Grillo e il Titanic Italia

Alla fine la riforma elettorale non si farà. Nella migliore delle ipotesi, la montagna partorirà il solito topolino. Le posizioni da conciliare sono sostanzialmente due. Quella di Berlusconi convertitosi al proporzionale puro, che prevede l’abolizione del premio di maggioranza del “Porcellum” e il mantenimento delle liste bloccate; quella di Bersani, che invece il premio di maggioranza vorrebbe salvarlo.
Storicamente, le mediazioni migliori (o peggiori, a seconda dei punti di vista) sono quelle democristiane. Un copyright eterno, tramandato dalla Dc a tutte le cellule di Balena bianca ancora presenti nel corpo della politica italiana. Pare che l’Udc stia per farsi avanti con l’uovo di Colombo, un premio di maggioranza da assegnare alla coalizione che superi il 40%. Un modo per perpetuare l’attuale situazione di sostanziale frammentazione, l’ideale per un Monti bis o chi per lui. In ogni caso, di preferenze non parla più nessuno.

Ciò significa anche che la proposta depositata in Parlamento dal Pd passa direttamente nel cassonetto della differenziata (carta): 70% dei seggi assegnati sulla base di collegi uninominali a doppio turno e 28% con metodo proporzionale su base regionale o pluriprovinciale, più un 2% (corrispondente a 12 seggi) riservato al cosiddetto “diritto di tribuna”. In quello dell’umido, le speranze di chi aveva creduto che i politici avrebbero finalmente avuto un sussulto di dignità e avrebbero restituito al popolo il diritto a scegliersi propri rappresentanti. Invece, non sono stati capaci di licenziare uno straccio di riforma elettorale, nonostante non si sia quasi parlato d’altro per l’intera legislatura.

La paura presa dopo le elezioni in Sicilia aumenterà l’istinto di autoconservazione di una classe politica inadeguata e inetta, che impegnerà le proprie energie per scovare l’espediente capace di sbarrare la strada a Beppe Grillo. Con percentuali di astensione record (Sicilia docet), il Movimento Cinque Stelle ha buone probabilità di fare saltare il banco.

Diffido dei populisti. Non voterei mai un politico che attraversa lo stretto di Messina a nuoto perché mi ricorda quello che lotta con le tigri o l’altro che traccia, alla guida del trattore, il solco che poi la spada dovrà difendere. Oltretutto, un comico a Palazzo Chigi l’abbiamo già avuto e, alla fine, raccontava sempre le stesse barzellette. Ma lor signori farebbero bene a porsi qualche domanda e a considerare che la demonizzazione rischia di essere il migliore alleato di Grillo. Perché chi demonizza non ha alcuna credibilità. Perché potrebbe sì trattarsi di un salto nel buio, ma in tanti pensano che la priorità sia saltare fuori dalla melma della Seconda Repubblica e poi quel che sarà, sarà. Il Titanic affonda, l’orchestra continua a suonare lo stesso spartito e sul ponte è il consueto spettacolo di ladri, privilegiati, nani e ballerine. Grillo ce lo meritiamo.

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Il giornalismo copia-incolla

Sostengo da tempo che tutti i giornali locali dovrebbero fare uno sforzo economico per assumere in redazione un giornalista che si occupi esclusivamente della supervisione dei contributi di giornalisti e collaboratori vari. Figura professionale che tra l’altro esiste e la cui importanza nell’economia di un giornale non va assolutamente sminuita. Sono innumerevoli i casi di giornalisti famosi che hanno iniziato come correttori di bozze. Partendo dal gradino più basso, Eugenio Balzan arrivò addirittura alla direzione amministrativa e alla comproprietà del “Corriere della Sera”, negli anni in cui il giornale di via Solferino era diretto da Luigi Albertini.

Ciò eviterebbe lo spettacolo che si presenta agli occhi dei lettori con la pubblicazione di strafalcioni ortografici e sintattici raccapriccianti e, francamente, inammissibili. Se poi il correttore di bozze fosse anche un discreto lettore di libri (dotato di un minimo di cultura generale) e un fruitore attento alle dinamiche e alle modalità della comunicazione sul web, il giornale farebbe bingo.

Quanto meno non incapperebbe nella figuraccia occorsa a Calabria Ora. Il giornale diretto da Piero Sansonetti, nell’edizione di oggi, ha infatti dedicato uno speciale di tre pagine (I Quaderni di Calabria Ora) ai novant’anni della “marcia su Roma”. A pagina 14, Quel che resta a 90 anni da quella marcia, articolo di Giuseppe Cantarano. A pagina 15, due interviste: la prima, di Marco Cribari, al presidente de “La Destra” Francesco Storace (“Negarla? È antistorico”); la seconda, di Camillo Giuliani, allo storico Giovanni De Luna (Fu vera rivolta solo nel ’25). Il capolavoro (si fa per dire) è però a pagina 16, interamente riservata alla ricostruzione della “marcia” (La capitale sotto tiro). Insospettito dalla mancanza della firma dell’autore in calce all’articolo, ho voluto prendermi la briga di fare una veloce verifica. Come sospettavo, l’articolo è tagliato/ copiato/ incollato dalla voce “marcia su Roma” presente su Wikipedia, “l’enciclopedia libera e collaborativa”, redatta sostanzialmente dagli internauti e cliccatissima sul web. Pezzi interi sono copiati e incollati, altri modificati soltanto nel raccordo tra un taglio e l’altro (l’articolo online è infatti più lungo di quello del quotidiano calabrese).

La deontologia, in questi casi, prevede la citazione della fonte e il virgolettato, ma per ragioni facilmente intuibili non “fa figo” citare Wikipedia, molto utilizzata (ahinoi) dagli studenti per le loro ricerche, ma sulla cui autorevolezza è bene non mettere la mano sul fuoco.

Il giornalismo copia-incolla è la metafora di un’epoca che ha messo sull’altare l’approssimazione, la superficialità e la strafottenza. Tempi tristi.

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Lettera a G.

Ti ho visto poco fa: eri su un manifesto, attaccato a un muro. Proprio ieri, a pranzo, si parlava di te, di quanto manca la tua allegria, quel modo unico di stare in compagnia, la conversazione “pirotecnica” (bravu pe’ ’na vita!), la gestualità che era essa stessa parola, il racconto di storie incredibili. O soltanto di una filastrocca in dialetto, una qualsiasi del tuo inesauribile e comicissimo repertorio. Ecco, se c’è una cosa che rimpiango, è di non averti mai detto di “passarmele”, di farmele scrivere e conservare.

Dicono che il modo migliore per ricordare chi non c’è più sia farlo con il sorriso sulle labbra. Magari quello che tu sempre riuscivi a strappare, a chiunque. Come quella volta che, chissà in quali pensieri assorto, dimenticai di servirti il cucchiaio accanto al bicchierino del caffè (ché nella tazza non ti piaceva). Aspettasti un po’, guardandomi in silenzio, dopo di che, senza scomporti minimamente, girasti il caffè con l’indice!

Il bar di mio padre è stato, per me, il dono irripetibile dell’affetto (da bambino) e dell’amicizia (da adulto) dei suoi amici. Privilegio tremendo, con il passare degli anni. Mimmareddu, ma anche Marieddu e Loigeddu: la conosco bene quella voce, per questo mi viene difficile sorridere, ora. Forse un anno è troppo poco. Forse davvero soltanto il tempo riuscirà a riempire un po’ di vuoto.

Potrei raccontare centinaia di aneddoti. Le storie sul periodo che trascorresti in Germania, da giovane emigrato: eins, zwei, drei, quando volevi insegnarmi i numeri in tedesco. L’episodio, inverosimile (ma con te era sempre difficile capire dove finisse il gioco e dove iniziasse la realtà), della foto della tua pancia esposta per due mesi in non so quale museo.

O di quando andavamo a caccia. In realtà, io ero un elemento scenografico, non avendo mai sparato un colpo di fucile né allora, né dopo. Però a dodici, tredici anni era una gara tra fratelli per stabilire a chi toccava alzarsi alle 4.00 l’indomani mattina. La lampadina accesa per fare capire che eravamo pronti, il caffè caldo e poi sulla macchina (la tua golf modello preistorico o la 127 di mio padre). Il freddo, l’attesa, il ritorno, le tipiche pose da cacciatore, il giro in paese per zittire tutti gli spraticuni che si spacciavano per cecchini infallibili.

Ricordi che si accavallano. Quella passata con l’organetto e la tua ospitalità. La sacralità della preparazione delle polpette e quel tuo tratto caratteristico di “imboccare” l’ospite, di dedicare a due come a trenta commensali un’attenzione particolare, una cura di parole e bocconi, il sollievo di ore e ore di spensieratezza. Perché il tempo, con te, di certo non era un’entità assoluta.

Il racconto sulla vita degli animali – “Piero Angela può venire a lezione da me” – e il religioso silenzio con cui seguivi i documentari alla televisione. La descrizione dell’accoppiamento delle api, racconto fantastico di una quarantina di minuti che ci fece ridere fino alle lacrime. L’adorno, che ti piaceva osservare con il cannocchiale “mentre teneva stretto nel becco un insetto”.

Mi è capitato di sognarti, ma mai il sogno o la fantasia possono avvicinarsi alla realtà di quella volta che mi portasti nel tuo orto per farmi raccogliere una busta di mandarini. “Li devi assaggiare”, mi avevi detto. Ci andammo subito dopo pranzo. Venne a recuperarmi mio padre a notte fonda, dopo non so quanti litri di vino, soppressate e formaggio consumati con il pan biscotto, io, tu e un amico passato per caso da lì e prontamente da te sequestrato. Che poi – si sa com’è quando si sta in compagnia – i mandarini non facemmo in tempo neanche a raccoglierli.

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Chi cerca, (non sempre) trova

Sono stato di recente alla biblioteca comunale di Polistena. Fornitissima, in possesso di volumi dei quali neanche la biblioteca nazionale di Firenze è dotata. Un’eccellenza? La classica mosca bianca nel panorama desolante dei servizi culturali offerti a queste latitudini? Avremmo voluto che fosse così. Le condizioni ci sarebbero. E però.
C’è sempre un però nelle vicende concernenti quel che di buono la nostra terra potrebbe offrire. Un “però” che ho scoperto un paio di settimane fa, al momento della richiesta per la consultazione di due testi che l’OPAC (On-line Public Access Catalogue) indica in possesso della sola biblioteca di Polistena.

L’impatto è surreale. Si entra nei locali della biblioteca e la prima sensazione è di smarrimento. “Staranno effettuando un trasloco”, la mia prima considerazione. Dappertutto, scatoloni pieni di libri e oggetti del museo civico di Polistena, provvisoriamente sistemato nelle stanze della biblioteca (statue, mobili, reperti vari). Sommersa, la postazione dell’impiegata comunale: gentilissima e garbata, visibilmente dispiaciuta per la condizione in cui si trova ad operare.

Abbiamo cercato, insieme, i libri. Invano. Come cercare un ago in un pagliaio. Scaffali sovraffollati, oltre ogni logica. Due, tre file di libri accatastati, dei quali diventa difficile leggere il titolo, se non dopo averli tirati tutti fuori dalla loro sede. Libri per terra, fuori e dentro scatoloni pieni zeppi, privi di un numero di inventario o di una qualsiasi collocazione. Ricerca vana, dunque.
Non mi è rimasto altro da fare che lasciare il mio recapito telefonico, per cui sarò avvisato se e quando i due volumi saranno rintracciati.

Da quel che ho capito, biblioteca e museo civico dovrebbero essere trasferiti nel Palazzo Sigillò, appena (quando?) termineranno i lavori di restauro e la struttura diventerà il “Palazzo della Cultura” di Polistena. Fatto sta che, nell’attuale condizione, la biblioteca non ha alcuna utilità poiché un patrimonio librario (circa 60.000 volumi, con un’eccellente sezione “Calabria”) ed emerotecario equiparabile, per certi versi, a quello della biblioteca “Pietro De Nava” di Reggio o alla “Domenico Topa” di Palmi, nel “buco” in cui si trova non è di fatto fruibile. Un vero peccato.

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L’alba di un nuovo giorno

“Vogliamo che Reggio Calabria possa trovare la serenità e possa riprendere il suo cammino. Saremo molto vicini alla città di Reggio Calabria: come governo abbiamo deciso di mettere a disposizione tutti gli strumenti necessari e possibili per fare risorgere questa città, per dare a questa città delle risorse importanti, compatibilmente con i mezzi che abbiamo a disposizione. Questo è un atto di rispetto per Reggio Calabria”.

[Anna Maria Cancellieri – ministro dell’Interno]

Non c’è da gioire.
Lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Reggio Calabria per “contiguità” con la ’ndrangheta è una ferita lacerante, che brucia nelle carni delle istituzioni e della società civile. Un primato non certo invidiabile (non era mai successo per un comune capoluogo di provincia), “addolcito” dalla presentazione come atto preventivo, non sanzionatorio, e dal riferimento alla brevissima esperienza di Arena, con esclusione dell’era Scopelliti. Dura da digerire, in ogni caso. Sul piano politico, appare arduo trovare punti di discontinuità in quel “modello Reggio” che ha scandito l’ultimo decennio a Palazzo San Giorgio.

Non c’è da disperarsi.
Il provvedimento governativo non è il frutto delle invenzioni giornalistiche dei “nemici di Reggio”. Il complotto non esiste. Esistono le 250 pagine di relazione della commissione d’accesso; esistono le 3.000 pagine di allegati. Lo scioglimento è stato deciso dopo una lettura attenta di questo corposo materiale, non sulla base di una presunta ostilità del governo centrale nei confronti di Reggio.
Un marchio indelebile, quindi, ma anche l’opportunità, per tutti, di ripartire con umiltà, serietà, trasparenza.

Né gioia, né disperazione.
Ma l’alba di un nuovo giorno. E diciotto mesi per fare chiarezza e stabilire, una volta per tutte, chi possa realmente essere considerato “nemico” e chi “amico”. Nei fatti, non con gli slogan.

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Gianluca e Camilla

Come si fa a non perdonare uno che chiede scusa davanti a tutta Roma?

Già sono tempi abbastanza tristi, per tirare su il morale serve qualche bel lieto fine, un “e tutti vissero felici e contenti”, come in quei film strappalacrime in cui tutto si risolve nell’ultima scena, con lui (o lei) che riappare quando ormai sono finiti anche i fazzolettini, la sala è tutto un singhiozzare e tutti pregano che non si riaccendano le luci per non fare vedere occhi arrossati oltre ogni umana possibilità.

Forza Gianluca.

Forza Camilla.

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Epic Fail

Nel linguaggio dei social network, con Epic Fail (fallimento epico) s’intende un enorme sbaglio (qualcosa di simile a una figuraccia), immortalato in un video o in una foto. Ad esempio, certe scritte sgrammaticate che si leggono sui muri delle città.

O immagini buffe, incredibili, che suscitano istintivamente una fragorosa risata.

Qualcosa di simile è capitato con il post che ho pubblicato stamattina per rispondere a un fantomatico Rocco Cutrì. “Fantomatico” non perché Rocco non esista, ma perché non è lui l’autore del commento all’articolo Strettamente personale che aveva provocato la mia reazione.
Negli ultimi tempi sul blog registro, con maggiore frequenza rispetto al passato, incursioni incresciose. Per questo sono stato costretto a inserire la funzione “moderazione” nei commenti, che non pubblico se contengono attacchi o offese anonime nei confronti di chicchessia. In questa circostanza, sono stato tratto in inganno dal fatto che l’intervento era sottoscritto con nome e cognome, anche se per tutta la giornata di ieri ho avuto il dubbio che si trattasse di un troll (chi, su internet, pubblica messaggi provocatori).
Conosco Rocco, al quale ho pure avuto modo di esprimere (qui) il mio apprezzamento, ai tempi della sua esperienza amministrativa, e proprio per questo ero rimasto sorpreso e amareggiato. Purtroppo, non sono però riuscito a rintracciarlo, prima di postare l’articolo, per accertare al cento per cento che quelle parole fossero davvero roba sua. Errore da matita blu: mea culpa.
Ne hanno fatto le spese, involontariamente, anche Nino Creazzo e Carmen, intervenuti in mia difesa con parole abbastanza pesanti. Mea culpa, anche nei loro confronti.

Ho eliminato dal blog il post che avevo scritto stamattina e i commenti che hanno suscitato questo vespaio, a partire, ovviamente, da quello inviato dal simpatico usurpatore.

Nella foto sotto, eccomi nel momento in cui scopro di essere stato “trollato”, un attimo prima di sbattere contro la verità (è quella cosa di ferro orizzontale).

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Siamo tutti Sallusti, ma anche no

Sul caso Sallusti, il direttore del “Giornale” condannato a 14 mesi di reclusione per un articolo fatto pubblicare nel 2007, quando dirigeva “Libero”, è stato detto tutto. Nel considerare il carcere una pena eccessiva, arrivo quindi buon ultimo. Concordo anche – e questo, seriamente, mi preoccupa – con Vittorio Feltri, quando dice che il giudice non ha alcuna colpa, poiché si è limitato ad applicare la legge: “se tu – il succo del suo ragionamento – gli metti in mano armi che vanno dal temperino al mitra e quello usa il mitra, bisogna prendersela con il legislatore che gli ha messo il mitra in mano, non con il magistrato che l’ha usato”.
La legge in questione, retaggio del codice Rocco, è sopravvissuta alla caduta del fascismo (immagino) perché, in fondo, al potere fa comodo anche soltanto adombrare la possibilità che si possa finire in galera per ciò che si pensa. Per cui, bisognerebbe cambiare la legge e stabilire che i reati a mezzo stampa sono perseguibili solo per via civile. Su questo, siamo (o dovremmo essere) tutti d’accordo.

Detto questo, si impone qualche precisazione. La prima, e sostanziale: confondere fatti e opinioni o fare di Sallusti un eroe risponde alla solita, insopportabile, logica strumentale cui tutto, in Italia, si riduce. Una cagnara utile per nascondere ciò che Alessandro Robecchi ha definito “un giornalismo sciatto, fatto male, truffaldino, che dà notizie false per sostenere una sua tesi”. Sì, perché il reato d’opinione, nel caso di Sallusti, non c’entra per niente: c’entra invece, il fatto che è reato “scrivere e stampare notizie false”, cioè diffamare. C’entra anche, per esempio, il dettaglio che un direttore responsabile, lo dice la parola stessa, è “responsabile” di ciò che viene pubblicato sul giornale che dirige, altrimenti qualcuno mi spieghi quale sia la sua funzione. C’entra, inoltre, con un principio etico elementare: quello di proibire che sia data ospitalità e offerta una tribuna a un giornalista radiato dall’Ordine (Renato Farina, deputato Pdl, già agente “Betulla”). E poi fare anche finta di non conoscere l’identità dell’autore dell’articolo incriminato: diversamente si incappa, come è successo al direttore del “Giornale”, anche nel reato di “omessa denuncia”. Che con la libertà d’opinione, è evidente, non ha alcuna relazione.

Non apprezzo Sallusti (eufemismo). Trovo odioso il suo modo di fare giornalismo, ammesso che sia giornalismo la faziosità e la distorsione della verità per fare l’interesse politico del proprio editore. Ritengo però che una pesantissima multa (superiore ai 5.000 euro di multa del primo grado di giudizio) e la radiazione dalla professione, per i giornalisti che facciano strame della deontologia, possa essere una pena congrua. Una soluzione che, tra l’altro, ci risparmierebbe il rischio di ritrovarci con un improponibile martire della libertà di stampa. In definitiva, è la pena che è ingiusta, perché non c’è proporzione tra reato e condanna, non la condanna in sé.
No al carcere, dunque. Certo. Ma #siamotuttiSallusti (l’hashtag che sta girando su twitter), no. Anche impegnandomi, turandomi qualsiasi cosa, non ce la potrei mai fare.

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Pensiero di notte

La vita non è una competizione in cui a volte si vince, altre si perde.
Non c’è l’inno nazionale, alla fine, e neanche la medaglia e il bouquet di fiori.
Non si va dietro la lavagna, né si indossa il cappello con le orecchie d’asino.

Però è dappertutto, anche in ciò che mortifichiamo con un banale “questa non è vita”. E invece no. Proprio quella, lo è.

Tutto è vita e tutto è un soffio. Quanto ci mette un soffio a svanire, a non lasciare niente di sé?

Soltanto utilizzando la lente della caducità, ogni cosa assume contorni reali ed essenziali. Non è rassegnazione, né passiva attesa del fluire naturale del tempo. È un cribro da agitare con saggezza, per setacciare ciò che davvero ha importanza e ciò che, invece, soltanto abbaglia, distrae, inganna.

Uomini e cose, fatti e pensieri.

Stare bene, con noi stessi e con gli altri, con quanti più “altri” sia possibile, visto che anche a Gesù – che era Gesù – uno su dodici fagliò. Ovunque: nell’abbraccio delle metropoli, confinati in qualche periferia del mondo, sonnecchianti nella noia di quattro case e un forno.

Non esiste altra ricetta per la felicità. Se si vuole, è l’uovo di Colombo. Spesso inseguiamo miraggi utili soltanto per pompare il nostro ego, che non riescono però a riscaldare. Neanche un po’.

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Le scarpette di gomma dura

– “No! Mannaja Ddena! Non ci voleva questa neve!” – Luigi, Pinuccio, Massimo e Domenic si guardarono, sconfortati. Da quasi un mese aspettavano la prima partita del campionato Esordienti e quel sabato il paese si era svegliato sotto una coltre bianca. Niente scuola, ovviamente, ché ne bastava ’na ddiccàta per scaraventare la cartella, lo zaino o la cinghia con due-tre libri sul divano, uscire fuori e dare inizio alla battaglia. Eppure, quel giorno non riuscivano ad essere allegri. Avrebbero preferito centomila volte entrare a scuola, perfino essere interrogati in latino: sì, alla scuola media il professore d’italiano aveva deciso di insegnare qualche rudimento di latino. “A chi deciderà di iscriversi al classico o allo scientifico, tornerà utile” – aveva osservato, per cercare di indorare la pillola.

Neve, neve e neve. Corsero al campo sportivo per un sopralluogo. Era come sospettavano. Una lunga e larga distesa bianca. Non che loro la temessero, né li impressionava il freddo. Il loro trainer godeva di una meritatissima fama di duro, conquistata grazie alle pesantissime sedute di allenamento che infliggeva ai ragazzi. Li faceva correre fino allo sfinimento e, non appena qualcuno sgarrava, veniva immediatamente spedito a casa. Qualche anno più tardi, quando esplose il fenomeno, i suoi stessi giocatori lo bollarono “Zeman”, il tecnico boemo del “Foggia dei miracoli”, una squadra di sconosciuti che riuscì a sorprendere l’Italia del calcio. Anche se il suo modello era Rinus Michels, l’inventore del calcio totale e profeta del modulo “a zona”, tutto pressing e fuorigioco a centrocampo. Luigi e Domenic, i meno dotati fisicamente, la voce del coach la sentivano anche di notte. Mentre agli altri, dopo un’ora abbondante di corsa, ripetute, scatti, progressioni ed esercizi, era finalmente consentito di toccare il pallone, per loro c’era un supplemento di giri di campo: “Dovete sopperire con la corsa”. Sopperire, un verbo che finirono per odiare, costretti a guardare gli altri divertirsi col pallone venti minuti prima di loro. Per anni si è raccontato di quella volta che si mise a grandinare ininterrottamente, mentre Esordienti e “prima squadra” si stavano allenando allo stesso orario, come capitava non di rado. I “grandi” si rifugiarono dentro gli spogliatoi: ogni tanto, qualche viso faceva capolino per osservare, stupito, tutti quei ragazzini sotto la bufera. “Non vi fermate, continuate a correre” – l’intimidazione del mister.

Figurarsi, quindi, se poteva spaventarli un po’ di neve.

Luigi era il mediano della squadra, il numero 4, quando ancora la numerazione della maglia aveva un senso. Un corpo esile che una folata di vento rischiava di far decollare, con due polmoni e una resistenza da fare invidia al migliore Furino. Anche se il suo soprannome era “Tardelli”. Dentro la divisa si perdeva. D’altronde, gli Esordienti utilizzavano quella della “prima squadra”. Maniche talmente lunghe da fare solamente intuire la presenza di braccia e mani al loro interno e pantaloncini che arrivavano fin sotto le ginocchia. Sul petto, la scritta dello sponsor, una stampa talmente rigida e pesante che finiva per ripiegarsi e appoggiarsi venti centimetri più in basso.

Pinuccio, lo stopper (numero 5): di quelli rudi, nel solco della tradizione italiana. Un morditore di caviglie implacabile, che all’avversario non dava respiro. Aveva adattato a borsone una piccola tracolla dell’Alitalia, rimediata da qualche parente venuto dall’Australia, e sosteneva una sua personalissima teoria sull’elasticità delle scarpe da gioco. Bastava calzarle dentro una bacinella di acqua bollente, per una mezzoretta, e quelle sarebbero scasciate. Leggenda metropolitana vuole che Pinuccio abbia utilizzato lo stesso paio di scarpe da calcio, dal 37 al 40 di piede.

Massimo, un’ala destra velocissima (numero 7). Poca tecnica, ma tantissimo fiato, ha realizzato i gol più “sporchi” della storia del calcio paesano: di ginocchio, di coscia, di stinco, con qualsiasi parte del corpo, che utilizzava come la pala di una ruspa, per spazzare tutto ciò che intralciava la sua corsa. A fine partita, era il più temuto dello spogliatoio. Mai serrare le palpebre, quando c’era lui nei pressi delle docce: il bruciore agli occhi, causato dal sapone, era di gran lunga preferibile ai suoi scherzi terrificanti.

Domenic era invece l’ala sinistra (numero 11, che ogni tanto diventava 10, quando veniva spostato nel ruolo di “regista”), tutto mancino – la scarpa destra praticamente nuova – e portava annodato al braccio sinistro, al posto della fascia di capitano, un vecchio calzettone strappato. Tanta corsa anche per lui, con ai piedi le “Kevin Keegan” regalategli da un suo zio emigrato in Francia, e un fisico che non voleva saperne di crescere, nonostante l’uovo sbattuto consumato ogni mattina a colazione.

Tutti e quattro avevano una passione smisurata per il calcio, che praticavano per strada, nelle piazze, in pineta. Finivano gli allenamenti e continuavano a giocare ovunque si imbattessero in altri ragazzini con un pallone sotto il braccio. Ogni giorno, interminabili partite, che d’estate iniziavano la mattina e proseguivano, dopo la pausa pranzo, fino al tramonto.

Fosse stato per loro, dubbi non ce n’erano. La partita andava disputata, neve o non neve. Ma toccava all’arbitro decidere, non ai ragazzi.

Un sole pallido alimentava un flebile ottimismo: sentivano che qualcosa poteva ancora accadere e che, forse, si poteva tentare di raddrizzare il corso di quella giornata.
Luigi ebbe un’idea geniale, che sia stata sua o presa in prestito dopo averla ascoltata, chissà quando e dove, da qualcuno più esperto, non importa. Il sale squaglia la neve. “Ve l’assicuro, fidatevi” – con quello sguardo furbo che i suoi compagni conoscevano bene, soddisfatto per la trovata. Detto, fatto. Misero insieme i pochi spiccioli che si ritrovarono nelle tasche e li investirono in pacchi di sale grosso da un chilogrammo. La putijara neppure si chiese cosa mai avrebbero dovuto fare con tutto quel sale quei ragazzini, che fecero immediatamente ritorno al campo per cercare di spargerne su quanta più superficie possibile.

Il sale e il sole di marzo resero il terreno di gioco un’immensa pozzanghera. Eppure si giocò. Né l’arbitro, né gli avversari avevano intenzione di farsi di nuovo tutti quei chilometri, per disputare l’incontro un paio di settimane dopo. A fine partita, tanti piccoli pulcini inzuppati fin nelle mutande si tuffarono sotto le docce caldissime, contenti per avere giocato e, ancor di più, felici per il clacson di una vecchia Fiat 500 che una mamma scatenata faceva suonare all’impazzata ogni volta che la squadra segnava. Sei strombazzate soltanto in quel pomeriggio. E tante altre fino alla fine del campionato, concluso trionfalmente un paio di mesi più tardi.

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