Hooligans a cinque stelle

Non è moralismo condannare senza equivoche strizzatine d’occhio la violenza verbale dei grillini e il loro determinante e sistematico contributo all’imbarbarimento del dibattito politico. “Napolitano boia”, “boia chi molla”, tagliole e fischietti, il tentativo di aggredire fisicamente Laura Boldrini, “non torneremo in Aula pacificamente”, il Parlamento trasformato nella peggiore curva da stadio. Atteggiamenti irresponsabili e pericolosi. Perché nel “gioco” democratico, la forma diventa sostanza, specialmente nelle sedi istituzionali, luoghi “sacri” che non conoscono stanche liturgie, per usare una terminologia storicamente cara a chi, qui o altrove, ha sempre puntato a fare saltare il banco.

Nella House of Commons ai parlamentari inglesi non è consentito oltrepassare la linea tracciata sul tappeto di fronte ai propri banchi, né parlare direttamente ai colleghi, ai quali occorre invece rivolgersi in terza persona. Stranezze d’Oltremanica? No, regole della più antica democrazia parlamentare del mondo, solida anche per questi “dettagli” apparentemente formali.
Ancora: impedire di rilasciare dichiarazioni al capogruppo del partito democratico Roberto Speranza è squadrismo. Chi minimizza la violenza dell’azione dei cinquestelle si assume la responsabilità di avallare pericolosamente lo spostamento in avanti del limite oltre il quale la convivenza civile viene messa a repentaglio. E spostando spostando, per dirla alla Calamandrei, ci si ritrova senz’aria.
Sul piano concreto dell’azione politica, è bastato un anno di Parlamento per svelare il trucco della protesta grillina, che è essenzialmente una pratica onanistica.
Non è un caso che la tensione abbia raggiunto l’acme proprio nei giorni in cui si va profilando l’accordo su legge elettorale e riforma dello Stato. Che personalmente non apprezzo: ma il poco, alla fine, è meglio del niente, soprattutto quando la contrapposizione ha come esito la paralisi. All’ordine dato dall’approvazione di norme condivise dalla maggioranza delle forze politiche, i pentastellati contrappongo il disordine della bagarre. Perché sono stati costretti ad inseguire e perché sono in difficoltà quando gli altri “fanno”, pur con i limiti da molti evidenziati.
Respinto al mittente ogni invito a collaborare nella stesura delle riforme, per il movimento di Grillo e Casaleggio diventa strada obbligata il disco rotto “VE NE DOVETE ANDARE!”. Più che una linea politica, l’alibi per nascondere la propria inconcludenza.

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Piccoli comuni e rappresentanza nel ddl Delrio

L’atmosfera da guerra santa contro gli sprechi dei partiti e delle istituzioni rende impopolari considerazioni che non si concludano con il sacro richiamo alla cesoia. D’altronde, il vaso di Pandora scoperchiato da giornali e magistratura giustifica il crucifige urlato quotidianamente dalle Alpi alla Trinacria. La parola d’ordine è “tagliare i costi”. Un mantra, salvo poche eccezioni.

Massimo Acquaro osserva su Zoomsud che “l’assottigliamento della rappresentanza politica non è un bene in sé, al di là della facile demagogia contro la casta ed i suoi costi”. Il tema dell’articolo, spinosissimo, è quello della riduzione del numero dei consiglieri regionali in Calabria, che il governo Monti ha fissato a trenta e che il consiglio regionale, con un gesto di sfida, ha elevato a quaranta. Sulla questione, per l’11 febbraio è attesa la decisione della Corte Costituzionale.

Altra panacea di tutti i mali, l’abolizione delle province: per ragioni storico-politiche, preferirei l’abolizione delle regioni e il mantenimento delle province (ma questo è altro discorso). Sul disegno di legge “Delrio” (“Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle Unioni e fusioni di Comuni”), approvato dalla Camera il 21 dicembre 2013 (AC 1542) e attualmente in corso di esame nella Commissione “Affari costituzionali” del Senato (AS 1212) pende il parere negativo della Corte dei Conti, in quanto la riforma non rispetterebbe i criteri della “spending review”. Un giudizio accolto con favore dai sostenitori del mantenimento dell’ente intermedio, che però non dovrebbe impedire l’approvazione di un provvedimento per la verità poco chiaro proprio per quanto riguarda abolizione delle province, istituzione delle città metropolitane e ripartizione delle funzioni. Il ddl approvato dalla Camera assorbe infatti tre distinti atti: l’AC 1408, “disposizioni concernenti la composizione dei consigli provinciali e disciplina dell’elezione del presidente della provincia e del consiglio provinciale”; l’AC 1737, “modifiche al testo delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (…) e altre disposizioni concernenti i comuni di minore dimensione demografica, l’esercizio associato delle loro funzioni, nonché le unioni di comuni e la funzione dei medesimi”; l’AC 1854, “disposizioni transitorie in materia di province e città metropolitane”.

A mio avviso è invece una buona notizia, non un cedimento a interessi di parte, l’accoglimento delle proposte avanzate dall’Uncem in ordine alla rappresentanza dei piccoli comuni sintetizzate dall’emendamento “ripristina democrazia” confluito nell’articolo 21 del ddl, che stabilisce l’ampliamento dei consigli comunali: oltre al sindaco, dodici consiglieri e quattro assessori nei comuni compresi tra 3.000 e 10.000 abitanti; dieci consiglieri e due assessori nei comuni fino a 3.000 abitanti. Una sconfessione della furia iconoclasta dei governi Berlusconi (legge 42 del 26 marzo 2010) e Monti (dl 138 del 13 agosto 2011) che produsse il taglio o l’eliminazione degli assessori (abolizione delle giunte comunali nei comuni inferiori a 1.000 abitanti) e profonde sforbiciate alla composizione dei consigli comunali. Per citare l’esempio che riguarda Sant’Eufemia e i comuni con popolazione compresa tra 3.000 e 5.000 abitanti, la riduzione (da sedici) prima a dodici, poi a sette, del numero dei consiglieri comunali.

Il sale della democrazia è la partecipazione. Il male, la compressione della rappresentanza di persone, interessi e territori. Compito della politica è impedire che nel lavandino finiscano il bambino (rappresentatività) e l’acqua sporca (sprechi e privilegi).

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Peppe, un buono

È morta una persona buona. Non servono giri di parole. Bastava leggere la commozione negli occhi di chi neanche respirava mentre il carro funebre faceva il suo ingresso nel camposanto.
Si fanno filosofie, sulla vita e sulla morte. E poi scopriamo, sempre, che è tutto molto più semplice dei nostri ragionamenti. Perché i sentimenti hanno una vita propria, erompono con la forza della verità. E la verità è che Peppe Panuccio era una persona semplice, che amava e che per questo era amata. La morte è una rivelazione, mette in chiaro tutto.

Non doveva finire così. Ma forse ha ragione uno dei suoi cinque figli quando dice che la montagna, che Peppe adorava, l’ha chiamato a sé. Incidente sul lavoro, ennesima “morte bianca” di questa guerra che quotidianamente miete vittime innocenti nei cantieri. E proviamo dolore autentico, amarezza per questa vita spezzata a 56 anni. Per questo lavoratore onesto e instancabile.
Non è una frase di circostanza: “era un grande lavoratore”. Non è retorica perché la sua vita “era” il lavoro. Madre natura aveva donato a Peppe la forza di un toro, due braccia possenti e un cuore d’oro. La sua lotta quotidiana e dignitosa per un pezzo di pane è il riscatto di chi non ha niente, ma non per questo si piange addosso. È l’esempio davanti al quale inchinarsi, riverenti.

Tra di noi abbiamo ricordato quando, prima dell’arrivo del muletto, scaricava i tir della concime portando sulle spalle fino a tre sacchi da mezzo quintale; quella volta che sollevò una Fiat 127 e la spinse in avanti come una carriola; quell’altra che sfondò il tavolino nello sforzo finale e vincente di un braccio di ferro; tutte le serate in piazza, alla fine della festa della Madonna del Carmine o di qualche manifestazione dell’associazione Sant’Ambrogio: attorno a una panchina, lui con l’organetto e Mimmo Comandè con il tamburello, e via di tarantella, la sua grande passione.

Ma Peppe non era solo questo. Peppe era la sensibilità di chi si commuove fino alle lacrime di fronte all’ingiustizia e alla sopraffazione, era la consapevolezza di chi sa che il rancore e la vendetta non portano da nessuna parte, anche se ti ammazzano il padre per un bicchiere di vino quando sei ancora in fasce, costringendoti a un’infanzia di stenti.
Era quella frase che ripeteva spesso e che ora, nella sua disarmante semplicità, diventa insegnamento: “ndamu a voliri beni”, dobbiamo volerci bene.

*Un ringraziamento a Filippo Lombardo per la gentile concessione della fotografia

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Reggio è un blues

Reggio, “per noi che stiamo in fondo alla campagna”, è il terminale di un cantiere sempiterno, il luogo in cui si arriva o dal quale si parte, ospedali, un gelato sul lungomare, le vetrine del corso, i film al cinema, l’impossibilità di trovare un parcheggio. Non riusciamo a definirla una volta per tutte, perché tende a sfuggirci e perché una diffidenza reciproca crea distanze e pregiudizi.

Soltanto l’epopea della Reggina in serie A è riuscita a farci sentire un unico popolo. Per il resto, noi della provincia siamo quelli che vengono a Reggio e fanno casino: il volume della radio anticipa il nostro arrivo, rimbomba talmente forte dentro gli abitacoli che ci impedisce di ascoltare l’anima più profonda della città. E se anche ci riuscissimo, non capiremmo. Perché noi siamo spremuntari. Voi invece avete la puzza sotto il naso e non ci date confidenza, però per una cassa di patate o una pezza di formaggio vendereste anche le vostre madri. Perché siete riggitani, che è cosa ben diversa dall’essere “reggini”. Stereotipi, naturalmente: durissimi da estirpare.
Per comprendere una città, bisogna farsela raccontare da chi la ama, anche quando è dispettosa o, addirittura, fedifraga.
Di Reggio “bella e dannata” è intrisa ogni parola di Antonio Calabrò, scrittore e punta di diamante del giornale online “ZoomSud”, sul quale negli ultimi due anni sono apparse le trenta storie di Reggio è un blues (Disoblio edizioni).

Amare non significa essere ciechi o nascondere la realtà. Amare significa non arrendersi al declino e al facile qualunquismo, grattare la storia per togliere la polvere dell’oblio da fatti, sentimenti, uomini e donne, trarre insegnamento da vicende minime ma emblematiche. Un lavoro che è una dichiarazione d’amore sia quando Calabrò, da “indagatore della storia”, riporta alla luce vicende dimenticate o sconosciute: il corteo antifascista in piena crisi Matteotti, alla diffusione della falsa notizia della caduta di Mussolini; l’episodio dell’affondamento dell’incrociatore “Pola” al largo di Capo Matapan, nel 1941; il racconto picaresco di Antonio “Gabba Dio” e l’irriverente aneddoto con protagonista Riccardo Cuor di Leone, il “re ladro di polli” . Sia quando usa l’arma dell’ironia per mettere in guardia del gorgo che ci sta risucchiando: siamo più soli e più arrabbiati, in un mondo dominato dall’egoismo e dall’edonismo. Sia quando la cronaca prende il sopravvento, con il dramma quotidiano della crisi economica, le vite stentate degli ultimi, l’orrore della morte.

Reggio è un blues è amore, nostalgia, delusione, dolore. Ma è anche un messaggio di speranza. Reggio non può essere “quella” che incendia il Museo dello strumento musicale (“lo stesso fuoco della biblioteca di Alessandria, lo stesso fuoco dei roghi nazisti”). Reggio è la fiumana di gente che reagisce riversandosi nelle strade, che suona, balla e canta per non darla vinta alla barbarie. Perché Reggio è un blues, la musica del riscatto.

*Articolo pubblicato su ZoomSud il 16 gennaio 2014: http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/62543-recensione-reggio-e-un-blues-di-antonio-calabro.html

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Farewell, Vinny

Da sinistra: Ninello Parisi, Enzo Fedele,
Luis Forgione e Enzo Condina

A metà degli anni Ottanta le ginocchia dei ragazzi più grandi di cinque-dieci anni sono state, per me e per i miei fratelli, un posto in prima fila. Da quella prospettiva abbiamo visto scorrere molta vita dentro al bar Mario. Gambe di giovani che poi hanno preso il volo, volti familiari trasformati dallo scorrere inesorabile delle stagioni. Alcuni mai più rivisti, se non nel ricordo di un tempo “mitico”.
Così è per Enzo Condina, divorato dal cancro in faccia all’Atlantico qualche giorno fa, a neanche 46 anni.

Flash-back improvvisi restituiscono la smania di crescere di Enzo “u mericanu” (o “Loredana”), figlio unico di genitori anziani. Un’educazione quasi spartana che prevedeva, tutti i giorni, un’ora di solfeggio con il flauto dalle 15 alle 16. Per la gioia dei suoi coetanei, “costretti” ad assistere alla performance seduti sul divano, se passavano da casa sua con l’intenzione di trascinarlo in qualche scorribanda.
Un’ansia repressa quando, all’inizio sotto stretta osservazione del padre, cominciò a dare i primi colpi di stecca. Trattenuta sempre più a fatica se Ninuzzu “u micuneddu” gli faceva notare che era ora di fare ritorno a casa, subito dopo avere consultato sul giornale la quotazione del dollaro. Addio “bazzica”, addio “italiana”. Certo, quando marinava il liceo insieme a qualche compagno poteva stare tranquillo: la sala biliardi diventava il paradiso terreno.

Crescere ed essere uguale agli altri ragazzi. La morte del padre fu un evento devastante, perché gli procurò una libertà mai avuta prima e la sensazione di essere finalmente padrone della propria vita. Via il “caschetto” da collegiale, sostituito da una più matura “mascagna”. Via anche un po’ di vecchi amici. E telefonate della madre a casa di Mario nel cuore della notte, per sapere che fine avesse fatto il figlio a saracinesca del bar abbassata.
Tornare in America, ecco cosa bisognava fare. E così fu. Altro giro, altra puntata per “Vinny”. Come nei tanti casinò di Atlantic City (New Jersey), dove entrò da orchestrale (si era diplomato al Conservatorio di Reggio Calabria e, oltre al flauto, suonava pure il pianoforte) e che continuò a frequentare da giocatore professionista di poker.

Enzo e Louisa nel giorno del matrimonio
(fotografia fornita da Marcello Ragonese)

Il matrimonio con Louisa Governali e notizie sempre più frammentarie da un quarto di secolo, fino a quella scioccante di qualche mese fa: “Enzo u mericanu ha un tumore: gli resta poco da vivere”.
Ogni volta che qualcuno ci lascia, è un pezzo di noi che va via. Anche se sono state meteore che hanno tracciato il nostro cielo per poco tempo.
Perché la vita è così. Ci si perde. Ognuno imbocca una strada e chissà dove porterà. Ci ricordiamo della vita, delle vite, quando irrompe la morte. È come fare l’appello a scuola, ma ogni nome è un volto in meno, l’aula sempre più vuota.

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Le colpe dei figli ricadano sui padri

Vergogna, indignazione, amarezza. Sentimenti che esprimono rabbia per l’ennesimo atto di barbarie inferto, da noi stessi, alla nostra terra. Perché è comodo attribuire sempre al prossimo la responsabilità dei disservizi che quotidianamente tutti siamo in grado di constatare, con conseguente e sacrosanta irritazione. Dalle guerre puniche in poi, è sempre colpa degli altri. Sarebbe ora di smetterla con i piagnistei e cominciare a chiedere cosa facciamo noi per rendere migliore la terra in cui viviamo. Cosa fanno i nostri figli. E quanta responsabilità hanno famiglie e collettività per i comportamenti sbagliati di questi ragazzi.

Abbiamo trasporti da terzo mondo, su strada e su linea ferrata. D’accordissimo. Posti raggiungibili solo mettendo a rischio l’incolumità personale e con tempi biblici. Un’economia asfissiata dalla lentezza delle comunicazioni. Ci lamentiamo per le corse soppresse, per quelle che non ci sono e che andrebbero invece introdotte, per gli autobus che non funzionano. Giustamente.

Poi però, sempre a casa nostra, periodicamente i pullman vengono devastati: vetri sfondati, sedili divelti o, addirittura, qualche mezzo avvolto dalle fiamme, a rischiarare il cielo stellato. Ogni tanto, qualche conducente intimidito da chi non vuole pagare il biglietto o si è sentito offeso da un rimprovero “inopportuno”. Sempre omini sono, anche a quattordici o quindici anni: non è che il conducente può alzare la voce per cercare di ristabilire l’ordine, anche se quelli stanno smontando l’autobus o si divertono ad importunare i compagni di viaggio.

Non bisogna minimizzare quello che accade da troppo tempo su molti autobus di linea. Derubricare un atto vandalico a bravata commessa da ragazzini vivaci è intellettualmente disonesto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: delinquenti, inciviltà.
Ieri qualcuno ha pensato bene di tentare di incendiare l’auto di Antonio Melara, autista sugli autobus delle Ferrovie della Calabria nella tratta San Procopio-Sinopoli-Sant’Eufemia. Stamattina i pullman non sono partiti: servizio interrotto. La “colpa” dell’autista? Avere “preteso” che alcuni ragazzi pagassero il biglietto.

Altri studenti sono stati costretti a saltare le lezioni, i più fortunati sono stati accompagnati dai genitori. D’altronde, quando viene a mancare un servizio, a farne le spese è sempre chi non può ovviare a disfunzioni e inefficienze del settore pubblico. Si tratti di scuole, ospedali, trasporti. Se un giorno l’azienda dovesse malauguratamente decidere di sospendere la corsa, il danno maggiore lo patirebbe chi non ha altro modo per raggiungere Reggio.

In una società in cui nessuno è mai responsabile di niente (entrate in un qualsiasi ufficio pubblico e preparatevi al ping-pong da una stanza all’altra), sarebbe già una mezza rivoluzione inchiodare le famiglie alla responsabilità sull’educazione dei figli. Se un ragazzo allaga una scuola, taglia le gomme all’auto di un insegnante che gli ha dato un brutto voto, sfonda il vetro di un autobus, logica vuole che tocchi ai genitori risarcire materialmente il danno. E così deve essere.

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Buon compleanno, vecchio cuore amaranto

Non sono mai stato un ultra. Per indole: non riuscirei mai a ripetere ciò che altri urlano dentro un megafono. E ho sempre pensato che dietro il cosiddetto “orgoglio ultra”, spesso, ci sia in realtà poco di cui essere orgogliosi.

Comprendo però perfettamente che il calcio è un formidabile generatore di entusiasmo, passioni, felicità. Anche quando i problemi della vita inducono allo sconforto, un gol della squadra del cuore può cambiare il colore di una giornata.

La Reggina oggi compie cento anni e con lei idealmente festeggiano tutti i suoi tifosi, nonostante, in questo delicato momento della sua storia, tristezza per il baratro che si intravede e nostalgia per i tempi che furono la fanno da padrone.

Ormai è diventato uno sport nazionale sparare sul presidente Lillo Foti. Che ha le sue responsabilità, certo. Ma la cui figura, con tanto di sigaro, si staglia altissima nei primi cento anni della storia della Reggina. Da un punto di vista sportivo, per il miracolo della serie A e per quelle nove stagioni che hanno tenuto i riflettori della stampa sportiva nazionale costantemente accesi sul “Granillo”. Sotto il profilo sociale, per avere contribuito a risollevare il morale di una città prostrata dai terribili anni della seconda guerra di ’ndrangheta, offrendole una possibilità di riscatto e un elemento di fiducia. Questo non bisognerebbe mai dimenticarlo.

Neanche oggi che si è passati dal sogno all’incubo.

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Emergency: venti anni in prima linea

Sono orgoglioso di essere socio, da diversi anni ormai, dell’associazione umanitaria fondata nel 1994 da Gino Strada e dalla moglie, la compianta Teresa Sarti. Di quest’ultima amo sempre ripetere una frase bellissima, una sorta di regola morale alla quale, nel mio piccolo, cerco di ispirarmi: “se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene”.

Emergency è un’associazione italiana indipendente e neutrale, nata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà.
Emergency promuove una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani.
L’impegno umanitario di Emergency è possibile grazie al contributo di migliaia di volontari e di sostenitori.
Dalla sua nascita a oggi, Emergency ha curato oltre 5 milioni e mezzo di persone in 16 Paesi
.
(dal sito: www.emergency.it)

Nella prefazione a Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra (Feltrinelli, 1999), Moni Ovadia sostiene che “i tempi delle palingenesi rivoluzionarie assolute e totalizzanti sono finiti, ma ci sono luoghi di rivoluzione nei posti più impensati: uno di questi luoghi è sicuramente il bisturi di Gino Strada”.
Strada è un chirurgo di guerra che “arriva quando tutti scappano, e mette in piedi ospedali di fortuna, spesso senza l’attrezzatura e le medicine necessarie, quando la guerra esplode nella sua lucida follia. Guerre che per lo più hanno un lungo strascico di sangue dopo la fine ufficiale dei conflitti: quando pastori, bambini e donne vengono dilaniati dalle tante mine antiuomo disseminate per le rotte della transumanza, o quando raccolgono strani oggetti lanciati dagli elicotteri sui loro villaggi. I vecchi afgani li chiamano Pappagalli verdi” (dalla quarta di copertina).


Ogni tanto qualcuno mi domanda cosa sia quel piccolo pezzo di stoffa bianco annodato allo specchietto retrovisore della mia auto. Sta là dal 2002, da quando Emergency invitò i cittadini ad esprimere la contrarietà all’ingresso dell’Italia nella guerra contro l’Iraq attaccando un pezzo di stoffa bianco alla porta di casa, al balcone, al guinzaglio del cane, all’antenna della macchina o altrove.

D’altronde, l’articolo 11 della Costituzione non ammette equivoci: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Buon compleanno e lunga vita ad Emergency!

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Buon anno

Buon anno

a chi non ci sperava

a chi ne era convinto

a chi guarda il bicchiere mezzo pieno

lo svuota

e poi prova a riempirlo nuovamente

a chi canta sotto la doccia

a chi singhiozza nel buio del cinema

a chi ripensa al finale di un romanzo

a chi corre per strada

a chi passa la borraccia

a chi tenta la giocata di tacco

a chi beve in compagnia

a chi ama senza aggettivi

a chi fa sogni colorati

a chi non smette di cercare un motivo per sorridere

a chi resiste e vive, vive e resiste

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Libertà è… offrire un caffè!

In principio fu Giovanni Giolitti: “un mezzo toscano e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”. Poi qualcuno aggiunse la stretta di mano, che il fascismo scoprì poco virile e antigienica; infine, toccò al caffè. In un celebre spot degli anni Ottanta, Pino Caruso rischiò di pagare caro un suo vezzo (“al signor Caruso, cuannu si l’arrimina, ci piaci sentiri u scrusciu d’a tazzina”): “mi sono rovinato, ora ci vuole il caffè per tutto il vicinato!”.

Niente a che fare, comunque, con le conseguenze nefaste che la passione per la miscela arabica procurò a Gaspare Pisciotta, il braccio destro di Salvatore Giuliano ucciso da un caffè dell’Ucciardone corretto con la stricnina, e al banchiere Michele Sindona, al quale nel carcere di Voghera fu servito un “lungo” al cianuro.

Ed è proprio per scongiurare rovesci economici che in alcuni bar ai clienti, da diversi anni, è vietato offrire. Si legge proprio così sugli avvisi esposti: “vietato”. Ma può esistere niente di più arrogante e offensivo? Perché levare anche il piacere di offrire a un amico un caffè o una bibita qualsiasi? Ogni volta che si invade il terreno della discrezionalità altrui, imponendo o vietando un comportamento, si compie una violazione della libertà. E violare la libertà, anche quella di offrire un caffè, è cosa molto grave.

Conosco l’obiezione: si tratta di un provvedimento necessario per contrastare gli scrocconi seriali. Quelli sempre in agguato nelle vicinanze del bar, pronti a lanciarsi dentro appena vi fa ingresso la vittima di turno. Quelli che ci rimettono due euro di benzina e un set di gomme dell’auto nell’attesa del momento propizio. Quelli che si spingono addirittura nella sala gioco, sperando che qualcuno alzi lo sguardo dalla biglia del biliardo o da una mano di carte strepitosa: “hai preso il caffè?”.

L’introduzione del divieto ha quindi fondate ragioni. Economiche, perché entri per un caffè e alla fine scopri che ti è costato dieci euro, dato che in certi posti offrire è quasi un obbligo (anche molto ipocrita, certo; ma tant’è). Morali, perché ti evita di pagare per qualcuno anche quando l’unico tuo desiderio sarebbe che la bevanda si trasformasse in un potentissimo lassativo.

E qui si arriva al nocciolo della questione. A pensarci bene, il divieto ha la stessa ratio dell’obbligo di utilizzare la cintura di sicurezza, non perché può salvarci la vita, ma perché altrimenti ci becchiamo la multa. Di indossare il casco sulla moto; utilizzare paletta e sacchetto per raccogliere gli escrementi dei nostri amici a quattro zampe (ma dalle nostre parti ancora ce n’è strada da fare); non lasciare per ore il tubo dell’acqua aperto ad allagare i balconi delle case; compiere o non compiere azioni per le quali basterebbe regolarsi seguendo elementari norme di educazione o di buon senso, senza ricorrere alla minaccia della sanzione o dell’imposizione arbitraria. È, in fondo, la stessa filosofia del “ce lo chiede l’Europa”. Ché se certe cose le decidessero “i nostri” gliela faremmo vedere. Ma l’Europa è l’Europa. E quindi, forse, non ci resta che confidare in una moratoria di Bruxelles, per avere di nuovo il piacere di pronunciare: “trasiti cumpari, u cafè l’aviti pagatu”.

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