’insistenza al limite dello stalking del coraggiosissimo e anonimo Rocco Aspromonte, che mi ricorda l’elefante nascosto dietro al palo della luce, sono stato costretto a inserire la funzione “moderazione” nei commenti. Per cui, se non prima li leggo io, i vostri commenti non potranno essere pubblicati. Ho dovuto farlo perché ieri sera la mia casella di posta è stata presa d’assalto dal coraggiosissimo e anonimo Rocco Aspromonte, che mi ha fatto una decina di volte la stessa domanda, alla quale peraltro avevo ampiamente risposto nel commento. Non appena cesserà la sua sindrome compulsiva da “invio commenti”, torneremo alle vecchie abitudini. Lo stile è l’uomo. E io penso che ogni argomentazione possa essere difesa con garbo, senza il ricorso ad un’aggressività che, invece di avvicinare, allontana le persone.

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Ancora sulla discarica

Da più parti mi è stata segnalata l’impossibilità di commentare l’articolo precedente. Non sono un esperto di informatica, ma temo che dipenda dal fatto che alcuni commenti sono troppo lunghi. Ovviamente mi fa piacere sapere che il mio blog è servito ad aprire questo dibattito. Alcuni hanno scritto, altri mi hanno telefonato, altri mi hanno fermato in piazza. Bene. Il mio blog è a disposizione, chi non volesse limitarsi ad un commento, può tranquillamente farlo, inviandomi il pezzo sull’indirizzo email (forgidome@libero.it) e io provvederò a pubblicarlo. Per quanto riguarda i commenti, vi raccomando di non essere troppo lunghi (l’autobiografia di Rositano in effetti è eccessivamente lunga) e soprattutto di rispettare quelle due famose regole: libertà di opinione e divieto del turpiloquio. Pubblico di seguito un intervento che mi è stato mandato stamattina. Per motivi che comprendo, l’autrice dell’articolo mi ha chiesto se può firmarlo soltanto con l’iniziale. Acconsento perché conosco la persona.

Ho sempre seguito il blog di Dominik, sia perché ammiro la sua grande professionalità, sia perchè lo ritengo un importante veicolo di democrazia. Da mesi sento parlare della discarica in località Zingara, così come da quando si sono incendiate le famose travi della ferrovia, mi sono chiesta che cosa stia succedendo in quel posto. Mi è capitato anche di vedere dei tir con targa straniera imboccare la via della discarica, e mi è suonato in testa un altro campanello: nel nostro territorio succedono spesso cose molto poco chiare. Ho cercato di saperne di più nel mio piccolo, ma pochi sono informati sull’argomento. Ho letto gli articoli che Rositano ha disseminato nel territorio, ma nonostante la professionalità decantata dei giornalisti, non mi sembra che essi illuminino la questione da tutti i lati. Quindi, sempre in ritardo, mi sono collegata nel sito del Tributarista Ambulante, ma vi ho ritrovato soltanto i due famosi articoli, che non mi possono bastare. Alla fine mi sono rivolta a Dominik che ha colmato altri tasselli che mancavano, perché ha trattato l’argomento in una prospettiva più ampia. La risposta di Mimmo Rositano è stata ancora più illuminante.
Caro signor Rositano, io ammiro tutte le lotte che hai fatto fino ad adesso, e ti ringrazio per tutto quello che stai facendo per il futuro dei nostri figli, davvero spesso hai dato voce ai nostri dubbi, e alla nostra indignazione, e mi sono chiesta perché alla fine sono così pochi quelli che ti seguono. La risposta che mi sono data stava sicuramente in una caratteristica degli Eufemiesi che siamo pronti a dire mille parole su chi sbaglia e spenderne veramente poche per chi fa qualcosa di buono. Anch’io mi sono indignata con le Associazioni che non hanno aiutato ad approfondire questo problema, e mi sono vergognata perché anche io nel mio ruolo di cittadina, non mi sono informata abbastanza e non ho fatto nulla.
Ma davanti alla risposta che hai dato a Saverio, che ha peccato nel farsi prendere un po’ troppo dalla passione che, nelle sue buone intenzioni, lo distingue, mi chiedo quanto tu dia spazio all’altro, e quanta sia stata cercata la COLLABORAZIONE degli altri. Se vuoi che ti aiutiamo, Mimmo, ci devi informare. Quelle cose che hai scritto nel blog io non le sapevo, e vorrei conoscerle in maniera più approfondita. Rendici informati, dacci la possibilità di fare qualcosa, nella consapevolezza però. Non tutti possiamo stare nelle piazze per sentirne le voci, non tutti possiamo partecipare ai Consigli Comunali, ma oggi tutti abbiamo un computer e nei pochi ritagli di tempo che abbiamo possiamo informarci. Tanti, in questa situazione dobbiamo fare il mea culpa, ma non è il momento di imitare i capponi di Renzo e beccarci l’un l’altro, c’è un problema serio, un problema, che tutti te lo riconosciamo, hai messo tu in luce, ma che è comune.
Come diceva Kissinger la democrazia è quella che nasce dal basso, prima devono essere democratici i cittadini e poi lo diviene il governo; sta a noi essere informati e chiedere risposte concrete, altrimenti mai nessuno ce le calerà spontaneamente dall’alto.
C.

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Striscia o non striscia, la discarica è un problema

Ieri doveva essere il giorno dell’arrivo di Striscia la notizia alla discarica di contrada “La Zingara” di Melicuccà, ma come è stato reso noto da un comunicato stampa di Legambiente “Aspromonte”, il viaggio in Calabria dell’inviato Max Laudadio – che avrebbe anche dovuto fare tappa a Catanzaro, presso gli uffici dell’assessorato regionale all’ambiente – è stato rinviato a causa del maltempo. Ma con o senza le telecamere di Canale 5, la questione della discarica tocca da vicino la nostra comunità e richiede alla popolazione uno sforzo di partecipazione alla battaglia che, quasi in solitaria, sta conducendo da tempo Mimmo Rositano, presidente del circolo aspromontano di Legambiente.
Andiamo con ordine. Tutto inizia nel dicembre 2010, quando la chiusura della discarica “Marrella” di Gioia Tauro provoca i primi veri disagi nella raccolta dei rifiuti nella Piana. Il governo regionale decide l’apertura di nuove discariche e chiede collaborazione alle amministrazioni comunali. Invito colto immediatamente da Emanuele Oliveri, sindaco del comune di Melicuccà, all’interno del quale ricade la località “La Zingara”, che di fatto, però, è incastrata tra i comuni di Sant’Eufemia e Bagnara Calabra. Costo dell’operazione per la realizzazione della conca e la bonifica del sito (che contiene una discarica già utilizzata negli anni scorsi): 2.756.518,48 euro. La multinazionale Veolia attraverso una sua controllata (Tec) dovrebbe poi gestire la discarica, destinata ad accogliere il FOS (frazione organica stabilizzata) proveniente dal termovalorizzatore di Gioia Tauro, con un ulteriore introito per le casse del comune di Melicuccà di 5 euro a tonnellata.
Smaltimento dei rifiuti, sovraffollamento del pianeta e depauperamento delle risorse naturali rappresenteranno la questione centrale in questo secolo. Produciamo rifiuti con un ritmo esponenziale, per cui non possiamo pensare di scansare gli oneri del loro smaltimento. Qualcosa però non torna. Il primo a capirlo è Mimmo Rositano, un eufemiese abituato a “fare le pulci” alle amministrazioni locali, indipendentemente dal loro colore politico. Raccoglie materiale, ascolta pareri tecnici, fa opera di sensibilizzazione. Anche a Bagnara qualcosa comincia a muoversi, per iniziativa di un comitato di residenti di contrada Piani di Pomarelli, praticamente a due passi dalla discarica, e di Daniela Monterosso, segretaria provinciale del Partito popolare sicurezza e difesa. A fine aprile 2011, un consiglio comunale aperto, a Melicuccà, affronta la questione. I sindaci di Bagnara (Cesare Zappia) e di Sant’Eufemia (Enzo Saccà), si dichiarano pronti alla mobilitazione, mentre alcuni cittadini manifestano perplessità di fronte alla promessa che la vecchia discarica sarà bonificata e la nuova costruita nel rispetto di tutte le norme di sicurezza. C’è il timore che, una volta aperta, vi finisca dentro di tutto. Non è un timore infondato. L’odore acre che ogni tanto giunge in paese e la colonna di fumo che talvolta si vede salire in cielo non sono segnali rassicuranti. Il ricordo del fumo nero e dell’olezzo tossico sprigionato per una settimana dall’incendio di trentamila traversine al creosoto, finite non si sa come nella vecchia discarica, a cinque anni di distanza è ancora vivo.
Antonino Calogero, segretario della Cgil della Piana rilancia, ponendo la domanda da un milione di dollari, quella alla quale nessuno ha ancora risposto: perché il Commissario per l’emergenza ambientale ha proposto la costruzione di tre nuove discariche, tutte in provincia di Reggio (Rosarno, San Calogero e Melicuccà)? C’è un progetto per fare della nostra area la pattumiera della regione? Il dubbio viene, anche perché, accanto alla vicenda delle discariche, c’è quella del raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro. Una scelta illogica e antieconomica (basti pensare ai tempi e ai costi del trasporto) rispetto alla previsione iniziale di costruire un impianto nel cosentino, per il quale l’ex giunta Loiero, la provincia di Cosenza, ed il comune di San Lorenzo del Vallo avevano sottoscritto un protocollo d’intesa. La gestione emergenziale dei rifiuti si è rivelata un fallimento. Già il fatto che duri dal 1997 la dice lunga: un’emergenza dovrebbe essere affrontata e risolta nel più breve tempo possibile, non procrastinata all’infinito. Nessuno dei problemi è stato risolto: la discarica di Pianopoli va in tilt non appena piove, quella di Alli è finita sotto sequestro per la violazione delle norme ambientali e –notizia di oggi – l’inchiesta in corso (“Pecunia non olet”) ha portato all’arresto di cinque persone, al sequestro di beni per 12 milioni di euro e alla richiesta di interdizione per il Commissario per l’emergenza ambientale, Graziano Melandri, già dimessosi dall’incarico nei giorni scorsi. Per quanto riguarda la discarica di contrada “La Zingara”, sono tre gli elementi che suscitano perplessità e per i quali va verificato il rispetto delle leggi: la distanza della discarica dagli insediamenti abitativi, davvero minima; il passaggio su di essa dei cavi dell’alta tensione, con il conseguente rischio di un’esplosione nel caso di esalazione di gas infiammabili; l’esistenza nel sottosuolo di una falda acquifera che confluisce nell’acquedotto “Vina”, che serve diversi comuni della Piana.
La giornata di ieri è stata comunque importante. Il sindaco di Bagnara ha infatti reso noto di avere presentato una denuncia alla Procura della Repubblica per chiedere di verificare la regolarità dei lavori di costruzione e di accertare la commissione di eventuali reati ambientali. La scintilla di Legambiente è ormai diventata una battaglia di civiltà e di verità, da sostenere senza se e senza ma.

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Il cinguettio della rete

Quella appena conclusa è stata la prima crisi di governo seguita e commentata dal cittadino comune mentre si svolgeva, grazie a Twitter, il social network creato a San Francisco nel 2006, che oggi conta 100 milioni di utenti attivi in tutto il pianeta e un traffico giornaliero di circa un miliardo di messaggi.
Il mio primo cinguettio (tweet) risale al 25 febbraio scorso, ma soltanto da poco ho iniziato ad apprezzare le potenzialità di questo strumento di comunicazione rapido ed efficace. Per parecchi mesi l’ho utilizzato raramente e male. Un atteggiamento diffidente dovuto all’esperienza negativa avuta con Facebook due anni fa, quando avevo aperto un profilo che chiusi dopo neanche un mese perché – motivazione allegata alla richiesta di cancellazione – “pensavo fosse un luogo dove ci si incontra e si discute, invece mi sembra un posto frequentato da guardoni ed esibizionisti”. Le vite degli altri attraverso il buco della serratura e l’ostentazione delle proprie “imprese”, con un’invadenza a volte insopportabile, basata sulla distorsione semantica del concetto di amicizia. Su Faceboook si diventa “amico” di qualcuno, termine abusatissimo e quanto mai inflazionato. Su Twitter si è invece “seguace” (follower), vocabolo più appropriato per mantenere la corretta distanza tra persone che non si conoscono, ma si “seguono” perché uno trova interessante ciò che l’altro dice. Un tweet “retweettato” da un centinaio di utenti sintetizza con ironia la differenza tra i due social network: “Twitter ti fa amare persone che non hai mai conosciuto. Facebook ti fa odiare persone che conosci da tanto tempo”.
Secondo la definizione ufficiale, Twitter è un servizio di microblogging che consente di postare messaggi non superiori a 140 caratteri – contenenti anche immagini e video – per mettere a disposizione degli utenti “notizie complete, chiare e soprattutto brevi” (Marco Castelnuovo, La Stampa). Una rivoluzione nel modo di fare informazione manifestatasi già durante le crisi che hanno interessato i Paesi del Nord Africa, con gli aggiornamenti sugli scontri e le violenze “in presa diretta”, grazie ai tweet inviati con il telefonino da rivoltosi e giornalisti freelance. Per introdurre una tematica d’interesse o partecipare a qualsiasi discussione si usano gli hashtags, parole precedute dal simbolo “cancelletto”. Nei giorni scorsi, #rimontiamo, ideato da Stefano Bartezzaghi anagrammando “Mario Monti”, è stato tra i TT (trending topics) inseriti da politici, giornalisti – i più interessati al fenomeno Twitter – e appassionati del web nei rispettivi commenti sull’evoluzione della crisi politica italiana; #OWS è invece da due mesi la parola-chiave per essere aggiornati sulla protesta che vede impegnato il movimento degli indignati Occupy Wall Street a Manhattan.
In Italia, il numero degli utenti è aumentato esponenzialmente dopo l’arrivo di personaggi del mondo dello spettacolo, su tutti Fiorello che si diverte a fare di Twitter una specie di “sala prove” per i suoi numeri. Tra i politici conquistati di recente dal cinguettio della rete, anche i leader di partito Bersani, Casini, Vendola, Di Pietro: #opencamera l’hashtag utilizzato da molti parlamentari e giornalisti per comunicare all’esterno, in diretta, ciò che accade durante le sedute parlamentari. Le notizie ormai passano prima da Twitter. Ma l’aspetto più intrigante è dato dalla possibilità di riuscire ad interloquire con i protagonisti della vita politica e culturale, ad esempio “guardando insieme” e commentando qualsiasi programma televisivo: cancelletto prima del titolo (#piazzapulita; #serviziopubblico; #portaaporta, e così via) e il gioco è fatto.

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L’italiano, questo sconosciuto

Non penso che essere ignorante sia una colpa. Semmai, è colpa della società se esiste l’ignoranza. Doverosa precisazione: con il termine ignorante non si intende una persona poco intelligente, secondo un’accezione offensiva ma largamente diffusa, bensì “colui che ignora”, cioè “che non sa”, per i più svariati motivi. Eppure è inevitabile un moto di irritazione alla lettura di alcune bestemmie ortografiche e sintattiche. Mi rendo conto che, a volte, è la fretta che genera questi mostri. Per esempio, quando si scrive un sms. In questi casi, l’indulgenza è scontata. Come nei confronti di chi ha passato troppo poco tempo a scuola e non ostenta certificati di laurea incorniciati in legno pregiato. Per gli altri, però, non c’è giustificazione che tenga.
La galleria degli orrori inizia da è, c’è, ce n’è e ce ne sono. Un metodo infallibile per non cadere in errore, appreso alle elementari, consiste nel trasformare il tempo del verbo da presente a imperfetto. Se la frase continua ad avere un senso, ci vogliono accento e apostrofo. Accorgimento valido anche per a con (verbo avere) o senza h (preposizione semplice). Altra lezione senza tempo, uno/una seguiti da aggettivi o nomi che iniziano per vocale. Se il genere è femminile (un’altra, un’anatra), ci vuole l’apostrofo; altrimenti, no (un altro, un uomo). Fa, va e sta non vanno accentati (fa caldo, va bene, sta in cantina), trattandosi di presente indicativo. Nella forma imperativa, invece, subiscono l’elisione, per cui richiedono l’apostrofo: fa’ presto, va’ dove ti porta il cuore, sta’ attento. Un po’ e be’ sono le forme tronche di poco e bene. Un si fa prima a scriverlo, ma fa anche venire l’orticaria. , prendendo in prestito l’ironia di Beppe Severgnini, “è un belato” (L’italiano. Lezioni semiserie). Qual è non vuole l’apostrofo: è un troncamento (o apocope vocalica), non un’elisione. , , perché, affinché vogliono l’accento acuto; è, cioè, caffè quello grave. Per non rischiare di diventare insopportabile, non prendo in considerazione le coltellate inferte alla consecutio temporum, né il condizionale utilizzato in luogo del congiuntivo, che provoca lo stesso effetto di un’unghiata sulla lavagna. Dico solo che una riforma universitaria seria, a questo punto, dovrebbe prevedere un esame finale molto semplice: il dettato. Ci sarebbe da ridere. O da piangere.
Due raccomandazioni finali. La prima: nell’esposizione di un pensiero, è fondamentale riuscire a farsi comprendere. L’ansia di dire tutto in un unico periodo può giocare brutti scherzi. Da evitare, pertanto, frasi chilometriche infarcite di subordinate. Maratone in grado di fare alzare bandiera bianca anche ai podisti più resistenti. La seconda: la punteggiatura non è un orpello superfluo. Punto, virgola, due punti, punto e virgola, trattini, parentesi sono il respiro stesso della pagina, gli strumenti che danno il ritmo alle parole. A patto di non esagerare, come accade di frequente con il punto esclamativo e con i puntini sospensivi, una tendenza dovuta all’irruzione del linguaggio non verbale nei nuovi sistemi di comunicazione. Non a caso, proprio i segni di interpunzione sostituiscono le “faccine” (emoticon) utilizzate nelle chat o negli sms.

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Comunque vada, dovrebbe essere un successo

Questione di ore e ci dovremmo avviare ad un esecutivo guidato da Mario Monti. C’è una gran voglia di archiviare al più presto la stagione berlusconiana, diciassette anni vissuti in apnea, rincorrendo annunci sempre più mirabolanti, una “rivoluzione liberale” promessa e mai realizzata, il rimpianto e la delusione di tanti per ciò che poteva essere e non è stato, come in una famosa poesia di Gozzano.
Non mancano però i colpi di coda. Il Pdl è lacerato, Alfano non sembra in grado di produrre una sintesi che tenga insieme chi non vuole sentir parlare di governo Monti (Brunetta, Rotondi, Matteoli, Sacconi) e chi invece è più possibilista e, anzi, lo considera un passaggio ineludibile in questa fase (Frattini, Scajola, Alemanno, Formigoni, Lupi). L’appoggio esterno può rappresentare un compromesso accettabile? Forse no. Perché a quel punto bisognerebbe valutare la reazione di Terzo polo e Pd, che non avrebbero alcun interesse ad intestarsi provvedimenti di lacrime e sangue, con il Pdl e la Lega a martellare l’opinione pubblica in un’infinita campagna elettorale. Maroni è stato chiaro: da lunedì la Lega è all’opposizione e oggi finisce il ciclo politico iniziato nel 1994, con l’alleanza tra Bossi e Berlusconi. È un “tutti liberi” e non si capisce quale potrebbe essere l’approdo. Proprio il timore di perdere il fedele alleato e di vedersi sbriciolare tra le mani il partito trattengono Berlusconi dallo sposare apertamente la soluzione Monti, altrimenti vissuta come una vera e propria liberazione. Per molti, all’interno del Pdl, la rottura con la Lega è un prezzo troppo alto, soprattutto fino a quando Casini insisterà nel suo terzismo.
Tutto sembra quindi condurre a Monti, da ultimo anche la correzione di tiro di Di Pietro, inizialmente per le elezioni anticipate. Comunità internazionale e mercati si sono già espressi in maniera favorevole, dimostrando un protagonismo al limite dell’ingerenza negli affari di uno Stato sovrano. D’altronde, sono stati Fmi e Bce a decretare la fine dei governi di Grecia e Italia, circostanza sulla quale comunque si dovrà riflettere per capire quale sarà il destino delle democrazie nei prossimi anni.
Monti o non Monti, se il prossimo governo non vuole fallire la propria missione, deve prendere pochi ma significativi provvedimenti, dei quali peraltro si parla da tempo immemorabile. Senza esempio e credibilità, nessuno avrà mai l’autorevolezza necessaria per potere imporre sacrifici. Ecco perché tra i primi provvedimenti, da prendere ora, non da promettere per il prossimo decennio, occorre inserire l’abbattimento dei costi della politica (riduzione del numero dei parlamentari, pesante decurtazione dello stipendio, abolizione di vitalizi, privilegi e benefits) e una robusta patrimoniale. Seguiti da una legge sul conflitto d’interessi affinché “non accada mai più” e da una riforma della legge elettorale che restituisca al cittadino il potere di scegliersi i rappresentanti in Parlamento. Un cronoprogramma da realizzare nel più breve tempo possibile e poi andare al voto. Ma questa classe politica sarà capace di uno scatto di dignità?

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E meno male che non è successo niente

Ha dovuto arrendersi all’evidenza. Non ce n’era più uno favorevole alla “bella morte” in un’ordalia parlamentare di prodiana memoria. Si è fermato un attimo prima. Merito, forse, dell’invito di Bossi a fare un passo “di lato”, giunto dopo che già il ministro dell’Interno Maroni aveva dichiarato che l’accanimento terapeutico non aveva senso. Verrebbe proprio da dire sic transit gloria mundi, pensando a quanto i destini e la fortuna della Lega siano dipesi dal rapporto preferenziale avuto con Berlusconi.
L’immagine del premier in Aula, impegnato a controllare i tabulati della votazione per accertarsi sull’identità dei “traditori” è una nemesi crudele per il presidente del consiglio insediatosi con la più ampia maggioranza della storia repubblicana. Sino alla fine, nonostante l’atmosfera da fine impero, è stata però una gara a chi era più convincente e surreale nel minimizzare. Bastava ascoltare il giornalista di Libero Filippo Facci, tanto per fare un esempio utile anche per deprecare la latitanza della Rai, nel momento più delicato per il governo, e l’ottimo servizio pubblico reso invece da una televisione privata (La7), con la lunghissima no-stop pomeridiana: “non è successo nulla”. Cos’altro doveva accadere, se hanno votato 308 deputati su 630 (309 se si prende per buona la giustificazione di Gianni Malgieri: “ero in bagno”)? Il Rendiconto generale dello Stato è stato approvato grazie all’astensione dell’opposizione. In altre parole, la maggioranza non esiste. E Maurizio Paniz aveva ancora la forza di argomentare che “non è detto che quelli che si sono astenuti oggi siano contrari al governo. Occorre fare prevalere la legge dei numeri. Da qui a dire che si è conclusa una storia politica ce ne corre”. Mentre Antonio Martino cercava di metterla sul decoro: “Berlusconi merita una fine più gloriosa. Dovrebbe cercare la fiducia in Parlamento sulla lettera della BCE e, se il Parlamento vota contro, vuol dire che in questo Parlamento non c’è nulla”. Un giochino, o un ricatto.
Sul piano strettamente procedurale, il premier non è tenuto a dimettersi, in assenza di un voto di sfiducia. Ma i consigli degli alleati e lo spread Btp/Bond schizzato a quasi 500 punti non hanno certamente confortato i propositi di resistenza ad oltranza. Cosicché, poco dopo le 18.30, c’è stata la tanta invocata salita al Colle e la promessa di rassegnare le dimissioni subito dopo l’approvazione della Legge di Stabilità. Un modo per concedersi un finale di partita dignitoso, prima di passare il pallino a Napolitano.
A quel punto inizierà un’altra partita, nonostante la contrarietà del leader del Pdl ad ogni ipotesi contraria alle elezioni anticipate. I giochi di Palazzo sono iniziati. Con il fronte anti-voto, interno allo stesso Pdl, pronto ad appoggiare una personalità prestigiosa capace di traghettare il Paese fino al 2013. Altri, invece, temono l’ennesimo bluff. Di Pietro, per esempio, consiglia prudenza e insinua il dubbio sulle reali intenzioni di Berlusconi. Che alla fine potrebbe approfittare dei prossimi giorni per realizzare l’ennesimo gioco di prestigio e ricompattare la maggioranza. Una provocazione, data la promessa fatta al presidente della Repubblica. Ma al tramonto le ombre si allungano e fanno più paura che mai.

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Un’altra settimana di passione, forse l’ultima

Buona regola, oltre che misura di prudenza, è attenersi al vecchio e saggio consiglio del Trap: “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. In altre parole, non bisogna mai dare nulla per scontato. Soprattutto con “lui”. Ha già dimostrato ampiamente di avere una capacità di risollevarsi degna di Amintore Fanfani, il “rieccolo” di montanelliana memoria. D’altronde, viene spesso paragonato a “Ercolino sempre in piedi”, mitico pupazzo della Galbani che più lo atterravi e più si rialzava.
Comunque, pare che ormai sia cosa fatta. Questa potrebbe essere la settimana decisiva per scrivere la parola “fine” sulla fallimentare esperienza di governo iniziata nel 2008, con la più ampia maggioranza avuta da un governo repubblicano. Il vuoto creato attorno al presidente del consiglio è palpabile. In Italia e all’estero. Nel suo stesso schieramento, è un invito sempre più insistente a farsi da parte. E non solo tra i malpancisti, quella genia di parlamentari pronti a vendere la residua dignità per un posto da sottosegretario. “Responsabili” fino a quando hanno un tornaconto personale: una poltrona o la garanzia di una ricandidatura. Se anche Gianni Letta si è convinto che “così non si può andare avanti”, siamo ai titoli di coda. Non bastasse la fronda interna (con i vari Formigoni, Scajola e company attenti ai possibili movimenti tellurici del dopo Berlusconi), gli osservatori internazionali sono ancor più espliciti. Il titolo del Financial Times è eloquente: “In nome di Dio e dell’Italia, vattene”.
C’è quasi dell’eroismo nella resistenza opposta dal premier. O dell’irresponsabilità, dalla prospettiva opposta. Forse la consapevolezza che, una volta fuori dal bunker di Palazzo Chigi, molte giornate dovrà trascorrerle nelle aule dei tribunali.
Intanto, è un fuggi-fuggi generale. La maggioranza è un’anguilla che a tentare di bloccarla scappa da tutte le parti. Parlamentari dati in uscita sui quali il pressing di Denis Verdini e dello stesso premier non sembra più produrre effetto. Ma non definiamoli eroi. Tra coloro che ora vestono la maschera dei censori, la stragrande maggioranza è responsabile dello sfascio morale in cui si trova l’Italia. Sono quelli che hanno votato qualsiasi porcata e che si sono sfilati soltanto in questo decadente epilogo. E che con questa legge elettorale saranno rieletti. Difficile pensare che qualcuno sia disposto a fare cadere il governo e poi sparire dalla circolazione. I movimenti al centro sono frenetici ed è probabile che partiti di crinale come Udc ed Mpa diventeranno una lavanderia politica.
Fine di una storia, dunque. Con un rimpianto. Quello di non essere stati in grado di farcela da soli. Alla fine, dovremo ringraziare la comunità internazionale che ha provocato l’isolamento di Berlusconi, e Paolo Cirino Pomicino, il regista delle manovre che stanno sfilando uno ad uno i parlamentari pidiellini. Va a finire che moriremo davvero democristiani.

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Il ritorno di Santoro

Che sarebbero state poche le novità, è stato chiaro sin dall’ingresso di Santoro nello studio sulle note della canzone di Vasco Rossi “I soliti”. Il pubblico di “Annozero” non ha avuto difficoltà a risintonizzarsi su “Servizio Pubblico”, praticamente il sequel del talk show andato in onda su Rai2. La stessa apertura con l’anteprima del conduttore, che ha ricordato due maestri del giornalismo, Enzo Biagi e Indro Montanelli, ed evocato la “rivoluzione civile” auspicata da Mario Monicelli. La stessa musica, quella di Nicola Piovani. Persino gli stessi caratteri utilizzati per scrivere il titolo del programma. Una formula vincente, confermata dai dati d’ascolto. Circa tre milioni di telespettatori e il 14% di audience (dietro soltanto a Rai1 e Canale5) il colpo messo a segno grazie ad una “multipiattaforma” composta da emittenti locali, Sky, siti internet e radio. La dimostrazione che è possibile fare televisione non di nicchia anche al di fuori del finto duopolio Rai-Mediaset.
“Sarà una tv che sale sulla gru”, era stata la promessa. E due gru, simbolo della protesta dei disoccupati, fanno parte della scarna scenografia. Con esse, tre torri d’acciaio da dove il “frate indignato” Vauro, con il suo “giramento di cordoni”, presenta le sue vignette, Giulia Innocenzi lancia in diretta i sondaggi su Facebook e il “paese reale”, quello dei disoccupati e dei precari, prende la parola. Sul palco non c’è il tavolo di “Annozero”, ma soltanto due sedie per gli ospiti della puntata, intitolata “Licenziare la casta”: l’imprenditore Diego Della Valle e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, sottoposti alle domande di Franco Bechis, Luisella Costamagna e Paolo Mieli, il “complottatore capo” (copyright di Giuliano Ferrara) del piano di disarcionamento del premier. Doppio Travaglio, come Vauro: “la balla della settimana” – il magistrato Ingroia “partigiano” della Costituzione – e “i soliti ignoti” sull’argomento della puntata. Asciutto e incisivo il servizio di Sandro Ruotolo sugli sprechi della politica, al quale hanno fatto da complemento le considerazioni di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, coppia di giornalisti abituata a fare le pulci alla casta. Ottimi i contributi provenienti dalla “strada”: l’intervista al deputato di Fli che ha definito Finmeccanica “il marchettatoio” di questo governo; le rivelazioni di Antonio Razzi, sedicente eroe per avere avuto il “coraggio” di tenere in vita il governo; la stizza di Claudio Scajola, beccato all’uscita dal famigerato appartamento, in parte pagato a sua insaputa dall’imprenditore Diego Anemone.
Nel complesso, prova superata, anche se alcune cose vanno riviste. Per esempio, sarebbe bene ascoltare più campane. E poi, non andare “fuori traccia”, un’impressione che si è avuta con l’intervista alla testimone chiave dei processi sul “bunga-bunga” e con il servizio sul latitante Valter Lavitola, autodefinitosi “lo sfigato della situazione”. Lo schema disegnato sulla lavagna dall’ex direttore dell’Avanti per spiegare i soldi a Tarantini è stato un numero da avanspettacolo, ma la vetta della comicità è stata raggiunta con il comizio di Scilipoti: “è finito il tempo dei cialtroni! È iniziato il tempo della meritocrazia!”.

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