Lucky, il cane che non conobbe catena

Chi ha superato i trenta se lo ricorda. Lucky era un “personaggio” noto in paese perché potevi incontrarlo ovunque. Nel parcheggio del bar di mio padre, a fare strada abbaiando davanti alla vecchia 500 di mia mamma, in piazza a giocare con noi ragazzini. Tutte le mattine ci accompagnava a scuola e poi, quasi conoscesse gli orari, ci attendeva all’uscita. Un dolce ricordo della mia adolescenza, che mio fratello Luis ha rispolverato con questo suo simpatico articolo. A Lucky ho dedicato persino una poesia, quand’ero poeta (perché tutti, tra i 18 e 25 anni, abbiamo coltivato ambizioni da poeta).

Nella foto, il ritratto di Lucky realizzato da Luis.

D.F.

Antefatto: sognavo un boxer. Ne ero rimasto folgorato ammirandolo in foto: mai visto niente di paragonabile, una testa scolpita nel granito, caratterizzata ed espressiva, avvitata su un corpo talmente asciutto e muscoloso da sembrare irreale. Un giorno di settembre ’87 nella nostra vita avrebbe finalmente fatto irruzione il boxer Eros, amatissimo e unico, ma questa è un’altra storia.

Eravamo seduti a pranzo, una calda giornata di giugno ’86. Improvvisamente mia madre nota un’ombra fuori dalla porta: “Focu meu, nu cani! Cacciatilu!!!”. Esco e invece di urlargli dietro lo “chiamo”. Non scappa impaurito, mi viene sotto facendo le feste. Un meticcio di circa tre mesi, chiare ascendenze da terrier. Con i miei fratelli scongiuriamo papà, io sono disposto a non asfissiarlo più un giorno sì e l’altro pure con la storia del boxer pur di potercelo tenere. Inizia la leggenda di Lucky, il re di Sant’Eufemia. Ancora non potevamo immaginarlo, ma in venti chili per quarantatré centimetri al garrese (misure da adulto), Madre Natura ci aveva recapitato il gradino più alto dell’evoluzione canina. Esagerazioni tipiche di ogni proprietario di cani?

Fu battezzato Lucky, in inglese “Fortunato”, per due motivi: primo, perché altri magari non l’avrebbero accolto; secondo, perché con Mick e Mario stravedevamo per Lucky Luke, tanto da aver chiamato un pesciolino rosso, vinto a una festa di paese, “Busciuegg” (vai a capire come si scrive, in originale si chiama Ran-tan-plan), come il cane che lo accompagna insieme al fido cavallo parlante Jolly Jumper. Gli avventori del “Bar Mario” (mio padre dovrebbe farsi pagare le royalties dal Liga…), oltre ad adorarlo a loro volta, negli anni lo avrebbero soprannominato “Lucky Luciano” o “Vallanzasca”, a seconda delle imprese cui si riferivano. Quali imprese? Jack London ci avrebbe chiuso la trilogia con Buck e Zanna Bianca.

Forse l’unico cane al mondo ad avere due abitazioni (all’epoca non c’era l’IMU…), una al bar e una a casa nostra, accanto alla legnaia. Questo perché tenerlo legato alla catena equivaleva a torturarlo, e noi comunque non lo volevamo. Macinava chilometri su chilometri in lungo e in largo per il paese, un allenamento che lo aveva reso resistentissimo e duro come il legno. Tutte le macellerie e i negozi di alimentari gli davano qualcosa da mangiare. Particolare degno di nota, non “implorava” il cibo come fanno tutti i cani: se gliene davano bene, altrimenti a lui bastava essere salutato con sorriso e una carezza. Beniamino di tutti i bambini della “Piazza”, ci seguiva in tutte le nostre infinite scorribande di “simpatiche canaglie”. Anzi, ci precedeva. Sì, perché era un ante litteram GPS a quattro zampe, con in testa la mappa completa e dettagliata di strade, viuzze, vicoli, sentieri, scorciatoie di un’area che, tenendo il paese come punto di partenza, si estendeva dai “Piani della Corona” ai Piani dell’Aspromonte nella direttrice mare-montagna (leggenda vuole fino a Gambarie). Una mattina, in terzo liceo, il mio complice di scempiaggini studentesche ‘Ntoni Romano mi chiede di Lucky: “Non lo vedo da ieri”, rispondo. “Non ti preoccupare, quando ho preso l’autobus era in piazza”. Intendeva in piazza davanti a casa sua, a Cosoleto. Fate voi il conto dei chilometri: presidiava un territorio tanto esteso da far invidia a un branco di lupi. E uso il termine presidiare perché ne era veramente il padrone incontrastato. All’epoca, la piaga del randagismo era molto più diffusa di oggi e in paese vagavano parecchi cani, che specie nel periodo della riproduzione giravano riuniti in piccoli gruppi dietro le femmine in calore. Be’, l’avvento di Lucky versione “Luciano” li costrinse a stare sempre in branco. Vedete, il nostro eroe aveva un’agenda fittissima di impegni: quando non era con noi oppure ad oziare al bar, passava il tempo a scappare inseguito dagli altri cani, buscandole se veniva raggiunto fuori dalle zone franche rappresentate appunto dal bar, da casa, dalla Piazza. Il resto della giornata lo passava intento a sorprenderne qualcuno isolato, al massimo in coppia, e massacrarli. Mai più visto un cane così letale in combattimento, una furia devastante. Un solo esempio: dal rione Petto scendeva tutti i giorni un pastore con le pecore, passando davanti al bar per portarle a pascolare nella zona della stazione. I due cani, pastori tedeschi, se non erano lesti a scappare e aspettare il gregge più avanti venivano letteralmente infilati sotto le auto parcheggiate a forza di morsi. Più pericoloso del gangster americano…

Ok, direte voi, abbiamo capito: ma perché “Vallanzasca”? Apro una parentesi per chi ha meno di trent’anni. Renato Vallanzasca, detto “il bel René”: bello e spietato, capo della “banda della Comasina”, condannato complessivamente a 4 ergastoli e 295 anni di carcere, autore negli anni Settanta di rapine, sequestri, omicidi, evasioni rocambolesche. Ecco, l’aspetto che ci interessa riguarda le evasioni. Più volte, soprattutto quando l’accalappiacani comunale veniva incaricato di ripulire le strade dai randagi, Lucky è stato recluso dove aveva la cuccia al bar, in “soggiorno obbligato”. Immancabilmente, evadeva di notte col favore delle tenebre. Reti metalliche, ostacoli di varia natura (mai la catena: ci piangeva il cuore sentirlo guaire senza sosta), niente lo bloccava più di un pomeriggio. Un giorno “zio Pino” mi fa: “Lo vedi com’è tranquillo? Sicuro sta studiando il modo di scappare stanotte!”. La mattina dopo non c’era… Il record massimo di detenzione è stato tre giorni. Avevo curato tutto fin nei minimi dettagli, scappare stavolta era impossibile. Appoggiata alla fine del muro del bar, sul retro, c’era una baracca di legno abbandonata: al mattino del terzo giorno, in un angolo trovammo due assi rosicchiate quanto bastava per passare. Aveva lavorato tutta la notte. Togliemmo le reti e non provammo più a rinchiuderlo. Per finire, come qualunque malvivente che si rispetti odiava ferocemente le forze dell’ordine, abbaiava contro i carabinieri e mordeva le ruote della Campagnola quando si fermavano al bar per il caffè!

Ovviamente, il nostro era un inguaribile tombeur de femmes. E siccome era un possidente, non si limitava a volgari, riprovevoli ingroppate per strada; no, Lucky, se mi passate il termine, era un “gentilcane”, astuto e calcolatore, e le sue conquiste se le portava nottetempo nel loft a casa, meglio ancora in quello al bar per un particolare affatto trascurabile: la cuccia era sotto la pergola di uva fragola all’interno di un cancello, e quasi tutti i rivali in amore erano troppo grossi per attraversarne le sbarre!

Poi, all’età di sei anni, in punta di zampe così come era arrivato, sparì. Era divenuto epilettico in seguito ad un incidente. Stando ai “si dice”, fu attaccato da una torma di cani sopra la pineta comunale durante una crisi. Sempre stando a notizie di seconda e terza mano, fu poi caricato dai netturbini nel camion dei rifiuti, dilaniato dai morsi. A domanda, nessuno seppe allora rispondere con certezza se la carcassa caricata fosse veramente Lucky, non era facile capirlo. Vi sembrerà strano ma nessuno a casa ha pianto. Per noi, ancora adesso, non è morto: da spirito libero qual era, ha preferito andare via senza salutare, evitando così lacrime e tristezze del caso. Quando ne parliamo, mia madre azzarda che fosse letteralmente uno “spirito”, magari di un parente trapassato (in questo caso, basandoci sul suo carattere, un sospetto su chi fosse lo nutriamo…!) che ci ha voluti vegliare ed accompagnare per un tratto di strada. Quale che sia la verità, tonnellate di aneddoti al limite del misterioso ci fanno dire che abbiamo avuto la fortuna di possedere (vocabolo brutto oltreché improprio) Lucky, “il” Cane.

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In alto a sinistra

I libri insegnano ai ricordi, li fanno camminare. Li ho letti per intero, non ne ho lasciato nessuno a mezzo, per quanto fosse deludente o presuntuoso l’ho seguito fino all’ultima linea. Perché è stato bello per me girare la pagina letta e portare lo sguardo in alto a sinistra, dove la storia continuava. Ho girato il foglio sempre alla svelta, per proseguire da quel primo rigo, in alto a sinistra. Questo mi mancherà del mondo…

(Erri De Luca, In alto a sinistra)

In alto a sinistra. Come la pagina di un libro ancora da leggere.

Per fare visita alla tomba del professore Rosario Monterosso, all’interno del cimitero di Bagnara Calabra, occorre dirigersi verso l’area destinata ai defunti della frazione di Pellegrina e percorrere il vialetto che porta alla cappella dell’Annunziata. Proprio in fondo alla stradina, in alto a sinistra, la sua immagine scruta il viandante, con quello sguardo ben noto a chi gli fu amico, allievo o semplice conoscente.
È volato un anno dalla sua ultima lezione.

Un anno di conversazioni mancate: sull’esecutivo delle larghe intese, sul masochismo del partito democratico, sul governo della regione o sulle amministrazioni comunali dei nostri paesi.

Un anno senza i suoi consigli su quel libro di recente pubblicazione o sul saggio storico che avrei dovuto leggere, perché mi sarebbe stato utile per qualche mia ricerca. Recensioni “volanti”, improvvisate appoggiati alla sua macchina, nel cofano qualche piantina per il suo orto acquistata di passaggio da Sant’Eufemia.

Un anno senza il conforto di parole e di idee candide, sorrette dalla sua onestà intellettuale e dall’esempio fulgido della rettitudine.

Un anno di scoperte non condivise, non commentate. Lou Palanca e Katia Colica, gli ultimi lavori di Carmine Abate e Mimmo Gangemi, l’incoraggiante fermento culturale che la nostra martoriata terra riesce ad esprimere.

Sarei andato a trovarlo per portargli il mio libro e per chiedergli di presentarlo. La moglie Anna, aprendo la porta, mi avrebbe indirizzato da lui: “vedi che è qua dietro, nell’orto. Vai”. L’avrei sorpreso nel suo angolo di paradiso, mi avrebbe accolto col suo “sorriso rugoso” e avrebbe accettato.
Come l’altra volta.

È stato un anno così. Un anno senza Rosario Monterosso.

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Inoccupabili e in fuga

Non trovo offensivo il commento del ministro del Lavoro Enrico Giovannini ai dati diffusi dall’Ocse, che confinano gli italiani tra le ultime posizioni nel mondo per competenze necessarie a collocarsi e a muoversi nel mondo del lavoro. “Inoccupabili”, nella versione strong delle sintesi giornalistiche; “poco occupabili”, in quella ufficiale. Ad ogni modo, cambia poco.

Sbagliano coloro che tentano di metterla sul piano della rissa, come se fossimo al “bamboccioni” di Tommaso Padoa-Schioppa: “quelli che non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”, gentaglia che il ministro dell’Economia del secondo governo Prodi suggeriva di mandare “fuori di casa”. Non si tratta neanche dei giovani “choosy” (schizzinosi), incapaci di accontentarsi di un posto di lavoro qualsiasi, secondo l’accusa di Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti in gara con il vice Michel Martone (quello dei fuoricorso “sfigati”) nella particolare competizione tra coloro che dai salotti di esclusivissimi circoli guardano i comuni mortali con schifato senso di superiorità.
La “monotonia” del posto fisso (Mario Monti); i ragazzi da fare uscire di casa a diciotto anni, “per legge” (Renato Brunetta); i lavoratori precari “Italia peggiore” (ancora l’attuale capogruppo Pdl alla camera dei deputati). In questi casi sì che c’era l’offesa, perché chi ha pronunciato quelle frasi fa parte di un sistema fondato sulla disparità delle opportunità. Non a caso, si trattava di fustigatori da cattedra universitaria. Non bisogna essere dei segugi per fiutare l’odore di casta: basta scorrere gli elenchi di associati, ordinari, ricercatori, ma anche amministrativi delle università italiane per scoprire (si fa per dire) la frequenza di certi cognomi. Alla Sapienza di Roma, tanto per ripetere una celebre battuta, c’è un vero e proprio “convento di Frati”: e non sono monaci. D’altronde, qualche “figlio di” ha dato anche una interpretazione genetica: “i figli dei professori universitari vincono i concorsi perché sono più portati a quel tipo di lavoro”. Così come, completerei il concetto, i figli dei generali sono più portati ad avere una carriera nell’esercito e i figli dei medici o dei notai seguono quasi naturalmente le orme dei genitori. Sono più portati. Facciamocene una ragione.

Ecco, queste avventate dichiarazioni al tempo sollevarono, a ragione, un vespaio di polemiche per l’arroganza che trasudavano. Ma sul rapporto dell’Ocse c’è poco da argomentare. La verità non è mai offensiva. E la verità è che, in Italia, istruzione, università e formazione non facilitano per niente l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Perché istruzione e lavoro, da noi, sono due mondi che non si parlano. Scuola e università sono per lo più parcheggi che alla fine rilasciano un inutile pezzo di carta. Non spendibile, perché il mercato del lavoro non sa che farsene (tanto per dirne una) di un esercito di laureati in discipline umanistiche. L’Italia è ormai un paese di laureati, addottorati, pluripossessori di attestati di corsi di formazione professionale. E di disoccupati incazzati.

Il sistema è bloccato e chiuso dall’interno, dove pochi privilegiati cercano di resistere all’assalto congiunto del padronato e delle orde di disoccupati o lavoratori senza alcuna tutela che premono dall’esterno. Per entrarvi bisogna conoscere chi detiene la chiave. Avere un gancio all’interno, fare la fila dietro la porta del politico giusto, scendere a compromessi con la criminalità organizzata. Di certo, la chiave, non ce l’hanno i centri per l’impiego: gli ultimi dati disponibili (relativi al 2011) assegnano infatti ai Cpi la miseria del 3,9% delle intermediazioni tra domande e offerte di lavoro. Né regge la mezza balla del “bisogna osare”: trovate una banca disposta a sostenere l’iniziativa di chi non ha garanzie da offrire in cambio di un mutuo o di un prestito, e poi ne riparliamo.

La disputa sugli “inoccupabili” è fuorviante, sposta l’attenzione dai fatti alle parole. Parole come un disco rotto. Quando condannano, quando giustificano, quando interpretano, quando addirittura esaltano. Soprattutto al Sud. Soprattutto da noi. Gli spot sul paradiso calabrese lasciamoli agli uffici stampa. Un paradiso talmente accattivante da provocare un esodo biblico, un’emorragia di freschezza e competenze ogni giorno più drammatica. Riscattata appena dalla lotta quotidiana di chi si ostina a cercare un motivo qualsiasi per non scappare. Una battaglia sempre più dura, sempre più amara. Fino a quando la misura non sarà colma. Fino a quando non si alzeranno le vele.

Allora saranno lacrime di dispetto. Asciutte. E orecchie tappate per respingere il canto delle sirene: “non partire, resta qua”. Sarà strapparsi il cuore e interrarlo in qualche sperduto rittano dell’Aspromonte.

Questo sarà.

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Nei loro occhi, la nostra storia

Cosa resterà di queste giornate di dolore, rabbia e parole? Quando le luci si abbasseranno e il sipario calerà sul sangue di Lampedusa, cosa avremo imparato da questa immane tragedia? Che è una “vergogna”, come tutti – ma proprio tutti, anche quelli che forse avrebbero fatto meglio a tacere – si sono affannati a concordare con papa Francesco? E che sì, è una vergogna: un po’ di indignazione e lacrime che presto asciugheranno, il tanto che basta per salvare le nostre coscienze di occidentali distratti?

Certo, molto è stato detto. L’Europa che pensa di scaricare sull’Italia il dramma dei migranti, la Bossi-Fini, il reato di clandestinità, il diritto di asilo e le regole sull’accoglienza dei naufraghi. L’assurdità di norme che condannano per favoreggiamento i pescatori in soccorso ai barconi abbandonati al largo con il loro carico di disperazione. L’atroce beffa toccata ai sopravvissuti, denunciati (“atto dovuto”) per immigrazione clandestina. Le condizioni drammatiche dei centri di accoglienza a Lampedusa e altrove, sovraffollati e invivibili nonostante l’umanità di operatori, volontari, cittadinanza, forze dell’ordine.

Tutto vero, tutto giusto. Tutto inutile se la questione dei migranti, da emergenza sociale e culturale, sarà sempre derubricata a problema di ordine pubblico. Perché, in quel caso, basterà stringere un patto con i paesi da cui salpano i pescherecci e il problema sarà risolto a monte. E pazienza se le violazioni su migranti e rifugiati politici in alcuni paesi sono all’ordine del giorno. Pazienza se la soluzione trasforma in cimiteri le strade che dal centro-Africa portano al Mediterraneo, come documentò qualche anno fa il giornalista Fabrizio Gatti in un reportage sulla fine che facevano gli immigrati respinti e restituiti alla Libia sulla base dell’accordo stretto tra Berlusconi e Gheddafi nel 2008.
Lampedusa è la punta dell’iceberg. Il trailer di un dramma dalle proporzioni inimmaginabili, con protagonista un’umanità dolente e in fuga da guerre e carestie che muore mentre lotta per attraversare il deserto del Sahara, o mentre sfida le onde del mare su legni di fortuna. Stragi di cui niente si sa, fino a quando non accadono a poche centinaia di metri dalle nostre coste. Cifre di una macabra contabilità da aggiornare quotidianamente.

Numeri che hanno un volto. Lo stesso volto dei nostri nonni e bisnonni affondati sul “Sirio” nel 1906; morti di colera, febbre gialla o tubercolosi nel girone dantesco di Ellis Island; assiderati sul confine francese, mentre tentavano di valicare clandestinamente le Alpi: “quando gli albanesi eravamo noi”, per dirla con il sottotitolo di L’orda, il libro che nel 2002 Gian Antonio Stella dedicò al nonno “Toni ‘Cajo’, che mangiò pane e disprezzo in Prussia e in Ungheria e sarebbe schifato dagli smemorati che sputano oggi su quelli come lui”. Dagos da linciare e impiccare ai lampioni delle strade, come successe nel 1891 a undici siciliani ingiustamente accusati di avere ucciso un poliziotto a New Orleans.

Pagine che andrebbero distribuite nelle scuole, con invito ai ragazzi di portarle a casa e farle leggere a quei genitori che non ne possono più di “tutti questi stranieri che vengono in Italia a rubare, spacciare e stuprare”. Affinché negli occhi impauriti dei naufraghi sopravvissuti riescano finalmente a scorgere un volto familiare; nella loro odissea, la nostra storia; nella negazione dei loro diritti, le nostre lotte per avere riconosciuta dignità di uomini.

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Finale di partita

Quando, mille anni fa, Gianfranco Fini (chi era costui?) pronunciò il memorabile “siamo alle comiche finali”, lo fece da inguaribile ottimista. E per la sua vicenda personale, marchiata dalla condanna all’irrilevanza politica che si abbatte su chiunque nel centrodestra entra in rotta di collisione con Berlusconi; e per la situazione politica generale, slittata pericolosamente in uno scenario da tragedia greca.

Non per i morsi della crisi economica, ogni giorno più forti, come attesta il drammatico dato della disoccupazione giovanile, che ad agosto per la prima volta ha sfondato il muro del 40%. La tragedia cui si fa riferimento è quella di un uomo asserragliato nel bunker di Arcore, ostaggio dei falchi del partito, costretto nel vicolo cieco della logica del “tanto peggio, tanto meglio”, o del “muoia Sansone con tutti i filistei”. Attorno, soltanto nemici: l’ultimo, in ordine di tempo, il presidente della Repubblica, al quale non più tardi di cinque mesi fa il centrodestra chiese in ginocchio di restare al Quirinale per un secondo mandato. O traditori, secondo l’antico schema applicato a Casini, Follini e Fini. Un vestito che oggi a fatica e soltanto ricorrendo a una buona dose di fantasia si riesce a fare indossare a un Cicchitto o ad un Alfano.

Ma tant’è: risultato scontato se a passare è la linea dura di Verdini, Bondi, Santanchè e Ghedini, sposata e imposta senza alcun dibattito a un esercito di nominati. E fa sorridere l’uscita di Cicchitto sulla mancanza di democrazia interna in Forza Italia (“Berlusconi avrebbe bisogno di un partito democratico nella sua vita interna”), come se in vent’anni, da quelle parti, vi sia mai stata collegialità nelle decisioni e non, piuttosto, un pedissequo allineamento ai desiderata del capo.
Un gioco al massacro, quindi, per spingere il Paese nel gorgo e che non inciderà per niente sull’epilogo – ormai segnato – della vicenda giudiziaria di Berlusconi.
Chi può mai credere alla favoletta del governo caduto sui provvedimenti economici, nonostante il refrain intonato dalle televisioni e dai giornali di Berlusconi? Al solito, sono i guai con la giustizia il vero problema. La questione della decadenza da parlamentare, non appena diventerà esecutiva la sentenza che ridefinirà i termini dell’interdizione dai pubblici uffici. E che Berlusconi vorrebbe scongiurare facendo saltare il banco per portare gli italiani ad elezioni entro la fine di novembre. Con tempi talmente stretti da fare indovinare una strada difficilmente percorribile.
Ma a destare ulteriore preoccupazione sono le nubi minacciose in arrivo dagli altri fronti giudiziari, con condanne e richieste di arresto che Ghedini dà per scontate e che sarebbero all’origine della disperata e istintiva reazione dell’ex premier.

Indro Montanelli, che lo conosceva bene, predisse che l’Italia di Berlusconi sarebbe finita “male, malissimo: nella vergogna e nella corruzione”, aggiungendo che, a quel punto, sarebbe stato “inutile avere ragione”. La sensazione è che andrà a finire proprio così.

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Quella volta che i pettoti “rubarono” la statua di Sant’Eufemia

“Sa rrobbaru. Sa tinniru e non cia tornaru”. Quante volte l’abbiamo ascoltata (credendoci o scherzandoci su) la storia della statua di Sant’Eufemia “sottratta” dagli abitanti del rione Petto ai “legittimi” proprietari del Vecchio Abitato (o Paese Vecchio)?

Una leggenda metropolitana che affonda le radici nella notte dei tempi, ma che – come tutte le leggende – ha un fondo di verità.

In tanti sosterranno che si tratta di realtà, non di leggenda. Come un mantra ripeteranno antichissimi racconti, tramandati da padre in figlio e giunti freschi ai nostri giorni, carburante ancora buono per alimentare il sacro fuoco dei campanilismi. Che sono almeno tre, coincidente ognuno con un momento cruciale della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Snodi storici che videro protagonista la furia degli elementi più che la volontà degli uomini. Perché spesso soltanto gli eventi naturali sono in grado di deviare il corso di una storia che altrimenti scivolerebbe su prevedibilissime rotaie.

Per ogni rione, una campana e un migliaio di campanari. Com’è giusto che sia nella patria di Guicciardini.

Il primo campanile lo troviamo al Paese Vecchio, che fino al diciannovesimo secolo costituì il centro abitato di Sant’Eufemia. Proprio nell’area occupata dall’attuale piazza Concordia, anticamente, sorgeva il monastero di Sant’Eufemia, sui cui resti in seguito fu edificata la chiesa di Sant’Eufemia o chiesa Matrice, che viene segnalata – insieme ad altre tre chiese: San Rocco, San Giovanni, Santa Maria delle Grazie – nel resoconto della visita pastorale del 1586, il più antico a noi pervenuto.

Il terremoto del 5 febbraio 1783 (“u fracellu”), che provocò un migliaio di vittime e la distruzione di gran parte del paese, rappresenta la prima cesura storica significativa. Il progetto di ricostruzione realizzò un nuovo insediamento urbano nel pianoro del “Petto del Principe”, posto più in alto rispetto al vecchio centro. E proprio nell’attigua “Vigna di Belvedere”, che era grangia (per semplificazione, azienda agricola) del monastero di San Bartolomeo di Trigona, si trovava il baraccone nel quale si ritirarono i monaci sopravvissuti al terribile sisma. Lì sorse una chiesa dedicata alla protettrice (mentre la vecchia chiesa Matrice assunse l’attuale denominazione di chiesa del SS. Rosario), che nel 1856 fu riconosciuta come seconda chiesa parrocchiale di Sant’Eufemia, la prima essendo quella dedicata a Santa Maria delle Grazie.

Ma una ulteriore “mutilazione” gli abitanti del Paese Vecchio l’avrebbero subita in seguito al terremoto del 28 dicembre 1908. Poco meno di seicento vittime e duemila persone costrette a trasferirsi nella Pezza Grande (o Pezzagrande), dopo che finalmente fu raggiunto un compromesso tra i fautori della riedificazione nel Paese Vecchio e i propugnatori di una ricostruzione nel nuovo sito, fino ad allora aperta campagna. Protagonista dell’accordo fu il deputato reggino Giuseppe De Nava, il quale si fece garante della revisione della legge sulla definizione delle aree edificabili: ciò comportò l’edificazione del paese nell’area della Pezzagrande, ma anche la deroga al divieto di ricostruire nell’area del Vecchio Abitato.

Sono i due terremoti a cambiare il volto di Sant’Eufemia. E con esso, lentamente, la sua stessa natura e ragione d’essere. Due nuovi rioni, due nuovi campanili. E rivalità che attraversano la storia cittadina come un fiume carsico, presentando – periodicamente – la caratteristica di una inutile e anacronistica contrapposizione: a volte simpatica, certo; ma il più delle volte insopportabile.

La storiella del “furto” della statua di Sant’Eufemia fa parte di questo armamentario campanilistico. Proprio per questo viene raccontata con “dovizia” di particolari: il 16 settembre di un anno imprecisato, la processione partita dal Paese Vecchio sarebbe stata interrotta da un violento temporale che costrinse i fedeli a trovare riparo all’interno della chiesa al Petto, la quale – trascorse ventiquattro ore e sulla base di una legge non meglio specificata – sarebbe diventata ipso facto la nuova dimora della sacra effigie.

Un racconto incredibile, eppure creduto. È evidente, invece, che il trasferimento del culto nella nuova chiesa, dopo il 1783, dovette comportare anche il traslocamento della statua. Come peraltro afferma Vincenzo Francesco Luzzi nel suo contribuito (La comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna) al convegno storico su Sant’Eufemia d’Aspromonte organizzato dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio” nel 1990, i cui atti furono pubblicati a cura di Sandro Leanza, sette anni dopo.

È evidente, dicevamo. Ma non per tutti, se ancora una quindicina d’anni fa non pochi “fedeli” avrebbero voluto custodire la statua di Sant’Eufemia in un’abitazione privata invece di trasferirla temporaneamente presso la chiesa di Sant’Ambrogio, nella Pezzagrande, per la durata dei lavori di restauro che interessarono la chiesa al Petto. Perché poi, passate le ventiquattro ore, poteva accadere di tutto.
E invece non successe nulla.

*Nella foto, tratta dal profilo Facebook di Antonio Saccà, la spettacolare “entrata” di Sant’Eufemia sotto un tunnel di fuochi pirotecnici

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La grande fuga di Mario

In questi giorni, su L’Ora della Calabria, si è sviluppato un dibattito innescato dal corsivo di Francesco Ferro, pubblicato il 31 agosto: “Una terra senza futuro. Non resta che scappare”. Il quotidiano diretto da Piero Sansonetti ha poi ospitato le testimonianze di alcuni calabresi emigrati, mentre Aldo Varano, direttore di Zoomsud.it, è intervenuto con l’editoriale “Calabria. La grande fuga di chi può alla ricerca di un’altra vita”.

Avendo in casa la possibilità di una testimonianza diretta, ho chiesto a mio fratello Mario (che vive a Londra da sedici anni) di raccontare la sua esperienza. Ciò che salta agli occhi è il confronto tra una realtà che offre delle opportunità, beninteso senza regalare niente (si pensi alle periodiche valutazioni alle quali è sottoposto il lavoratore), e un’altra che non dà a tutti le stesse possibilità. Per cui l’ingresso nel mondo del lavoro è un sei al superenalotto o un umiliante questuare davanti alla porta di chi può fare il miracolo. Senza girarci troppo attorno, dalle nostre parti politica o criminalità organizzata.

(D. F.)

Da bambino, la mia materia preferita era la geografia, e l’Atlante Mondadori il volume al quale ero più legato. Mi affascinavano le mappe e le foto di quei luoghi lontani e sconosciuti. Sognavo di andarci in quei posti, visitarli tutti per poi poter dire – alla fine dei miei giorni – che sì, il mondo è stato veramente la mia ostrica.

Col senno di poi, penso che la voglia di viaggiare ed evadere, scoprire, capire e vivere a contatto con diverse culture mi abbia salvato da un’esistenza grigia e da una realtà, quella calabrese (che poi è un riflesso di quella italiana), che a me è stata sempre stretta.

Ricordo che mentre i miei compagni di liceo si chiedevano che facoltà universitaria scegliere una volta raggiunta la maturità, io pianificavo la fuga, una fuga a tutti i costi. Ero incoraggiato dalla mia professoressa di italiano, la quale spesso – dopo avermi dato del fetente e del lavativo – mi diceva che avevo il potenziale ed il cervello per riuscire in qualsiasi cosa avessi deciso di fare.

La mia prima esperienza lavorativa in Italia sono stati quindici mesi nell’esercito italiano: sottotenente ufficiale di complemento. Mi ero arruolato per denaro. Avevo 20 anni e lo stipendio mi procurò quella indipendenza economica alla quale, in seguito, non avrei saputo più rinunciare. Oltre ad essere valsa il titolo di Nobiluomo a vita (e che mio fratello il dottore schiatti di invidia!), quell’esperienza mi convinse che chiedere favori e raccomandazioni non fa per me. Inizialmente ero stato infatti scartato alla visita medica ma poi, con una telefonata, il mio torace si sviluppò magicamente di 5 centimetri! Superai la visita, ma mi sentì sporco.

Una volta congedato, spesi otto mesi a Palermo, giusto il tempo per verificare che l’Università non era il mio forte. All’insaputa dei miei, dopo aver risposto all’annuncio letto su un giornale, mi trasferii a Milano, dove trascorsi tre mesi facendo il porta a porta per i prodotti più impensabili.

Un giorno lessi un articolo sull’Inghilterra. Il pezzo parlava di come fosse facile trovarvi lavoro ed anche imparare la lingua. Con gli ultimi risparmi, due giorni dopo comprai un biglietto per Londra. Avevo 22 anni. Non avevo mai preso un aereo in vita mia, a parte quello che mi aveva portato dall’Australia in Italia, a neanche tre anni. Ricordo che a bordo non chiesi nemmeno un bicchiere d’acqua e rifiutai il cibo che mi offrirono. Avevo paura che mi chiedessero il conto. Arrivai a Londra il 16 giugno 1997, con in tasca i soldi per pagare la stanza di un ostello per due settimane (da dividere con tre estranei), quattro sterline e TANTA fame. Trovai lavoro in un McDonalds due giorni dopo. Una manna: mangiavo gratis per 8 ore al giorno!

Londra non l’ho più lasciata. Ho cambiato occupazione mano a mano che il mio inglese è migliorato. Negli anni ho lavorato in vari bar, ottenendo promozioni e arrivando persino a dirigerne uno. Per tre anni sono stato consulente bancario per una multinazionale del calibro di HSBC, per altri due agente della Polizia metropolitana londinese. Ora lavoro come steward di volo per la Virgin Atlantic, un’occupazione che settimanalmente mi porta in giro per il mondo, facendomi rivivere i miei sogni di bambino.

Mi ritengo fortunato, perché so che ogni volta tutto dipende dalle mie forze. Questo vuol dire vivere in una realtà meritocratica. Qui non si chiedono favori, a nessuno. Ci si prepara e ci si presenta ai colloqui. Punto. Il lavoro te lo offrono se sei qualificato, o se individuano in te del potenziale.

In banca ero stato assunto nonostante i miei stiracchiati 42/60 di maturità scientifica, dopo tre settimane di training retribuite (!): alla fine del periodo di formazione mi fu offerto un posto in prova e, dopo sei mesi di valutazioni mensili, un contratto a tempo indeterminato. Quando ho realizzato che avrei voluto fare altro, ho lasciato quel lavoro: chi, in Italia, abbandonerebbe un posto in banca?

Negli anni mi sono lasciato alle spalle tre contratti a tempo indeterminato, e non ho mai avuto paura di non riuscire a trovarne un altro. Londra mi ha insegnato che il lavoro attuale serve per migliorarsi e creare delle opportunità per il lavoro successivo, e poi per il prossimo ancora. Così ci si costruisce un curriculum ed una carriera, e magari un giorno ci si sveglia con la sensazione di stare vivendo, e non soltanto sopravvivendo.

A distanza di sedici anni e dopo aver acquistato un appartamento, Londra è diventata la mia casa e Sant’Eufemia il paese in cui sono cresciuto. Va bene così.

Talvolta mi mancano i sapori e gli affetti, ma non ho rimpianti. Se fossi rimasto in Calabria sarei vissuto solo a metà, o forse neanche.

Sono contento per chi è in pace. Soprattutto ammiro e rispetto chi ha avuto il coraggio di rimanere e lottare in una realtà che offre poco o niente. Chissà, anche se non sembra, forse io ho scelto la strada in discesa. Ho solo un’amara certezza: la tristezza che provo per chi è rimasto ed ha lasciato che la nostra terra divorasse tutto, non solo talento ed ambizioni, ma con il tempo anche i sogni.

Mario Forgione

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La Costituzione nel cassonetto della differenziata

Molti ricorderanno l’appello “Un libro per Lampedusa”, lanciato a fine luglio dal sindaco dell’isola delle Pelagie Giusi Nicolini e ispirato da un’amara constatazione: “Lampedusa non ha una biblioteca e neppure un negozio dove potere acquistare libri. Voi ci vivreste mai in una città dove non è possibile comprare libri? Io non ci credo! Quindi se in giro per casa avete libri, di qualsiasi genere, che non leggete o avete già letto e di cui volete sbarazzarvi, aderite all’iniziativa”.

Grazie al tam tam su Facebook e Twitter, all’iniziativa aderirono sin da subito centinaia di cittadini privati, associazioni, case editrici, università ed enti pubblici. Una partecipazione massiccia, che l’ultimo aggiornamento quantifica in oltre 400 scatole, contenenti migliaia di libri, già arrivate sull’isola.

Dicevamo, molti ricorderanno questa bella iniziativa.

Di sicuro, non ne era a conoscenza chi ha riempito il cassonetto della differenziata per la carta, posizionato davanti alla Pineta comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, con vecchi libri “sfrattati” dalla confinante scuola elementare “Don Bosco”.

A una prima sbirciata si tratta per lo più di vecchi testi didattici, ma dalla piccola fessura si intravede anche qualche libro per ragazzi. Per cui – anche a ignorare la lodevole iniziativa di Lampedusa – sarebbe stata cosa buona e giusta fare un sondaggio e, eventualmente, donare alla biblioteca comunale i volumi di una qualche utilità. Come quello che faceva capolino dalla fessura, una pubblicazione distribuita dal ministero della Pubblica Istruzione agli alunni in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia (Figure ed episodi del Risorgimento italiano), che ho subito riconosciuto perché nella mia biblioteca conservo la copia data nel 1961 alla bimba che dodici anni dopo mi avrebbe messo al mondo.

Non ce l’ho fatta: ho tirato fuori il volume e l’ho regalato a un mio amico. In appendice al libro c’è il testo della Costituzione italiana, che già soffre parecchio e non merita certo ulteriori umiliazioni.

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Il diritto alla difesa di Berlusconi

Una considerazione sull’uscita di Violante a proposito del diritto alla difesa che “dovrebbe” essere garantito a Berlusconi. Perché credo che Berlusconi si è difeso, eccome se si è difeso. “Nel” processo e soprattutto “dal” processo. Nei tribunali, certo. Ma ancor più in Parlamento, dove gli avvocati dell’ex premier hanno dimostrato di sudarsi la pagnotta spendendosi senza tregua in favore del loro assistito.
Un lavoro da sarti del diritto: allunga di qua, accorcia di là. Ma anche abili giochi di prestigio che hanno trasformato in condotta specchiata ciò che fino a qualche tempo prima rappresentava una violazione del codice penale.

Ora si è di nuovo nella fase estensiva, per così dire. Prendere tempo, per evitare che la Giunta per le elezioni del Senato debba esprimersi sulla decadenza di Berlusconi prima che la Corte d’Appello di Milano quantifichi nuovamente la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.
La storia del diritto alla difesa, ovvero del diritto alla difesa “ad oltranza”, in barba a qualsiasi condanna definitiva, mi ricorda le partite di calcio che da ragazzini disputavamo in piazza. A volte, non c’era un orario prestabilito, né veniva definito “a quanto” si dovesse arrivare: a cinque, a dieci reti, e così via.

No, niente di tutto ciò. Se la mia squadra era sotto, si giocava fino a remuntada completata. Anche a costo di fare notte.

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A.C. Eufemiese – 1980

Una formazione dell’Eufemiese scattata intorno al 1980, quando la squadra militava in Seconda categoria ed era composta quasi esclusivamente da giocatori di Sant’Eufemia.
Presidente, il compianto Peppe Surace, il quale per molti anni ha conservato la fotografia nel salone da barbiere di corso Vittorio Veneto che gestiva insieme a Nino Pillari, anch’egli purtroppo prematuramente scomparso.
“U saluni da chiazza” è stato per decenni un angolo caratteristico di Sant’Eufemia, teatro di aneddoti spesso incredibili con protagonisti personaggi della più svariata natura.
Un “luogo” che oggi ci manca, come tante altre testimonianze di una Sant’Eufemia più genuina e ricca di umanità.
Da sinistra, in piedi: Mimmo Gentiluomo, Peppe Surace (presidente), Nicola Tripodi, Salvatore Gerocarne, Antonio Pangallo, Massimo Garzo, Antonio Panuccio, non identificato, Pino Pellegrino, Vincenzo Villari (custode del campo), Raffaele Tripodi (allenatore), Franco Sgrò (dirigente), Vincenzo Tripodi (segretario).
Accovacciati: Mimì Tripodi, Enzo Luppino, Mimmo Cammarere, Mimmo Mileto, Alfonso Pellegrino, Mimmo Nolgo, Nicola Creazzo.

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