Due pesi e due misure

Il governo italiano – giustamente – sta facendo di tutto per riportare a casa Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò arrestati in seguito all’incidente che ha provocato la morte di due pescatori al largo delle coste indiane. I due militari facevano parte della scorta in servizio “anti-pirateria” sulla petroliera Lexie, battente bandiera italiana. Da un mese sono trattenuti in prigione, separati dagli altri detenuti, in attesa che si giunga ad una soluzione condivisa dal governo indiano e da quello italiano. Palazzo Chigi contesta la competenza della giurisdizione, che dovrebbe essere italiana – essendo l’incidente avvenuto in acque internazionali – e l’arresto stesso, che violerebbe i diritti derivanti dallo status di militari dei due detenuti. Il governo indiano confuta questa tesi: non si tratterebbe di acque internazionali, bensì di “zona contigua”, e i due marò sarebbero forze “private”, non militari. Una vicenda intricata, sulla quale pesa anche la strumentalizzazione politica delle autorità politiche indiane in funzione elettorale, che l’esecutivo guidato da Monti sta seguendo con molta attenzione e apprensione, sia recandosi con propri rappresentanti in India, sia tenendo accesi i riflettori in Parlamento, nelle sedute del governo e in Europa.

Vittorio Arrigoni non era un militare. Era un attivista, in Palestina, dell’International Solidarity Movement. Nel 2010 aveva preso parte alla Freedom Flotilla, spedizione di generi di prima necessità da fare giungere a Gaza forzando il blocco israeliano. Aveva anche denunciato le atrocità commesse dall’esercito di Tel Aviv sulla popolazione inerme, girando e diffondendo video sulle vittime (per lo più bambini) delle bombe al fosforo. Il 15 aprile sarà trascorso un anno da quando è stato ucciso, dopo essere stato rapito da un gruppo salafista. “Un crimine imbarazzante e ignobile”, secondo il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, perpetrato a danno di un italiano “solidale con Gaza”, la presa di distanza dei principali forum jihadisti.
Sul CORRIERE DELLA SERA, Francesco Battistini ha sollevato la questione dei ritardi nel processo per l’assassinio di Arrigoni. Un dibattimento quasi inesistente, udienze brevissime, continui rinvii e la sensazione che la corte sia orientata ad accogliere la tesi difensiva, che addossa la responsabilità ad un fondamentalista islamico ucciso dalla polizia palestinese, scagionando così i quattro imputati (tre attualmente arrestati, uno a piede libero). “Arrigoni, vittima dimenticata di un processo farsa” ha titolato il quotidiano di via Solferino.
Il silenzio del governo italiano su questa vicenda è assordante. La giustificazione ipocrita: essendo Hamas considerata un’organizzazione terroristica, non può essere riconosciuta come interlocutrice dal governo italiano, che per questo motivo non ha mai mandato al processo nemmeno un osservatore.
Ecco, disturba parecchio l’idea che esistano Italiani di serie A in divisa e Italiani di serie B con la pipa in bocca e la kefiah al collo.

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Oggi è così

Avrei un miliardo di cose da dire, ma con quel miliardo non riempirei neanche una minima parte del buco che ho dentro.
Magari un’altra volta, oggi è così.

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Autopsia di un falso

Che il fascismo sia un prodotto commerciale capace ancora di “tirare”, è fuori di dubbio. Basti considerare il florido mercato di calendari e gadget dedicati al Ventennio. La simpatia per il duce attraversa come un fiume carsico la storia repubblicana italiana, riaffiorando ora sotto forma di proposta (sic) politica: nonostante il divieto di ricostituzione del partito fascista e il reato di apologia del fascismo, alcune manifestazioni, più o meno folcloristiche, sono eloquenti; ora come nostalgico e malinteso senso di orgoglio nazionale (“quando c’era lui”). Contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia liberale, sono convinto che il fascismo non costituisca una “parentesi” nel corso della storia italiana (il che avrebbe dovuto comportare, dopo la sua caduta, la naturale conseguenza di un ritorno all’Italia liberale). Il movimento fondato da Benito Mussolini appartiene in toto alla biografia italiana, è la conseguenza della presenza, per tutto il sessantennio post-unitario, di “germi patogeni” nella società e nelle istituzioni (teoria a cavallo tra quella liberale e quella ispirata al determinismo marxista, che ebbe fortuna negli ambienti azionisti). Non è azzardato ipotizzare che senza il 10 giugno 1940 e il disastroso esito del conflitto mondiale, il duce avrebbe probabilmente finito i suoi giorni nel proprio letto (come Francisco Franco in Spagna). La storia insegna che l’Italia è un Paese che periodicamente si lascia affascinare da uomini della Provvidenza ai quali affida acriticamente il destino della Nazione.
Non credo sia casuale l’ondata revisionista degli ultimi venti anni, tesa a presentare un dittatore dal volto “umano”, un pacifista vittima dell’alleanza “obbligata” con Hitler, amico degli ebrei e dotato di una sensibilità che gli consentiva, al massimo, di mandare gli oppositori politici “in villeggiatura al confino”.
L’operazione editoriale portata a termine da Elisabetta Sgarbi e Marcello Dell’Utri per conto della Bompiani va collocata in questo clima culturale. Pubblicare i “Diari” di Mussolini negli anni compresi tra il 1935 e il 1939, non può avere altre giustificazioni, se non quelle nostalgico-commerciale e revisionista. Perché i diari sono apocrifi, talmente falsi che lo stesso editore ha dovuto cautelativamente titolare l’opera I Diari di Mussolini [veri o presunti]. Il primo volume (1939), pubblicato nel 2010, è stato già smontato dallo storico Mimmo Franzinelli, il quale ha svelato la “bufala colossale” in Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (Bollati Boringhieri, 2011). Un’indagine rigorosa e certosina che stabilisce chi ha scritto materialmente i diari e dimostra in che modo essi sono pervenuti nelle mani del senatore Dell’Utri. Una storia giudiziaria nota e terminata nel 1962 con la condanna per truffa e falso delle due autrici (le vercellesi Rosetta e Mimì Panvini, mamma e figlia), dopo il bidone rifilato ad Arnaldo Mondadori. Da allora, le famose cinque agende della Croce Rossa sono state periodicamente proposte a editori italiani e europei, inutilmente, sino alla “scoperta” fatta da Dell’Utri in Svizzera.
Gli errori e le incongruenze storiche, puntualmente evidenziati da Franzinelli, si contano a iosa. I più eclatanti: alcuni eventi posticipati di ventiquattro ore, a dimostrazione che spesso la fonte è il resoconto pubblicato da qualche quotidiano il giorno successivo all’effettivo svolgimento dei fatti; i carri armati tedeschi “Tigre” citati con tre anni d’anticipo rispetto alla loro effettiva comparsa (1942); la data del compleanno del duce sbagliata; l’assenza dalle carte di alcuni personaggi del regime di primo piano (quelli che, evidentemente, all’epoca dell’estensione dei diari, non avevano ancora pubblicato memorie scritte). Franzinelli dimostra che il diario del 1939 è stato “costruito” utilizzando come fonti i giornali d’epoca, gli Scritti e discorsi di Benito Mussolini, pubblicati da Hoepli, il Diario di Galeazzo Ciano. Agli strafalcioni sintattici e agli anacronismi si aggiungono altre prove: l’analisi chimica dell’inchiostro, “incompatibile con quello in commercio prima della seconda guerra mondiale” (perizia del 1989); la perizia calligrafica del 1993 che ne dichiara “l’inattendibilità”; la scrittura troppo ordinata e lineare, come di chi stia copiando un testo; l’agenda stessa, che non è un’agenda “originale” della Croce Rossa.
La giustificazione dei fautori dell’autenticità degli scritti è indimostrabile. Sarebbero stati sì copiati, ma dagli originali. Quel che è certo, anche lo storico americano Brian Sullivan, per quasi trent’anni sostenitore della tesi dell’autenticità “postuma” del diario del 1939 (sarebbe stato cioè scritto negli anni della Repubblica di Salò per essere eventualmente utilizzato come memoria difensiva nel caso di un processo da parte degli Alleati), di fronte alle argomentazioni di Franzinelli ha cambiato opinione, allineandosi così con quanto sostenuto da tempo da tutti gli storici italiani.
Rimane l’irritazione per il degrado di alcuni settori della cultura italiana, disposti ad avallare un clamoroso tentativo di falsificazione della storia, un caso editoriale che diventa “anche” questione politica. La pubblicità ingannevole su LIBERO, che aveva anticipato l’uscita in fascicoli dei diari, promuovendoli con lo slogan “la storia scritta di suo pugno” o la recensione su IL GIORNALE (“ognuno potrà farsi un’idea, più o meno approfondita a seconda dei propri interessi, della autenticità delle carte”), si inseriscono nel solco della cronaca attuale, quella in cui fiction e realtà si mischiano al punto che risulta difficile separare il grano dal loglio.
La storia è però una cosa seria. Il libro di Franzinelli raccoglie la lezione che lo storico francese Marc Bloch, giustiziato dai nazisti nel 1944, ha scolpito in Apologia della storia (o mestiere di storico), laddove sostiene che compito dello storico è “difendere la storia dai suoi negatori, vecchi e nuovi”, attraverso la ricerca dell’impostore che si nasconde dietro l’impostura.

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8 marzo

L’ammetto: l’8 marzo è una ricorrenza che abolirei. Nonostante la storia di emancipazione che impregna tale data, non ha molto senso perché è sotto gli occhi di tutti che le donne sono discriminate quotidianamente, sui luoghi di lavoro e altrove; sono le principali vittime nei casi di violenza familiare; devono sudare il doppio per avere la metà di un maschio.
Abolirei l’8 marzo perché ogni giorno dovrebbe essere festa della donna. Per lo stesso motivo sono contrario alle quote rosa, che mi sanno di attrazione da circo Barnum. In una società moderna, dovrebbe andare avanti chi ha merito, indipendentemente dal sesso. Come la gran parte delle ricorrenze, l’8 marzo è il festival dell’ipocrisia, un lavarsi la coscienza per ricominciare, il 9, a prendere a calci in culo le donne, metaforicamente e non.
Ho avuto (e ho) la fortuna di avere a che fare con donne straordinarie. E ho potuto constatare che le donne generalmente hanno una marcia in più rispetto agli uomini. Sanno essere un treno, non si fermano di fronte a niente e a nessuno, hanno un’energia incredibile. Forse per questo sento particolarmente il tema e mi intrigano le storie che hanno come protagoniste le donne, siano esse mamme, nonne, sorelle, amiche, compagne, mogli, figlie, nipoti. Si chiamino “Roger” o “Martina”. Ce la facciano o meno ad ottenere quello che desiderano.
Come nella canzone di Francesco De Gregori Compagni di viaggio, tratta dall’album Prendere e lasciare (1996). La storia di un uomo e di una donna che non riescono a stare insieme nonostante l’amore che li lega e che Enrico Deregibus (Francesco De Gregori. Quello che non so, lo so cantare, Giunti editore, 2003) ha paragonato a “una Rimmel vent’anni dopo […], frammenti, poco definiti e molto definitivi di una storia, cocci difficili da riattaccare. […] Sgoccioli di un rapporto di coppia, lividi che si sovrappongono sull’anima”. Forse sto andando “fuori traccia”. O forse no, perché quel “sarà sempre tardi per me quando ritornerai” dice molto sulle donne e difficilmente avrebbe potuto pronunciarlo un uomo.

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Eufemiesi Bikers

La divisa somiglia a quella del campione d’Italia e la indosseranno undici nuovi campioni (con la speranza che presto diventino di più), lungo le strade della provincia. I più audaci anche oltre. È facile prevedere due fasce, una selezione già evidente nella passata stagione, quella del rodaggio per i nuovi e per coloro che non salivano su una bicicletta da corsa da tempo immemorabile, dagli anni della rivalità tra Saronni e Moser, tanto per intenderci. Campioni e gregari, come in tutte le squadre che si rispettino. I primi, serissimi negli allenamenti e attenti nell’alimentazione, macineranno chilometri su chilometri, cercando sempre di spostare in avanti l’asticella dei propri limiti. I secondi si accontenteranno di ammirare il panorama da Sant’Elia, o di attraversare i paesini toccati dalla vecchia Littorina, o di sfiorare il mare di Scilla per poi inerpicarsi sui tornanti che riportano a casa. Soprattutto, non avvertiranno alcun senso di colpa se le loro prestazioni a tavola saranno migliori di quelle sui pedali.
Affiliati alla federazione ciclistica italiana, gli “Eufemiesi Bikers” si sono dati uno statuto e un organigramma approvati all’unanimità. Presidente non poteva che essere Mimmo Fedele, volto storico del ciclismo eufemiese, già compagno di squadra di Girardengo. Vicepresidente Sarino Surace, lo “stilista” della squadra e uno dei due oriundi, insieme ad Antonio Forgione. Completano il direttivo il tesoriere Rocco Luppino, il segretario Enzo Fedele e il presidente onorario Lorenzo Genovese, la locomotiva umana. Senza nulla togliere al resto della squadra, Antonio, Rocco e Mimmo sono di un altro pianeta. Noi facciamo da contorno. Io per primo, tra l’altro preso “a prestito” dal pallone, che rimane sempre il mio unico vero amore. Il peso c’è, decisamente: come se pedalassi con lo zaino “tattico” sulle spalle. Non proprio il massimo. Gli altri “gregari” sono Cosimo Pinneri, che passa indifferentemente dal fuoristrada alla moto, allo sci, alla bici e a chissà quanti altri hobbies; Ninì Creazzo, che potrebbe avere un futuro (ma non ce l’avrà); Maurizio Luppino, che vorrebbe avere un futuro (ma non ce l’avrà); Domenico Colella, al quale di avere un futuro sulla bicicletta non frega niente.

[La primavera si avvicina, è ora di mettere a punto la bicicletta. La strada ci attende]

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Blogging Day per Rossella Urru

Il “blogging day” è un giorno in cui un gruppo di blogger decide di parlare di un unico argomento. Allo scopo di sensibilizzare quante più persone possibili e di far parlare anche i media del rapimento di Rossella Urru, nella giornata di oggi i blogger che aderiscono all’iniziativa dedicheranno il proprio post a questo argomento. Per contribuire alla conversazione su Twitter social network usiamo gli hastag #freerossella e #freerossellaurru

L’appello di Donne Viola:

Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre Rossella Urru ed altri due cooperanti spagnoli (Ainhoa Fernandez de Rincon, dell’Associazione amici del popolo saharawi, e Enric Gonyalons, dell’organizzazione spagnola Mundobat) sono stati rapiti da uomini armati, arrivati a bordo di diversi pick-up. Originaria della provincia di Oristano, Rossella Urru, 29 anni, e’ rappresentante della ONG Comitato Italiano Sviluppo dei Popoli (Cisp) e lavora da due anni nel campo profughi Saharawi di Rabuni, nel sud ovest dell’Algeria, coordinando un progetto finanziato dalla Comunità europea.
Rossella si occupava di rifornimenti alimentari, predisponeva la distribuzione con particolare riguardo alle necessità di donne e bambini. Rossella Urru e’ laureata in Cooperazione Internazionale presso la facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna, proprio con una tesi sul popolo Saharawi.
Dalla notte del sequestro non si hanno avuto notizie di Rossella Urru fino al mese di dicembre quando un gruppo dissidente dell’Aqmi (Jamat Tawhid Wal Jihad Fi Garbi Afriqqiya ) ha rivendicato il rapimento.
Grazie a rapporti personali col popolo tuareg da parte del consigliere regionale Claudia Zuncheddu, sappiamo che Rossella è viva e che si trova in un territorio desertico quasi inaccessibile, crocevia di interessi contrastanti fra governi e movimenti, dove ovviamente assume rilevante importanza l’intreccio delle funzione di mediazione di soggetti diversi. I sequestratori mirano ad un riscatto per acquistare armi necessarie alla loro lotta per l’indipendenza. Il governo algerino, che conosce il territorio desertico a palmi, tuttavia non e’ favorevole alla mediazione con riscatto visto che sarebbe il destinatario di una insurrezione armata da parte del fronte del Polisario armato. In aggiunta il governo francese, spinto da mire neocolonialiste, e’ fortemente interessato alla liberazione forzata dei ragazzi sequestrati, mettendo così a rischio la loro incolumità.
Sono passati 117 giorni dal suo sequestro e rivendichiamo la sua liberazione, il silenzio che la circonda e’ assordante.
Lasciamo ai servizi ed alle ambasciate rispettivi ruoli e rispettiamo il desiderio dei familiari di mantenere basso il profilo sulle trattative tuttavia dobbiamo fare in modo che si parli di questo sequestro per spingere le nostre amministrazioni, i nostri governi e quanti piu’ Stati possibile ad intraprendere azioni diplomatiche per la liberazione di Rossella.
Forse i suoi sequestratori fanno paura ai diplomatici.
Forse il sequestro e’ capitato in un momento storico in cui tutte le attenzioni dei governi sono rivolte allo spread, ai bund, alle borse, ai mercati ed alle finanze.
Forse e’ capitato proprio quando in Italia si e’ verificato un cambio traumatico di governo e si affronta una crisi economica gravissima.
Ma non si puo’ perdere altro tempo e tutti noi dobbiamo chiedere a gran voce che le autorità competenti rivolgano la massima attenzione al problema della liberazione di Rossella.
Il nostro appello e’ rivolto alle organizzazioni, alle ambasciate, ai mediatori, ai servizi ed ai governi, centrale e regionale, perchè utilizzino tutti i mezzi e tutte le strategie possibili per riportare Rossella a casa quanto prima.
Il fratello di Rossella dice : “le parole cedono di fronte a tanto assurdo, si sgonfiano e sembrano afone. Eppure, in questa vibrante impotenza in cui ci troviamo, sono quel poco che ci è concesso, un nonnulla che tenta di colmare un abisso e una distanza insospettati; che riescono appena a tenerci in piedi, a farci avanzare”.
Parliamo di Rossella fino a diventare afoni anche noi, parliamo di lei e di questo popolo abbandonato nel mondo che lei ha voluto aiutare nonostante i troppi rischi.

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Passeggiando in bicicletta

In due giorni ha superato le 30.000 visualizzazioni il video lanciato dal sito online di Repubblica che spiega come negli anni Settanta un vasto movimento di opinione pubblica riuscì a cambiare le politiche urbanistiche e dei trasporti dell’Olanda. L’onda emotiva degli “omicidi da traffico” (3.300 vittime nel 1971, tra cui 400 bambini) causati dalla motorizzazione di massa del decennio precedente e la crisi petrolifera del 1973 favorirono le politiche a sostegno dell’uso della bicicletta e proprio grazie all’impulso della società civile furono realizzate le prime piste ciclabili.
Il mini-documentario rientra tra gli strumenti di propaganda dei promotori della campagna di sensibilizzazione per avere città a misura di bici (“Cities fit for cycling”) iniziata una ventina di giorni fa a Londra, dopo l’incidente che ha mandato in coma una giornalista del Times, travolta da un camion mentre pedalava. Dall’Inghilterra, che ha pianto 1.275 ciclisti negli ultimi dieci anni, l’iniziativa si è rapidamente diffusa nel continente e, rilanciata da un gruppo di blogger, ha raccolto in Italia già oltre 20.000 adesioni. Alcuni punti del manifesto del movimento “Salva i ciclisti” – sottoscritto anche da qualche sindaco, tra cui Giuliano Pisapia – sono stati ora incardinati in un disegno di legge (“Interventi per lo sviluppo e la tutela della mobilità ciclistica”) presentato dal senatore del Pd Francesco Ferrante e sottoscritto da altri sessanta parlamentari, appartenenti trasversalmente a tutti gli schieramenti politici, ad esclusione della Lega.
La finalità della legge, fissata nell’articolo 1, è quella di “favorire la cultura del rispetto delle regole della circolazione stradale, dando maggiore tutela a chi utilizza la mobilità ciclistica, nonché ad incentivare e sviluppare l’uso della mobilità ciclistica”. Per raggiungere lo scopo, la legge prevede, tra l’altro, “la destinazione della quota del 2% del budget delle società dei gestori stradali e autostradali per la realizzazione di piste ciclabili” (art. 5), “l’obbligo del limite di 30 km/h di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili” (art. 7), la possibilità, per le aziende private o pubbliche e per le persone fisiche, di sponsorizzare “la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili anche attraverso l’attività di gestione di noleggi biciclette nelle suddette aree” (art. 8). Viene così riconosciuto il valore sociale della mobilità ciclistica, “parte integrante della moderna mobilità quotidiana”, ma anche “soluzione efficace e a impatto zero per gli spostamenti cittadini personali su mezzo privato”, da tutelare con provvedimenti che garantiscano una crescente sicurezza stradale.

[Un recente manifesto affisso a Londra e segnalatomi da Mario]

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Come cambierà il prossimo consiglio comunale

Le prossime elezioni amministrative vedranno abbattersi sugli enti locali la scure del taglio delle poltrone imposto dalla manovra di Ferragosto (DL 13 agosto 2011, n. 138), che si somma alla sforbiciata già impressa dalla legge n. 42 del 26 marzo 2010. In virtù di questi due provvedimenti, nello spazio di una legislatura il consiglio comunale di Sant’Eufemia passerà da sedici a sette membri (più il sindaco). La legge 42/2010 aveva infatti ridotto a dodici il numero dei consiglieri per i comuni con popolazione compresa tra 3.001 e 10.000 abitanti e da sei a quattro (più il sindaco) quello dei componenti della giunta. Il DL 138/2011 prevede una diversa suddivisione delle classi di comuni, introducendo quelli con popolazione compresa tra 3.001 e 5.000 abitanti, per i quali sono previsti, appunto, un consiglio comunale composto da sette membri e una giunta di 3 assessori (più il sindaco).
Personalmente, non apprezzo questi provvedimenti. Il sale della democrazia è la partecipazione: ridurre il consiglio comunale a una riunione condominiale non porterà benefici alle comunità locali. Farà anzi aumentare il distacco e la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica. Le istanze della popolazione hanno bisogno di rappresentanti istituzionali che possano sostenerle. E sette mi sembrano pochi in un paese di quasi 5.000 abitanti: uno ogni 700 circa. Durante la Prima Repubblica, il rapporto era molto più equo: uno ogni 250 (venti consiglieri comunali, compreso il sindaco). Bisognava risparmiare? D’accordo. Ma senza comprimere la democrazia. Poiché 100-150 euro annui non cambiano la posizione economica di nessuno, si poteva benissimo abolire il gettone di presenza e mantenere inalterato il numero dei consiglieri. O riportarlo di nuovo a venti.
La circolare del ministero dell’interno n. 2379 del 16 febbraio 2012 ha chiarito definitivamente i contenuti della manovra di Ferragosto. Le prossime elezioni, oltre al sindaco, eleggeranno cinque consiglieri di maggioranza, quelli che otterranno più preferenze all’interno della lista vincente. Per l’attribuzione dei due seggi di minoranza, potrebbero invece verificarsi diversi scenari. Se gareggeranno soltanto due liste, quella perdente manderà in consiglio il candidato a sindaco e il candidato a consigliere più votato. Se le liste saranno più di due, si procederà con il metodo D’Hondt, dividendo successivamente per 1 e per 2 (essendo due i seggi da assegnare) la cifra elettorale di ogni lista al fine di ottenere una graduatoria decrescente, all’interno della quale verranno scelti i quozienti più alti. In termini pratici, dovrebbero risultare eletti i candidati a sindaco delle liste classificate seconda e terza. A meno che la seconda non raccolga più del doppio dei voti della terza, nel qual caso si aggiudicherà anche l’altro seggio. Si può esprimere una sola preferenza e, trattandosi di elezione diretta del sindaco, il voto dato ad un candidato a consigliere va automaticamente al candidato a sindaco della stessa lista. In altre parole, non è concesso il voto disgiunto.

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Per chi non voterò

Qualche settimana fa mi è stato chiesto: “come mai ancora non hai scritto niente sulle prossime elezioni comunali?”. Il 6 e il 7 maggio saremo infatti chiamati a rinnovare il consiglio comunale e dalle facce dei soliti noti si è capito che siamo già nel pieno delle consultazioni, degli abboccamenti, delle annusate per capire se si può o non si può fare. Cosa? Una lista, ovviamente. Perché, notoriamente, c’è sempre una pletora di auto-candidati a sindaco, ma non tutti hanno fiato e gambe per arrivare fino alla fine del percorso accidentato che porta all’assemblaggio di uno schieramento competitivo. I veti incrociati sono una brutta bestia. E anche la mancanza di senso della misura. Le elezioni passate l’hanno dimostrato a sufficienza: sette-otto aspiranti alla poltrona di primo cittadino, ma alla fine le liste sono state soltanto due. Quest’anno, chissà, potremmo ritrovarci con più alternative. Accanto al capolista, ci sono poi i candidati alla carica di consigliere. Come al supermercato, puoi trovarci di tutto. Perfino candidati “veri”, convinti e consapevoli di quello che fanno. Ma è necessaria un’accurata selezione.
In sintonia con il Poeta (“Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”), ho difficoltà ad esprimere delle preferenze. Pertanto, mi limito a segnalare l’ideale di candidato che NON voterò, sulla scorta di un personalissimo decalogo (integrabile ad libitum), spero utile per districarsi nel caos che i prossimi mesi ci riserveranno.
Non voterò per:

1) Un/a parente, per il solo motivo che è un/a parente, se non ha un minimo di capacità.
2) Un/a candidato/a che da un po’ di tempo mi saluta, mentre prima faceva finta di non vedermi.
3) Un/a candidato/a dal/la quale non comprerei mai un’auto usata.
4) Un/a candidato/a che non si è mai speso per il paese. Se fino ad ora non l’ha fatto da privato/a cittadino/a, è improbabile che cominci a farlo una volta ascesi i gradini del Palazzo municipale.
5) Un/a candidato/a che non è in grado di dire cosa ha intenzione di fare una volta eletto/a e con quali strumenti.
6) Un/a candidato/a che offre posti di lavoro a due mesi dalle elezioni.
7) Un/a candidato/a che non sia capace di operare in sinergia con le associazioni presenti sul territorio.
8) Un/a candidato/a che ripropone il cavallo di battaglia delle ultime due campagne elettorali: la sistemazione del ponte Pendano. Basta. Se ci riuscite, aggiustatelo in silenzio e comunicatecelo soltanto quando sarà transitabile.
9) Un/a candidato/a che prima di adesso non è mai entrato/a nella mia attività commerciale e comincia a passarci con una frequenza sospetta.
10) Un/a candidato/a che mi cerca il voto ogni volta che mi incontra.

E ricordate: “si può ingannare tutti una volta, qualcuno qualche volta, mai tutti per sempre” (John Fitzgerald Kennedy).

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Perché Sanremo “era” Sanremo

Scrivo ora qualche riga sul festival di Sanremo perché penso che la conclusione della manifestazione sia ininfluente ai fini della mia valutazione. D’altronde, su tre serate, avrò visto non più di mezzora di spettacolo, per cui il mio commento è, in realtà, una considerazione sull’evento. Da tempo, nella kermesse canora, la canzone ha smesso di essere protagonista. Tanto da risultare effimeri il successo e la notorietà dati dalla vittoria. Chi è in grado di ricordare nomi e volti di tantissimi tra i vincitori più recenti? Nel giro di un anno, fenomeni musicali lanciati dai talent show e catapultati sul palcoscenico dell’Ariston scompaiono con una regolarità ormai inquietante: Marco Carta, chi era costui?
Sanremo è attesa, gossip, polemica cercata e montata ad arte perché se ne parli. Perché per una settimana non si discuta d’altro. Sanremo è una zona franca, capace di ascolti alti perché la controprogrammazione, in quei giorni, non esiste. Sanremo è l’ipocrisia di chi invita Celentano, alle condizioni imposte dal Molleggiato, e poi innesca la polemica perché nel suo monologo ne ha avute per tutti. Come se non fosse quello il vero motivo della sua presenza. Non ho ascoltato il suo pippone, ma ho letto le reazioni. La migliore è stata la battuta di Rocco Papaleo: “Adriano è stato geniale ad ospitare Sanremo nel suo show”. Il punto è questo: può un ospite monopolizzare l’intera serata e ridurre gli ospiti a contorno del suo personalissimo show? No, non può. Non potrebbe. Ma è un gioco delle parti. Prima, il tormentone “Celentano sì/ Celentano no”, poi la carta bianca chiesta e ottenuta, infine le lacrime da coccodrillo e l’incazzatura dei vertici Rai. Asciugate con i bigliettoni degli introiti pubblicitari. Nel merito, non è il massimo dell’eleganza chiedere la chiusura di due giornali perché non se ne condivide la linea. Basta non comprarli. E anche se c’era molto da sottoscrivere (la parole su don Gallo, per esempio), il teatro Ariston non è il pulpito ideale per simili comizi.
Boccio in toto il turpiloquio dell’intervento iniziale di Luca e Paolo e, nella seconda serata, la volgarità di due comici a me sconosciuti (I soliti idioti), che ho ascoltato giusto un paio di minuti senza riuscire per niente a ridere. Sorvoliamo sulla farfalla di Belen e sulle mutande che c’erano-non c’erano-e se c’erano non si sono viste. Ma si può sacrificare tutto sull’altare degli ascolti e degli incassi? Domanda retorica, alla quale si può rispondere riproponendo la terza serata, dedicata finalmente alla musica, con ospiti di livello mondiale. Su tutti, Brian May e l’immensa Patti Smith. Ma è già tempo di tornare alla normalità distorta di Sanremo. E allora, che spettacolo (penoso) sia.

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