L’autostrada più bestemmiata del mondo

Al tg2 delle 13 è stata data una buona notizia: sulla Salerno – Reggio Calabria sono stati chiusi quattro cantieri e riaperti non ricordo quanti chilometri di autostrada.
Poi dice che uno diventa un bufalo fumante. Ovvio, quando si parla dell’autostrada più bestemmiata del mondo.

Due giorni fa, nei pressi di Scilla, si è staccato il cornicione di una galleria e solo per una fortuita coincidenza non ci è scappato il morto. Autostrada chiusa e traffico deviato nel centro di Scilla, in una lunga notte di passione, per i residenti e per gli automobilisti bloccati in qualche stretto tornante della strada provinciale. Il giorno successivo, concessione – non richiesta – del bis, con Anas e Polizia stradale sempre più nel pallone, incerte se riaprire o no. Perché diventa una responsabilità pesantissima autorizzare il traffico su un tracciato maledetto da Dio e dagli uomini. Il problema vero è che la manutenzione sul vecchio tracciato è quasi inesistente, da quando sono cominciati i lavori per l’ammodernamento del quinto macro-lotto della SA-RC. In alcune gallerie piove, letteralmente a dirotto. Altro che infiltrazioni: non so come si possa autorizzare la viabilità e spero, per i responsabili, che non succeda mai niente. Ma ogni volta che ci passo, mi ripeto: “speriamo che non venga giù tutto”.
Ovviamente, i telegiornali si guardano bene dal dare simili notizie. Non è una novità. E poi, si rischierebbe di mettere paura a chi ha intenzione di mettersi in viaggio e puntare a Sud.

Nel frattempo, a Sant’Eufemia d’Aspromonte abbiamo perso lo svincolo autostradale. Tagliati fuori dalle grandi (si fa per dire) reti di comunicazione, siano esse stradali o ferroviarie, con ricadute intuibili sulla nostra già asfittica economia. Per collegarsi al nuovo tracciato, occorrerà fare i salti mortali, con dispendio di tempo, soldi e bile. L’assessore regionale ai trasporti, Luigi Fedele, eufemiese, per il momento tace. L’ex sindaco Saccà preannuncia battaglia. Come l’attuale, Creazzo.
La mia opinione è che ci sia poco da fare, perché è tutto deciso. E non da ora, nonostante certe periodiche e rassicuranti dichiarazioni. A ogni modo, mi permetto un piccolo suggerimento a tre politici che rappresentano – credo – la quasi totalità della cittadinanza eufemiese. Mettete da parte ogni tentazione personalistica. Sulla vicenda dello svincolo, ci sono già state troppe strumentalizzazioni. Soprattutto, bando alle chiacchiere, ai tavoli e agli incontri più o meno chiarificatori con Anas, prefetto, istituzioni politiche. L’unica strada da percorrere, per diventare “visibili”, è creare il massimo disagio a quanto più persone possibili. Si blocchi l’autostrada, sine die, fino a quando non ci sarà la certezza che lo svincolo si farà o fino a quando non ci arresteranno tutti. Solo su questa base vi seguiremo. Siete pronti a prendervi qualche denuncia? Altrimenti, lasciate perdere, sarebbe tempo sottratto a qualche bella giornata di mare. Si creeranno disagi a gente che non ha colpe? Perché, noi che colpa abbiamo ad avere questa autostrada e a passarvi sopra ore di inferno, da quasi dieci anni?

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Un autunno caldo

Altro che “autunno caldo”, si prospetta un autunno da bollino nero. Gli indizi sembrano convergere tutti in quella direzione. E non ci sarà neanche bisogno di qualche afoso anticiclone nordafricano per fare salire la temperatura e rendere il clima bollente.

Le prima avvisaglie le vediamo da tempo, preoccupati, arrabbiati e allo stesso tempo sfiduciati. Nonostante i sacrifici imposti dalla cura da cavallo somministrataci dal governo Monti, fatichiamo. L’asticella della ripresa viene spostata sempre più in avanti. Al momento, ci siamo già bruciati il 2013. Un po’ come per la fine dei lavori della Salerno-Reggio Calabria, che ogni anno viene allungata di due. Anche se ora, pare, dovrebbe mancare davvero poco.

Ma torniamo alle calde giornate che ci attendono al ritorno dalle ferie, per chi le farà. I dati di Federalberghi, per dire, non sono affatto incoraggianti. Rispetto a giugno 2011, –8,2% di clientela straniera e –7,1% di turisti italiani. Settembre sarà il mese del salasso della seconda rata Imu: secondo Confedilizia, rincari fino all’80% per chi affitta. Conseguenza prevedibile della decisione adottata da molti sindaci: aliquote al minimo per la prima casa (giustissimo), obtorto collo al massimo per la seconda. Con una pressione fiscale reale record (55%), dato spaventoso che va ad aggiungersi a quello sul maggiore aumento di tasse tra i Paesi dell’Unione europea negli ultimi dodici anni (+3,4%), Confcommercio avverte che c’è poco da stare allegri. Il mercato del lavoro è al collasso, con più di trenta aziende al giorno costrette a chiudere, lo scorso anno. A giugno, l’Istat ha segnalato il 10,8% di disoccupati (+0,3% rispetto a maggio, +2,7% su base annua), con una percentuale giovanile da incubo (34,3%). Se non si lavora, non si consuma. Hai voglia a esporre i cartelli dei saldi. Infatti, sono quasi passati inosservati, se il Codacons ha lanciato l’allarme di un calo del 20% (30% al Sud) nelle prime due settimane di sconti. D’altronde, i soldi se ne vanno in bollette per la luce e per il gas. Ogni paio di mesi, arriva la stangata, quantificata dalla Cgia di Mestre in un aumento complessivo del 48,3% negli ultimi dieci anni.

Il timore è che i sacrifici ai quali gli italiani sono quotidianamente chiamati, possano alla fine rivelarsi insufficienti. Ma c’è di più. C’è la sensazione che i sacrifici non siano proporzionati, che il grosso stia ricadendo sulle spalle della gente comune e che, alla “casta”, il governo abbia soltanto fatto il solletico. A ciò va aggiunto che, nel pieno di una crisi drammatica: a) da tre mesi la politica non riesce ad accordarsi su una legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliersi i propri rappresentanti; b) lo scarto tra rappresentanti e rappresentati è ormai al massimo storico; c) i partiti perdono ogni giorno consenso e credibilità; d) il nepotismo impera e la meritocrazia latita. Non serve una Cassandra per capire che, da qui a un paio di mesi, l’Italia si dividerà tra incendiari e pompieri.

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Millenovecentotrentaseivirgolaottanta

Ora sappiamo quanto vale la vita di un precario. Neanche duemila euro. Per la precisione, 1936,80. È il risarcimento assegnato dall’Inail alla madre di Matteo Armellini, l’operaio trentunenne morto a Reggio Calabria, lo scorso 5 marzo, schiacciato dal palco in allestimento per il concerto di Laura Pausini.
A determinare l’ammontare della vergognosa cifra, la bassa retribuzione di Matteo, lavoratore privo di alcuna tutela (men che meno della copertura assicurativa), senza precisi orari di lavoro (a volte, turni di sedici ore) e senza uno stipendio regolare. Destino comune a tanti giovani, laureati (in storia, Matteo) e non, costretti ad accettare condizioni da schiavi pur di sbarcare il lunario. O ti mangi questa minestra…
Sarebbe da sporchi comunisti pretendere che vite del genere valgano quanto quella di alti dirigenti e politici, che percepiscono stipendi di centinaia di migliaia di euro e per i quali (o almeno per i loro familiari) anche la morte diventa un affare, ma qua siamo di fronte all’insulto, all’inaccettabile offesa della dignità umana. Dignità che si stupra anche definendo l’obolo elargito “risarcimento per infortunio e malattia professionale”, mentre – sostiene la madre, che ha sporto denuncia e pretende giustizia – “Matteo non aveva ancora cominciato a lavorare”.
Mi rifiuto, mi rifiuterò sempre di accettare che il valore delle persone lo stabiliscano il mercato e gli stipendi loro assegnati o che esistano persone più uguali di altre: l’esiguità della somma liquidata dipende, infatti, anche dalla circostanza che Matteo non aveva moglie, né figli.

Piero Sansonetti, dalle colonne di “Calabria Ora”, ha lanciato una proposta, chiedendo a Laura Pausini, attualmente impegnata nella preparazione di un concerto con Pino Daniele, di sospendere tutto “finché l’Inail non chiederà scusa e non moltiplicherà per mille il risarcimento a Matteo”.

Io credo che la cantante romagnola possa fare di più e più in fretta. Conosciamo i tempi biblici della giustizia italiana e conosciamo anche le doti umane di un’artista spesso promotrice di importanti iniziative di solidarietà. Sarebbe bello se, autonomamente, Laura Pausini decidesse di tenere un concerto in memoria di Matteo per devolvere alla madre l’incasso dello spettacolo.

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Quantomar per l’Argentina

Pare sia stato lui a pronunciare il celebre “permettete” o, secondo un’altra versione, “permettete che vado”, con il quale, una sera, si congedò in piazza dal consueto gruppo di amici. Niente lasciava presagire che quella sarebbe stata la sua ultima notte in paese, prima della partenza per l’Argentina.

Come una fuga. “Dietro ogni soldato c’è una donna”. Forse, anche dietro qualche emigrante. Non che Ciccio non avesse, di suo, validi motivi per andare via. Ma chissà, il rifiuto di Peppina potrebbe averlo convinto a legare stretti i suoi ventisette anni dentro la valigia di cartone, per rinascere undicimila chilometri a sud, un mese più tardi.

Unico maschio, dopo tre bimbe, Ciccio era carbonaio, come Carmine, suo padre, e come Mico, suo cognato. Insieme a loro, alla fine della seconda guerra mondiale, si era trasferito a Morlupo, a spaccarsi la schiena nei lavori di bonifica dell’Agro romano. Ma per partorire, la moglie di Mico decise che ci voleva la “mammina” del paese, chiudendo così, d’imperio, la parentesi romana. Ciccio tornò alla carica con Peppina, che lo respinse nuovamente. Un altro buon motivo per mettere l’Oceano tra sé e la propria terra. Partì insieme al padre, con l’idea di fare qualche soldo e poi chiamare il resto della famiglia. Non fu però dello stesso avviso la commissione che doveva valutare lo stato di salute degli emigranti e che decretò l’inabilità di Rosa, sua mamma, ormai quasi cieca per il tracoma.

Tempo e distanza possono essere alleati o nemici, fortificano o cancellano i sentimenti. In Argentina, padre e figlio iniziarono una nuova vita. Altrimenti non si spiega come neanche Carmine abbia sentito il bisogno di tornare a casa. E sì che, al tempo, aveva dovuto lottare come un leone per avere Rosa. A ripensarci, ancora sentiva il dolore alla testa e la puzza di piscio dovuti alla mira da cecchino della futura suocera, una sera che aveva insistito troppo con la serenata sotto la finestra e si era visto arrivare addosso un vaso da notte di ferro, ricolmo.

Quando ormai Ciccio si era dimenticato di Peppina, arrivò la repentina zampata del destino, che fece incontrare la ragazza con Rosa nel forno dove le famiglie, mensilmente, portavano il grano per fare il pane. Rosa aveva ancora in tasca una lettera e una foto del figlio, ormai un uomo di trent’anni. “È proprio bello. Si è sposato? Ora me lo prenderei”, le parole di Peppina, riportate da un’amica in confidenza con penna e calamaio sul foglio di quaderno che di lì a poco avrebbe solcato le onde del mare. Ciccio sembrava non aspettasse altro. Nel giro di un paio di mesi fu celebrato il matrimonio per procura, quindi Peppina si imbarcò sulla nave che l’avrebbe portata dal marito.

Una storia a lieto fine, senza lieto fine e con due finali discordanti. Il primo: arrivata in Argentina, Peppina sorprese il marito con una donna, per cui rifece immediatamente un altro mese di viaggio, percorso inverso. Il secondo: Ciccio viveva in una stamberga, una situazione di degrado non accettata da Peppina, che mostrò immediatamente segni di squilibrio, si rifiutò di consumare il matrimonio e fu rispedita dalla madre.

Pazzia o vergogna, una volta rientrata in paese Peppina non uscì di casa per il resto dei suoi giorni, limitandosi a fare capolino da dietro una finestra, pronta a ritrarsi non appena incrociava lo sguardo di qualcuno. Ciccio seppellì il padre in Argentina e continuò a dare sporadiche notizie fino a quando sua madre fu in vita. Dopo, di lui, non si seppe più nulla.

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A volte ritornano

Pare che non si sia trattato di un colpo di sole, Berlusconi ha davvero intenzione di ricandidarsi. Tutto il mondo imprenditoriale – a suo dire – ne chiede a gran voce il ritorno. La classica situazione che richiede un “sacrificio” al quale non può sottrarsi chi ha a cuore le sorti del Paese. E pazienza se quel manettaro di Di Pietro, al solito, la butta in caciara: “si è messo a fare politica per motivi giudiziari” e continua perché, evidentemente, “deve ancora sistemare qualche processo”.

Non la prenderanno bene i riformatori pidiellini che, negli ultimi tempi, avevano guadagnato visibilità e iniziativa, sconfinando nella blasfemia (per il partito più “personale” del panorama politico nazionale) della proposta di primarie per la scelta del candidato a premier. Ovvio che, con Berlusconi, le primarie diventano un orpello inutile. Ma lo scalpitante fronte formattatore se ne farà una ragione. Come Angelino Alfano, il segretario di partito meno influente della storia politica italiana, costretto a correre immediatamente ai ripari per risintonizzarsi sulla nuova lunghezza d’onda: “tanti chiedono al presidente Berlusconi di ricandidarsi. Io sono in testa a questi. Se deciderà di farlo, sarò e saremo al suo fianco”. Parole non si sa quanto sincere. A naso, non tanto. L’investitura sovrana che l’ha collocato al vertice del partito non consentiva margini di manovra, ma la svolta, per come è avvenuta, rappresenta una evidente deminutio capitis. Il messaggio è chiaro: le carte le distribuisce l’uomo di Arcore, che “è” il partito. Gli altri sono semplici comparse, utilizzate dal consumato regista ora per questa scena, ora per quella. Rinviata sine die, pertanto, l’ipotesi di ritagliare per Berlusconi il ruolo di “padre nobile” del partito che sarà, una sorta di allenatore e dispensatore di consigli per le nuove leve politiche.

Determinanti alcuni sondaggi (Euromedia Research) che danno il Pdl moribondo “con Alfano leader e Berlusconi fuori dalla politica” (8-12%); quasi in coma “con Alfano candidato premier e Berlusconi padre nobile e presidente del partito” (17-21%); pimpante in caso di “ticket Berlusconi-Alfano, in campo con un progetto che richiami le origini di Forza Italia e una squadra di giovani dirigenti, in un partito completamente rinnovato nelle persone” (intorno al 30%). È noto che i “suoi” sondaggi sono bussola e vangelo, anche quando non convincono i metodi di rilevamento. D’altronde, quello del “ritorno alle origini” è un fiume carsico che periodicamente riaffiora, sponsorizzato dall’ala forzista e guardato con diffidenza dagli ex aennini. Per gli avversari del Cavaliere, invece, l’annuncio è manna caduta dal cielo. “Prego che non cambi idea”, si lascia sfuggire Beppe Fioroni, presagendo una facile vittoria nella prossima primavera. Un regalo che spinge Casini nelle braccia di Bersani e che provoca anche l’irrigidimento del Carroccio (Maroni: “scende in campo? E dove? A San Siro?”).

Non è complicato comprendere le ragioni del cambio di strategia. Senza il suo vero e unico leader, il Pdl è a rischio estinzione, dilaniato dalle correnti che si sono scatenate non appena l’ex premier ha fatto un passo indietro. Certo, dopo quasi venti anni di assidua frequentazione delle stanze del potere, Berlusconi non può più proporsi come l’imprenditore che promette di replicare al governo del Paese i successi ottenuti da privato cittadino, sbaragliando una volta per tutte politici di professione e teatrino della politica. Ma in questa fase prevalgono le ragioni del “primum vivere”. Anche perché il futuro è ancora emergenza economica da affrontare con l’attuale formula di governo grancoalizionista, Monti o non Monti. Per giocare ancora un ruolo, Berlusconi ha bisogno di tenere salde le redini del partito e sperare in un buon risultato elettorale, per poi sedersi al tavolo delle trattative (giustizia, Quirinale) da una posizione di forza.

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Mangiafuoco

E due. Dopo Giovanni Fedele, candidato a sindaco per la lista Colomba, si è dimesso anche Salvatore Coletta, primo dei non eletti, che era subentrato qualche settimana fa. Un consiglio comunale a testa e poi basta. Esperienza finita. In barba alla volontà e alla fiducia degli elettori che certo non avevano vincolato il voto al successo della lista. Verrebbe da dire “troppo comodo” fare il consigliere di maggioranza e abbandonare la nave quando si perdono le elezioni. Ma così va il mondo. Male. Non ci sorprende. Semmai, conferma riflessioni già espresse sulla marginalità della “politica” in alcune candidature.

Per questo, non ci persuade la giustificazione ufficiale fornita da Fedele: “mi dimetto per rispetto degli elettori che non mi hanno votato”. Saranno dello stesso avviso i 1.156 elettori che certamente avevano votato l’uomo e il politico, prima che la carica?
Ora che la scure governativa ha ridotto al minimo la rappresentanza politica degli enti locali, sarebbe utile e auspicabile la presenza di personalità competenti in seno al consiglio comunale. Fedele, già sindaco per un quinquennio e ora dirigente alla Regione Calabria, sarebbe stato una garanzia per tutti e avrebbe saputo svolgere al meglio la delicata funzione di controllo dell’attività di governo dell’attuale maggioranza. Probabilmente, questa considerazione non è stata fatta o non ha avuto alcun peso. Peccato.

Coletta non ha invece avuto niente da dire, almeno pubblicamente. Ma i 167 eufemiesi che avevano scritto, fiduciosi, il suo nome sulla scheda avrebbero diritto a qualche spiegazione. Altrimenti, davvero va a finire che è tutta colpa di Mangiafuoco, quello che muove i fili e decide per tutti.

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Pensieri in libertà sotto il solleone

Dal mio poco privilegiato osservatorio, l’estate 2012 stenta parecchio. E chissà se mai decollerà. Però è stato catturato il bosone di Higgs, la “particella di Dio”, una scoperta che ha fatto perdere a Stephen Hawking (non a Pinco Pallino) una scommessa da 100 dollari e che ci ha fatto sognare per due-tre minuti, il tempo necessario prima che la vita dei comuni mortali riprendesse il sopravvento per sentenziare che, di fronte alle molteplici complicazioni quotidiane, non c’è bosone che tenga.

Il sentimento prevalente è la rassegnazione. Rassegnati al governo Monti. Certo, otto mesi fa è stata un’esultanza collettiva, come se l’Italia fosse finalmente riuscita a liberarsi del tappo (senza ironia) che ne impediva il rilancio. Non se ne poteva più di barzellette, escort, regali a “loro” insaputa, ville di qua e lingotti di là. Al momento, non ci sono alternative alla bicicletta. Pedalare, almeno fino al 2013.

Altro sentimento a buon mercato è la sfiducia. Comprensibile. Con ammiragli incapaci di accorgersi del rischio-collisione (e, dopo, hai voglia a gridare “salga a bordo, cazzo!”), non è affatto sorprendente che un comico (aridaje) rischi davvero di fare saltare il banco. Insomma, o Monti e i suoi sodali o il caos. I “poteri forti” non hanno avuto dubbi nella scelta, mentre al popolo – come sempre – non resta che grattarsi. Pazienza se hanno fatto il deserto, edulcorando l’operazione con la trendissima spending review. La fregatura c’è, tanto da suggerire di mettere mano alla fondina ogni volta che viene utilizzato un termine inglese per indicare un provvedimento governativo.
La locuzione “u cani muzzica ’nto sciancatu” non è tipicamente oxfordiana, ma rende l’idea. Vedere cosa capiterà all’istruzione per credere: colpi di machete contro università e scuola, a beneficio (casualità) degli istituti privati, nel solco già tracciato quando ancora il governo dei banchieri e dei professori di università private era di là da venire. La disoccupazione record, l’assalto ai diritti dei lavoratori e l’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro, le pensioni che non ci saranno (alla faccia dei diritti acquisiti, validi soltanto per la casta), la razionalizzazione-soppressione di ospedali e tribunali. Anche qui, spending review. Non resta che consolarsi con la telenovela Rai. Da anni si auspica l’estromissione della politica dagli uffici di viale Mazzini, salvo poi dovere puntualmente constatare come neanche una pianta possa essere trasferita di stanza, senza il preventivo ricorso a incistate logiche spartitorie.

Sul fronte delle riforme, si naviga a vista. Nonostante sia tutto un “il Paese ne ha urgente bisogno” e – in caso di fallimento – “i cittadini non capirebbero”. Rimborsi elettorali, assemblea costituente, restyling dell’architettura istituzionale dello Stato. Un chiacchiericcio inconcludente, che raggiunge l’apice con il dibattito sulla legge elettorale, invocata a ogni piè sospinto e bloccata, più che dai veti incrociati, dal sostanziale favore delle forze politiche per l’attuale sistema. Tanto da fare venire il dubbio che, alla fine, la montagna partorirà il solito topolino. O un “porcellinum”.

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Caldo africano e ospedali reggini

Ogni volta che rischio di liquefarmi, inscatolato e intrappolato sul “corpo del reato” più lungo del mondo (l’autostrada Salerno – Reggio Calabria), ripenso alla saggezza del Barone: “uno dei più grandi errori della tua vita”. Il termine utilizzato – a dire il vero – è un altro, irripetibile. Ad ogni modo, sì: l’acquisto, dieci anni or sono, di un’auto priva di climatizzatore (e a tre porte, pesante aggravante ai fini del negativo giudizio finale), va annoverato tra le mie topiche più clamorose.
Con Scipione ci siamo soltanto intravisti, Caronte invece mi è saltato addosso proprio mentre procedevo a passo di lumaca sull’asfalto infuocato. Lucifero, più in là, dovrebbe dare il colpo di grazia ai sopravvissuti delle prime due ondate di calore di questa estate 2012. Ci saranno tempi e modi. Intanto, un dato è certo: menzione speciale per l’ideatore dei nomi da attribuire all’anticiclone africano. Veramente rassicuranti. D’altronde, siamo abituati. In Italia, si è sempre di fronte ad emergenze catastrofiche, prossimi alla rovina. Ora è il momento dell’ “emergenza caldo”, che ha scalzato la precedente “emergenza freddo”. Passiamo dalle raccomandazioni allarmate su come fronteggiare il “generale inverno” (strano: in inverno fa freddo) alla litania sulle impennate della colonnina del mercurio (strano: in estate fa caldo).

Pensavo a questo, mentre imprecavo contro il nostro sistema sanitario, non comprendendo la ratio della sua farraginosa, inconcludente e irritante burocrazia. Un mese fa, un mio amico ha avuto un ricovero, dopo di che è stato dimesso con la prescrizione di una successiva visita di controllo. In un paese normale, un cittadino pensa che, essendogli stato detto di tornare giorno X, non serve prenotazione. Invece, non vanno così le cose e nessuno si premura di farlo presente all’ignaro utente.
Non solo. Nell’anno di grazia 2012, la prenotazione va fatta “esclusivamente” utilizzando l’apposito numero verde. Non esiste altro sistema, men che meno farlo direttamente in ospedale. Ora, intuisco che possano sussistere ragioni di natura organizzativa, ma snellire qualche procedura, informatizzando qualche passaggio, è chiedere troppo?
Il numero verde è il catalizzatore naturale di malanove per eccellenza. Componi il numero, ascolti per ore la musichina della segreteria telefonica, saggi il tuo livello di sopportazione, quindi esplodi, imprechi e spacchi la cornetta dell’apparecchio. Dopo interminabili tentativi, se non ti sei già trasformato nel Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia, hai discrete possibilità di portare a casa il risultato.
Ricapitolando, per un’estate serena, occorre almeno una delle tre seguenti condizioni: a) una salute di ferro; b) un’auto climatizzata; c) temperature primaverili.

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Boni cunti

Peppuzzo conosceva molte storie di povertà e non perdeva occasione di narrarle a noi ragazzi che trascorrevamo con lui qualche ora del pomeriggio sulle panchine della vecchia piazza Matteotti, attenti ai dettagli dei suoi affascinanti e incredibili racconti. La sua infanzia era stata segnata dalla guerra. “Entravano da là” – ci diceva, indicando un punto all’orizzonte, tra la cresta della montagna e il cielo. Immaginavamo tutto il paese, sguardo in alto e gambe svelte, dirigersi nei rifugi per scampare ai bombardamenti degli Alleati che braccavano l’esercito tedesco e lo costringevano a risalire la Penisola, nella primavera-estate del 1943. Famiglie intere riparavano nella galleria del ponte sulla ferrovia o in caverne naturali lungo la strada che porta sull’Aspromonte. Ci passavano davanti l’ansia e la paura vissute dai nostri nonni, ma anche la festosità di un parto avvenuto proprio dentro la galleria, tra lo stupore e la gioia generale.

La guerra è dura, sempre e ovunque, ma il dopoguerra, spesso, è ancora peggio. Fame, sporcizia, pidocchi, abbrutimento. Miseria, fascismo e guerra combaciavano nei racconti di Peppuzzo, che biasimava in eguale misura chi in quegli anni si era arricchito e chi, a distanza di decenni, esprimeva ancora simpatia per il duce e per i ducetti in sedicesimo locali. Gira e rigira, il discorso tornava sempre alla pancia. Apprendevamo di gente che si nutriva di bucce di patate, ortiche, cardi e “coschi i vecchia”; che non aveva mai conosciuto il sapore della carne; che camminava scalza, lacera e sporca. “Addunca” (dunque), il suo inconfondibile incipit; “boni cunti” (in definitiva, in fin dei conti), l’introduzione alla “morale della favola”, il suo personale commento finale. “Questi eravamo” – sembrava ammonirci, affinché lo tenessimo bene in mente, noi che avevamo avuto la fortuna di nascere in tempi più felici. Piccole storie della storia grande, a volte anche aneddoti simpatici, a dispetto della drammaticità del contesto. Il nostro – e credo anche il suo – preferito aveva come protagonista un poveraccio che, approfittando della precoce oscurità delle serate invernali, si era intrufolato in una baracca per cercare qualcosa da mangiare, ma era stato colto in flagrante – mentre rovistava nei cassetti della credenza – dal padrone di casa, un altro poveraccio che però, evidentemente, possedeva uno spiccato senso dell’ironia, tanto da porre il memorabile quesito: “ma se non trovo niente io di giorno, cosa vuoi trovare tu, con questo buio?”.

Altro argomento di conversazione era il calcio. Tifosissimo del Napoli (in quanto squadra del Sud) e della Reggina, storpiava tutti i nomi dei calciatori, da “Natalistefano” (Notaristefano) a “Diloiggi” (Dionigi), a “Bonaccioli” (Bonazzoli) e nutriva un odio viscerale per quella squadra di “scecchi zoppi” della Juventus (“a cani”: la cagna), sentimento che, per ovvi motivi, lo rendeva ai miei occhi ancora più amabile.

Si dilettava inoltre a lavorare il legno, un hobby che praticava nel suo piccolo regno, un laboratorio ricavato in un garage, all’interno del quale realizzava bastoni, “stante” (pali con diversi rami sui quali i pastori appendevano gli attrezzi), “juvi” (gioghi) per i buoi, collari per i “campani” (grossi campanelli per il bestiame). Il pezzo forte della sua collezione di oggetti era però l’enorme “pipa di Pertini”, ricavata dalla lavorazione di una “crozza”, a ricordo della vittoria azzurra al mondiale di calcio del 1982.

A Peppuzzo devo il segreto di un “posto” di funghi che aveva rivelato a mio fratello Mario ragazzino e che successivamente mi è stato trasmesso. Ogni anno torno in quel bosco di castagni, anche soltanto per il gusto di passeggiare e riandare così, con la mente, a quelle storie e all’immagine del sorriso di Peppuzzo quando si fa dare un bacio sulla guancia dal nipotino, dopo avergli messo in mano un euro.

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Un commissario è per sempre

La dichiarazione del commissario regionale del Pd, Alfredo D’Attorre, sulle ragioni del rinvio del congresso regionale che avrebbe dovuto eleggere, dopo due anni di commissariamento, il segretario dei democrats calabresi, è un capolavoro di politichese, paragonabile ai fumosi e verbosi documenti dei partiti della Prima Repubblica: “avremo anche il tempo di recuperare vaste aree di opinione che si sono allontanate a seguito della lotta fratricida verificatasi nel 2009 e che oggi tornano a guardarci con interesse”. Auguri.

Se non ho inteso male, il congresso non si terrà per evitare una conta. Per non correre il rischio, cioè, di dimostrarsi sul serio un partito “democratico” che valuta le diverse proposte politiche e poi sceglie a maggioranza una linea politica. Per non apparire troppo litigiosi, le decisioni vanno prese all’unanimità, o quasi. Al limite, si è disposti ad accettare un’opposizione interna quasi “concordata”, utile soltanto per fugare scenari “bulgari”. Di più non si è disposti a concedere. Con le elezioni politiche dietro l’angolo, esibire l’immagine di un partito diviso sarebbe esiziale. Per le pulizie di primavera c’è sempre tempo. Ora è preferibile nascondere la polvere sotto il tappeto e accantonare la ramazza.

Come sovente accade, si è deciso di non decidere. Rinvio sine die. Che equivale, minimo, a un arrivederci a dopo le politiche del 2013. D’altronde, il nodo è proprio la scelta dei candidati, sia che venga modificata la “porcata” di Calderoli, sia che sciaguratamente si vada alle urne con l’attuale sistema elettorale. Per cui, onde scongiurare notti di lunghi coltelli in salsa calabra, fiducia a D’Attorre, al quale toccherà gestire, di concerto con Roma, le selezioni.

Dei cinque candidati alla segreteria regionale (Nicodemo Oliverio, Mario Maiolo, Demetrio Battaglia, Doris Lo Moro e Mario Muzzì), i primi tre hanno accolto con disappunto i motivi del rinvio. Comprensibile. Perché, in definitiva, i congressi che si tengono a fare, se non per decidere tra il ventaglio delle scelte sul tavolo? Ha ragione Maiolo: ritirare le candidature, “in nome dell’unità del partito”, sarebbe umiliante per chi si è speso a sostegno di esse. L’unità del partito sbandierata come valore assoluto rimanda, pavlovianamente, a performances indimenticabili anche a distanza di anni. Esempi luminosi delle mortificazioni patite da chi, pure, ci aveva creduto. Dall’avallo alla vergogna del “concorsone” per portaborse e parenti, al quale gli allora Ds prestarono faccia, voti e nominativi da sistemare nelle strutture della Regione, allo splendido esempio di trasparenza apprezzato ai congressi dei circoli del 2009 che produssero lo “strano” risultato di una partecipazione non confermata alle successive elezioni. Com’è noto, in molti comuni il Pd non ottenne neanche la metà di quei consensi e si sprecarono i titoli sul numero di elettori inferiore a quello degli iscritti al partito. E ancora, le primarie regionali del 2010, quelle dell’accordo di Caposuvero che diede il via libera alla ricandidatura di Loiero – in cambio della deroga per i consiglieri regionali che, da statuto, non erano ricandidabili, avendo superato due mandati – e all’inserimento in lista dell’allora segretario regionale, Carlo Guccione. Quello stesso Guccione, già beneficiario del “concorsone”, che ora s’indigna per “questo ennesimo tentativo di colonizzazione” e ringhia: “la nostra regione non può essere utilizzata per consumare tentativi di baratto finalizzati alle prossime candidature del 2013 alla Camera e al Senato”.

La questione del recupero di una credibilità che è ai minimi storici è troppo delicata e complessa per pensare di poterla lasciare in mano alla classe politica responsabile dell’attuale disastro. L’amara verità è che il Pd, in Calabria, è un ectoplasma, ripiegato su se stesso e fiaccato dalle faide interne. Non riuscire a dare segni di vita nel momento di maggiore difficoltà dello scopellitismo costituisce, politicamente, un dramma. Sperare in qualche buccia di banana giudiziaria non è politica. Soprattutto se si finisce con l’incappare nel consueto vizio della doppia morale, quella che provoca dichiarazioni a raffica sugli avvisi di garanzia agli avversari politici e silenzi assordanti sulla storiaccia del concorso vinto da Valeria Falcomatà all’azienda ospedaliera “Bianchi – Melacrino – Morelli”. Politica, invece, è riuscire a proporsi come alternativa valida e credibile. Un miraggio, allo stato attuale.

Ha ragione da vendere Fernanda Gigliotti, da sempre voce critica nel Pd calabrese, che si chiede se non sia il caso di abbandonare “il Pd che non c’è”, una “casa” che, “malgrado il nome, di fatto dimostra di non volerci e di non appartenerci, e forse non ci è mai appartenuta, né mai ci apparterrà”.
A dieci anni di distanza, ritornano alla mente – impietosamente e impetuosamente – le parole pronunciate da Nanni Moretti a piazza Navona (“con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”) e ci si domanda se fossero profezia o maledizione.

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