A.C. Eufemiese – 1988

“Gli eroi son tutti giovani e belli”… e con un pallone tra i piedi sanno fare miracoli. Per un ragazzino le cose stavano così, almeno negli anni Ottanta.

Quando ancora la pay per view non ci aveva fatto venire la nausea per il calcio giocato, osservavamo i nostri eroi allenarsi, loro in una metà del campo, noi “esordienti” o “giovanissimi” nell’altra metà, cercando di carpirne i segreti. Poi, la domenica, tutti sugli spalti ad incitare i nostri beniamini: ecchissenefrega se era Seconda o Prima categoria (per diverse stagioni addirittura Promozione), in campi polverosi di provincia, mica il Bernabeu.
Un giorno avremmo coronato il nostro sogno. Sogno di provincia, difendere i colori della squadra del nostro paese, giocare con alcuni di quelli che prima avevamo seguito con occhi incantati.

Nella fotografia, una formazione dell’Eufemiese che dovrebbe risalire al 1988, campionato di Prima categoria. Presidente il compianto Peppe Visconte, subentrato a Rocco Cannizzaro, timoniere della squadra per una stagione, dopo la tragedia che si portò via il presidente Pasquale Morabito e il cassiere Saverio Coletta.

Allenatore (e giocatore): Arturo De Forte. Tra gli altri dirigenti, il vulcanico Peppe Napoli, Pino Gelardi, Vincenzo Papalia e Franco Cuppari. Custode del “Claudio Morisi”, il mitico “professore” Peppe Fava.
Da sinistra, in alto: Marco Roldi, Cosimo Nocera, Carmelo Occhiuto, “Melo” D’Aspromonte, Natale Imbesi, Peppe Carbone, Massimo Garzo.

In basso: Carmine Napoli, “Iaio” Villari, Marcello Sgrò, Peppe Spanto, Arturo De Forte, Nino Naso, Mimmo Nolgo.

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Il mio ricordo di Pasquino Crupi

Pasquino Crupi se n’è andato. Ci sarà tempo per tracciare il profilo dell’intellettuale e del meridionalista senza riserve.

Ho due ricordi particolari. Uno legato alla mia infanzia, a quando il professore, insieme ai dirigenti provinciali del partito socialista, veniva spesso a Sant’Eufemia per incontrare i militanti nella sezione di piazza Matteotti che mio padre frequentava con una certa assiduità, nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Anni in cui il partito – qualsiasi partito – non era un comitato elettorale, ma uno strumento della “base”. Anni in cui il militante si sentiva investito di una responsabilità che trascendeva il proprio destino personale.

Nel momento della deflagrazione (tangentopoli) restò a sinistra, con i pochi che avemmo il coraggio di dire e dimostrare che un socialista mai avrebbe fondato un club di Forza Italia, come anche a Sant’Eufemia accadde, con la quasi totalità dei vecchi compagni passati armi e bagagli alla corte di Sua Emittenza.

Vicino a Rifondazione comunista e quasi sempre in polemica con i Democratici di sinistra, gli eredi di quel partito comunista che i socialisti videro sempre – con qualche ragione – come il proprio carnefice.

Il secondo ricordo risale a circa cinque anni fa. Andai a trovarlo e il discorso cadde su uno dei massimi esponenti del socialismo calabrese. Non ho mai sentito così tanto odio e rancore (sì, odio e rancore sono i termini più appropriati per descrivere la violenza delle sue parole) come in quell’occasione. E questo spiega molto del socialismo, della sinistra in generale e della autolesionistica guerra tra bande che storicamente ne costituisce il tratto distintivo.

Controcorrente, spesso scomodo, qualche volta livoroso. Come nell’ultima sua crociata contro le “sindachesse” dell’antindrangheta che sinceramente non ho ben compreso, insieme ad altre posizioni a mio avviso troppo manichee sul tema scivoloso della giustizia e del garantismo. Di certo, mai banale.
Amava questa nostra disgraziata terra. Mi mancherà la sua quotidiana “Luna rossa” su “L’ora della Calabria”. Alla Calabria mancherà un intellettuale onesto e raffinato.

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Il cavallo di Chiuminatto – Errata corrige

Nel corso della presentazione del libro fatta qualche giorno fa mi è sorto il dubbio di avere commesso una svista relativamente alla voce “via sergente Crea”.
Sono andato a controllare e in effetti è così. Il tratto di via sergente Crea che oggi ricade all’interno della Pineta comunale è compreso tra via Fimmanò e via De Nava. A pagina 48 del libro ho invece scritto “tra via Fimmanò e via tenente Tropeano” (che è la parallela sopra via De Nava).

Come potete vedere dalla foto, io ho già corretto l’errore.
Se volete, passo casa per casa e provvedo di mio pugno!

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Il cavallo di Chiuminatto alla pineta comunale

La presentazione del 18 maggio presso la sala del consiglio comunale si era svolta appositamente di mattina, per privilegiare la partecipazione dei ragazzi del liceo scientifico “Enrico Fermi”.

Già in quella occasione avevamo però preannunciato una replica da tenere nel mese di agosto, per dare la possibilità di essere presente a chi per impegni di lavoro aveva dovuto rinunciare, ma soprattutto per offrire una serata all’insegna della memoria ai tanti eufemiesi emigrati, che in questi giorni sono rientrati per trascorrere in paese le vacanze estive.

L’appuntamento quindi è per le 19.00 di domenica 11 agosto, al fresco della pineta comunale.

Vi aspetto

D.F.

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Nessuna sorpresa, sullo svincolo autostradale era tutto già scritto

Sono in corso e verranno ultimati entro l’anno tutti i lavori di rinaturalizzazione con i quali verrà ripristinata la morfologia del territorio ed in alcuni casi, in particolare tra i vecchi svincoli di S.Elia-Melicuccà e Bagnara, verranno recuperate le strutture preesistenti della vecchia autostrada che diventerà la bretella di approccio alla nuova autostrada per l’area dell’Aspromonte.

(dal comunicato ufficiale diramato oggi dall’Anas, dopo il completamento dei lavori del V macrolotto dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria, tra Gioia Tauro e Scilla: qui il testo completo)

La vecchia autostrada diventerà “bretella”.
Amen.

Se qualcuno a Sant’Eufemia ancora non l’avesse capito, è andata davvero a finire che bisogna battersi il petto perché almeno la bretella è stata mantenuta, altro che svincolo (ne avevamo già parlato qui).

*Foto di Antonio Lupoi

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Mussolini, penultimo atto

Ore 22.45 del 25 luglio 1943: “Attenzione, attenzione. Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro segretario di Stato, presentate da S.E. il cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato capo del governo, primo ministro segretario di Stato, S.E. il cavaliere maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”. Con queste parole Titta Arista, speaker ufficiale del Giornale Radio, annunciava la fine del Ventennio fascista. Da un paio d’ore Mussolini era stato scaricato in una caserma dei carabinieri di via Legnano, proveniente da Villa Savoia, dove alle 16.15 di quel pomeriggio aveva avuto un colloquio con Vittorio Emanuele III al termine del quale era stato fermato e fatto salire (per “motivi di sicurezza”) su un’autoambulanza della Croce Rossa.

Nel corso della precedente notte, alle 2.40, il gran consiglio del fascismo convocato alle 17 di giorno 24 nella sala del Pappagallo, dopo quasi dieci ore di riunione aveva approvato l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, con il quale si invitava “il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere, con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a lui attribuiscono, e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra augusta Dinastia di Savoia”.

Da tempo il re, con i vertici dell’esercito, spingeva per la soluzione traumatica. Un tentativo disperato di separare i destini dell’Italia (e della monarchia) da quelli politici e personali di Mussolini. L’esito della guerra era ormai compromesso. Nonostante l’eroismo dei militari italiani ad El-Alamein, il fronte nord-africano era in mano alleata da otto mesi; ai primi di luglio (dopo la “resa” di Pantelleria, 8-11 giugno), il successo dell’operazione “Husky” aveva prodotto lo sbarco dell’esercito anglo-americano in Sicilia; la crisi economica, la difficoltà dei trasporti e dei rifornimenti, la penuria dei generi razionati e i continui bombardamenti sulle città avevano ridotto allo stremo la popolazione, alimentandone il senso di sfiducia nei confronti del regime.
All’interno del partito nazionale fascista cominciava a tirare aria di fronda, anche se i gerarchi andavano in ordine sparso nei loro tentativi di agganciare personalità dell’esercito e membri della corte. L’iniziativa di Dino Grandi riuscì a mettere (quasi) tutti d’accordo, pochi giorni dopo il primo vero bombardamento di Roma, che creò notevole impressione tra i vertici del fascismo e i membri del governo. Tre gli ordini del giorno presentati alla riunione: quello di Grandi, quello di Roberto Farinacci (favorevole ad un rapporto ancora più stretto con la Germania nazista), quello del segretario del Pnf Carlo Scorza. Con 19 voti a favore, sette contrari e un astenuto, l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi costituiva finalmente il “mezzo costituzionale” che restituiva al sovrano le prerogative di capo politico supremo e di comandante delle forze armate e consentiva di ottenere “legalmente” le dimissioni di Mussolini.

In realtà, non mancò chi parlò di “colpo di Stato monarchico”. La legge del 9 novembre 1928 che costituzionalizzava il gran consiglio del fascismo, istituito sin dal dicembre del 1922 per fungere da “camera di compensazione” (Alberto Aquarone) necessaria a Mussolini per controllare il “rassismo” delle province e tracciare le linee guida riducendo a una le tendenze interne al partito, all’articolo 13 stabiliva infatti che la nomina del successore del duce spettava alla Corona, su proposta del gran consiglio: procedura che doveva così garantire la perpetuità del regime e che, in definitiva, incarnava la ratio stessa della costituzionalizzazione del gran consiglio.
D’altro canto, gli articoli 5 (“Al Re solo appartiene il potere esecutivo”) e 65 (“Il Re nomina e revoca i ministri”) dello Statuto albertino, di fatto, non erano mai stati abrogati, nonostante lo scempio delle prerogative costituzionali e delle libertà individuali e collettive. Così come l’intera Carta “concessa” ai piemontesi da Carlo Alberto il 4 marzo 1848 e adottata dallo Stato unitario il 17 marzo 1861.
Scempio consentito dal carattere “flessibile” della Carta costituzionale, che poteva essere modificata per via ordinaria, senza il ricorso cioè a un procedimento di revisione aggravato, quale quello previsto (non a caso) dall’art. 138 della Costituzione repubblicana. E che portò alla realizzazione del progetto di “abolizione delle garanzie statutarie, simulando il rispetto dello Statuto” (Piero Calamandrei). Ma anche a causa della prassi consolidatasi già in età liberale e alla base della teoria dei “germi patogeni”, elaborata negli ambienti azionisti e repubblicani, secondo la quale con il regime fascista ci fu un cambiamento nella quantità – non nella qualità – delle violazioni dei diritti sanciti dallo Statuto, che si erano verificati a partire dal 1848.
Per cui, se colpo di Stato vi fu, si trattò di un colpo di Stato tutto interno al regime fascista. “Signori, con questo voto avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta”, il lapidario commento finale del duce.

Si concludeva così l’esperienza storica del fascismo in Italia, che ebbe una coda dolorosa e tragica nei 600 giorni della Repubblica di Salò, Stato fantoccio a capo del quale Hitler collocò lo stesso Mussolini, ormai all’ultimo atto della sua esperienza politica e umana, dopo averne organizzato la fuga da Campo Imperatore, sul Gran Sasso.

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Piccole faide giornalistiche

I fatti sono ormai noti. Il grugnito di Calderoli, che dà dell’orango al ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge, in seguito derubricato dall’esponente leghista a battuta da comizio, frasario indispensabile per sintonizzarsi con la pancia del proprio elettorato, ma da inquadrare “in un ben più articolato e politico intervento di critica” alla politica del governo sul tema dell’immigrazione e dei diritti degli immigrati.
La sollevazione del mondo politico, con la richiesta di dimissioni dalla carica di vicepresidente del Senato avanzata dallo stesso premier Enrico Letta.
La reazione della società civile, con la petizione per chiedere le dimissioni di Calderoli lanciata da Stefano Corradino e Beppe Giulietti di Articolo 21 su change.org, che in pochi giorni è già stata sottoscritta da 172.000 sostenitori.

Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Ognuno fa il suo gioco.

Compresi i giornalisti.

La violenza delle randellate scagliate contro Lidia Ravera da Luca Mastrantonio sul “Corriere della Sera” non l’ho capita, ad esempio. Vabbè che si vive anche di urla, ma ripescare un articolo di quasi nove anni fa per proporre un’inverosimile analogia tra l’attuale assessore alla Cultura e allo Sport della Regione Lazio e l’ex ministro leghista a me è sembrato scorretto e abnorme. Oltre che falso nel merito.

Cosa sostiene infatti Mastrantonio? Che nel 2004 Ravera avrebbe paragonato a una scimmia Condoleezza Rice, sottosegretario di Stato nella seconda amministrazione Bush jr.
Se però si va a leggere l’articolo in questione, come invita a fare la scrittrice assurta alla notorietà con lo pseudonimo “Antonia”, coautrice insieme a Marco Lombardo Radice (“Rocco”) del libro cult Porci con le ali (1976), la forzatura interpretativa salta immediatamente agli occhi. Si concordi o meno con il tono molto aspro della critica all’esultanza delle femministe italiane per l’incarico affidato alla Rice (il tema era questo), di razzismo – a mio avviso – è difficile trovarne.

Lidia Ravera denuncia in sostanza la “manipolazione” e la “strumentalizzazione” operate da Mastrantonio grazie all’affiancamento delle “due paroline magiche” (donna e scimmia, quando invece la giornalista si riferiva a una donna che “scimmiotta”).

Alla replica di Ravera sul “Corriere”, Mastrantonio ha controreplicato: “Ammettere che la metafora, per lei lapalissiana, possa suonare anche ignobile avrebbe reso più credibile la sua denuncia di quanto ignobile sia l’uscita di Calderoli”. Un artificio antico e diffuso un po’ ovunque quello di riservarsi l’ultima parola.

Questi gli ingredienti della polemica, che è paradigmatica di un certo modo di fare giornalismo.
Non so a voi, ma a me l’intervento di Mastrantonio è sembrato un’entrata a gamba tesa con pallone lontano dal gioco.

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Per qualche spicciolo in più

Comodo, per voi indivanados, saltare da un canale all’altro e sparare sentenze a destra e a manca brandendo il telecomando come un machete, lo sguardo schifato di chi non ne può più del letame che sale, una voglia irresistibile di Mojito per non pensarci. Non questa sera almeno, ché l’happening mi aspetta. Domani, forse.
Facile, anche per voi indignados, sventagliare a raffica sui social, o fare caciara davanti a parlamenti, sedi di partiti e sindacati, aziende che licenziano: per strada o sui tetti, incazzati bestia per il lavoro che non c’è, la benzina che aumenta, le bollette da rateizzare, lo Stato che s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità.

La fate semplice, voi col sopracciglio alzato e il ditino puntato, per quattro spiccioli spesi dai gruppi politici della Regione Calabria in attività istituzionali. Sono i costi della politica, bellezza. Perché la democrazia non è star sopra un albero, giusto? Bisogna darsi da fare, battere le strade, andare tra la gente: tutte attività che non sono a costo zero. Sono soldi spesi per la collettività: perché ciascuno di voi, rientrando a casa, possa rilassarsi, consapevole che qualcuno si sta occupando del bene comune.
Voi, invece, no: non riuscite a comprendere un’evidenza lapalissiana. Tutti a correre appresso alle rivelazioni a puntate di Giuseppe Baldessarro sul “Quotidiano della Calabria”. Tutti con la monetina in mano, come davanti al Raphael. O col cappio già pronto, roteante come un lazo della Pampa. Tricoteuses sferruzzanti sotto il palco della ghigliottina.

E giù con “Rimborsopoli” e l’ennesima vergogna dei nostri politici. Ogni nome uno scontrino, una fattura, un buono acquisto. Una solerzia che andrebbe premiata, altroché. Non c’è scandalo: venghino, signori venghino.

Viaggi, pernottamenti, pranzi al ristorante per 30, 40, 90 ospiti. Crepi l’avarizia. Set di valigie da mille e passa euro, perché partire è un po’ morire, se non ti porti appresso il necessario e se quel necessario non viene sistemato in trolley top class. Biglietti di auguri, argenteria varia e regalini perché – vivaddio – non siamo bifolchi cresciuti nelle caverne, ma persone a modo, che sanno fare “i doveri” come ogni cristiano degno di questo nome. Giornali, perché va bene la rassegna stampa, ma vuoi mettere l’odore dell’inchiostro delle rotative ancora fresco?

Prime colazioni. Certo. Anche i settanta centesimi di un caffè. Da quando in quando è diventato osceno tutto questo? Non so voi, ma io senza caffè al mattino non riesco a mettere a moto il cervello. Mentine e caramelle sono indispensabili: la gente ti perdona l’ignoranza della Costituzione; mai e poi mai ti perdonerebbe un alito agghiacciante tipo fogna di Calcutta.
Le multe per eccesso di velocità, cari i miei Savonarola, sono la prova inconfutabile del lavoro di un politico in favore dei cittadini che rappresenta. Si va di corsa per non perdere tempo nella soluzione dei tanti problemi che affliggono la nostra martoriata terra. Se non è attività politica e istituzionale questa, ditemi voi quale possa esserlo.

E per favore, basta con questa storia del gratta e vinci: bisogna rischiare qualche investimento se si vuole rilanciare l’economia. Vi ha dato fastidio anche l’acquisto di film o partite su Sky: ma avete idea della noia degli alberghi a cinque stelle? Suvvia, finiamola con questo grillismo a buon mercato; basta con la questione morale, buona soltanto per rimediare sul piano etico al fallimento di tante inchieste giudiziarie. La politica è l’arte del possibile, non la scala per il cielo.

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Il citofono tascabile di Leo Sculli

Il postino suona sempre due volte. Ma anche i venditori porta a porta, i testimoni di Geova, l’ufficiale giudiziario, il lettore del contatore del metano e il vicino di casa – che ha sempre un buon motivo per rompere – in genere si prendono una seconda chance, per essere certi che in casa non ci sia nessuno. Come risolvere il problema quando l’inquilino è fuori, oppure nei casi in cui chi sta in casa non è nelle condizioni di rispondere? A questo ha pensato il team che ha realizzato Welco, “il citofono che sta in tasca”, secondo la calzante definizione de “Il Tirreno”.
Una squadra composta da sette ragazzi, diventati sei in seguito all’abbandono di Alessio Pace: dottori, laureati triennali e studenti in Economia o in Ingegneria tra i venti e i trent’anni, che hanno sviluppato un’idea partorita dalla testa di Francesco Medda.

Tra questi, lo studente in Ingegneria gestionale Leo Sculli, partito da Sant’Eufemia qualche anno fa per inseguire un sogno e riuscire a dare sfogo alla propria creatività in una realtà meno asfittica di quella calabrese. Destinazione l’Università di Pisa, dove sta per completare il biennio di specializzazione.
La partecipazione di Leo alla Startup di Torino (marzo 2013), nel corso della quale Medda presentò la sua idea, fa scoppiare la scintilla e crea l’alchimia necessaria per fare sì che giovani provenienti da differenti esperienze e realtà si aggreghino attorno a un’ipotesi di lavoro fortemente innovativa.

Da allora, in silenzio, il gruppo – del quale fanno parte anche Marco Arrobbio, Gabriel Occhino, Guido Parissenti e Carlo Buccisano – si dà un gran da fare per sviluppare un progetto da presentare in diversi concorsi nazionali: Fiera delle Startup, K-Idea Giovane di Kilometro Rosso, Working Capital di Telecom Italia.

L’ultimo passo è quello decisivo. Warking Capital istituisce trenta “grant d’impresa” (25.000 euro ciascuno), che consistono in finanziamenti destinati a team di startupper in cerca di capitali per il completamento del MVP (Minimum Viable Project) o per la realizzazione di indagini di mercato sulle potenzialità commerciali di un’invenzione “in ambito internet, digital life, mobile evolution e green”: quindici destinate alle Startup selezionate per il programma di accelerazione e altrettante per tutte le altre.

Nei giorni scorsi, Welco si è aggiudicato uno dei primi quindici finanziamenti (per i rimanenti il bando scadrà il 30 settembre), riuscendo a superare la concorrenza di ben 1.200 progetti cassati al termine di una severissima selezione.

Ma in cosa consiste la scoperta di Leo e dei suoi amici/colleghi? Ce lo spiega il diretto interessato con parole semplici: “è bastato sostituire la cornetta interna del citofono con un dispositivo Welco che, oltre ad avere le classiche funzionalità di un tablet, consente di aprire il portone dal cellulare”. Cosa comporta? “Considera tutte le comodità che puoi avere rispondendo al citofono direttamente dal tuo cellulare, ovunque tu sia, nel momento in cui citofonano a casa tua. E poi rifletti anche sull’utilità sociale per chi ha difficoltà di deambulazione: disabili, soggetti anziani”.

Sul perché abbia lasciato l’Università di Reggio per quella di Pisa, Leo è altrettanto chiaro: “avevo deciso di cambiare corso di studi e passare da Ingegneria elettronica a Ingegneria gestionale, ma non ti nascondo che la considerazione decisiva è stata quella che Pisa (intesa sia come Università che come città) offre possibilità che Reggio Calabria purtroppo nemmeno si sogna”.
Il prossimo passo sarà la commercializzazione del prodotto – del quale al momento esiste soltanto un prototipo dimostrativo –, che il gruppo di ricerca conta di realizzare entro la primavera del 2014. Poco meno di un anno di tempo per sviluppare la ricerca, migliorare hardware, software e App, depositare i brevetti e, soprattutto, trovare investitori convinti della bontà del progetto.

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