Un posto per la nostra storia

Molti ricorderanno la campagna partita da questo blog nel mese di gennaio del 2013, affinché l’amministrazione comunale commemorasse con i dovuti onori Nino Zucco, poliedrico artista eufemiese in contatto con i massimi esponenti della cultura calabrese nel Novecento: Francesco Cilea su tutti, ma anche Leonida Repaci, Corrado Alvaro, Raul Maria De Angelis, Alessandro Monteleone, Michele Guerrisi, Francesco Perri, Antonio Piromalli, Leopoldo Trieste. L’articolo suscitò gli interventi di Antonello Zucco e di monsignore Giorgio Costantino (rispettivamente figlio e nipote di Nino Zucco); quindi, su impulso del sindaco di Sant’Eufemia Domenico Creazzo, in breve tempo ci furono l’inaugurazione della Pinacoteca comunale (all’interno della quale una parete è oggi dedicata alle opere che il figlio di Zucco donò in quella circostanza) e l’organizzazione del convegno “Nino Zucco: pittore, scultore, scrittore, cantore della memoria eufemiese”.

Insomma, esiste un precedente incoraggiante. Per il calendario delle manifestazioni estive 2014 si potrebbe pensare a un’iniziativa di recupero della memoria storica, atteso che il prossimo 5 luglio ricorrerà il centenario della posa della prima pietra del palazzo municipale costruito dopo il terremoto del 1908 e inaugurato ufficialmente nel 1926, alla presenza del gerarca Maurizio Maraviglia.
Quella bella struttura architettonica è stata rasa al suolo una trentina d’anni fa, sostituita dall’attuale. E qui mi fermo, senza aggiungere altro, per carità di patria. È giunta però a noi l’epigrafe composta in quella solenne circostanza dallo storico eufemiese Vittorio Visalli:

Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire.

Sarebbe opera meritoria scolpire sul marmo le parole del più eminente storico del Risorgimento in Calabria e collocarle all’interno della sala del consiglio comunale, la sede più appropriata per perpetuare il ricordo del riscatto di un popolo ferito ma non domato dalla furia della natura, oltre che per onorare la grandezza di colui che le vergò.
E in quella stessa aula andrebbe anche collocata una riproduzione dell’epigrafe dedicata nel 1900 all’eufemiese Carlo Muscari, apostolo della libertà giustiziato in piazza del Mercato a Napoli, dopo la caduta della Repubblica partenopea, insieme ad altri quattordici patrioti calabresi. Sistemata in occasione del centenario dell’impiccagione di Muscari all’interno della casa comunale, allora situata nella “piazzetta”, la lapide originale andò distrutta dopo il terremoto del 1908, mentre la copia realizzata per il nuovo palazzo municipale andò persa con la demolizione dell’edificio negli anni Ottanta del secolo scorso:

Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio.

La sede naturale per le due incisioni sarebbe, a mio avviso, la parete che si trova alle spalle della presidenza del consiglio comunale. Quello è il posto della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Una storia che sappia essere monito e guida per coloro che siedono o siederanno su quegli scranni.

*Sulla vicenda del ritrovamento dell’epigrafe scritta da Visalli nel 1914:
https://www.messagginellabottiglia.it/2013/09/lepigrafe-di-visalli-lo-stupore-di-mico.html

**Per un profilo biografico di Carlo Muscari: Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova (RC) 2013, pp. 116-120.

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Il calore di un aggettivo

Quattro anni e trecentoquarantacinque messaggi nella bottiglia dopo. Il 24 marzo 2010 aprivo il blog e pubblicavo il primo articolo: Minita, il nome che io stesso mi ero dato da bambino. Perché in un certo senso ripartivo, se non da zero (secondo l’insegnamento del grande Massimo Troisi), dalla consapevolezza che molto era cambiato nella mia vita. O almeno in ciò che mi ero prefigurato sarebbe stata, dieci anni prima.
Minita, quindi. Ripartivo dalla curiosità per ciò che mi accade attorno, dal desiderio di interpretare gli avvenimenti e di capire le persone al di là di ciò che appare a una prima, sommaria, osservazione. Ma anche dal bisogno di condividere con chi legge impressioni, considerazioni, emozioni. Con il maggiore tatto possibile, almeno nelle intenzioni.
Il nome di questo diario virtuale è Messaggi nella bottiglia proprio perché alle onde virtuali della rete affido periodicamente bigliettini che forse verranno letti, forse no. Oggi, domani o chissà quando. Giusto ieri ho ricevuto il commento alla recensione di un libro scritta quasi due anni fa!

Il blog è figlio di un esperimento fallito: quello di creare con il sito santeufemiaonline uno spazio di confronto che offrisse agli eufemiesi la possibilità di esprimersi liberamente, seguendo gli impulsi dati dalla sensibilità e dagli interessi culturali, sociali, politici. Nel momento in cui gli articoli finirono per essere firmati quasi tutti da me, quello spazio non aveva più senso. Era più corretto “sgravare” gli altri collaboratori dalla responsabilità delle cose che proponevo e guadagnare, se non una maggiore libertà (che era totale), certamente un rapporto più diretto e franco con i lettori. Questo per dire da dove si è partiti, da poche visualizzazioni che nel tempo sono cresciute e danno oggi un senso più compiuto a questa attività, ma inducono anche alla riflessione. Perché aumentano le responsabilità di chi scrive nei confronti di coloro che leggono.

Sono affezionato a questa mia creatura. Perché da qui sono partite proposte che la politica e le associazioni eufemiesi hanno spesso colto: su tutte, la riscoperta di Nino Zucco, un grande eufemiese dimenticato fino all’anno scorso.
Il blog mi ha fatto conoscere da gente che non immaginavo e mi ha dato l’opportunità di intrecciare rapporti e avere occasioni di confronto con persone altrimenti per me irraggiungibili.
E poi c’è l’aspetto “medico”: gli voglio bene perché mi ha aiutato a superare situazioni personali anche dolorose. Non mi stancherò mai di ripetere che scrivere è una terapia, ghiaccio a lenire i lividi lasciati sull’anima dai colpi bassi che la vita spesso riserva.
C’è anche molto di me qua dentro. In maniera esplicita o tra le righe, per ritrosia. Ma anche perché conforta il calore di un aggettivo messo lì, quasi per caso. Con la certezza che molti capiranno.

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U mangiari i San Giuseppi

Leggo “u mangiari i San Giuseppi” e sento l’odore caratteristico di un fumante piatto di pasta e ceci, che regolarmente arricchisco con una spolverata di pepe nero. Dai racconti dei “grandi” apprendo che la pietanza preparata per i bisognosi del paese aveva un sapore speciale, come tutte le cose desiderate e a lungo attese. Sulle polpette al sugo del giovedì di Carnevale, per molte famiglie l’unico giorno dell’anno in cui si comprava la carne, si potrebbero scrivere manuali di cucina. O testi di folclore. Un evento irrinunciabile, la cui importanza viene compendiata dal proverbio popolare “giovedì ’i lardarolu cu non avi carni si ’mpigna ’nu figghiolu”.

U mangiari i San Giuseppi” rimanda a principi e valori che oggi lottano con le unghie per non essere travolti dall’indifferenza e dal disimpegno imperanti. Ricorda persone semplici, che riuscivano a dividere con gli altri il poco che avevano. Che non passavano oltre, distrattamente e infastiditi, alla vista di una mano tesa. Che anzi quelle mani andavano a cercare, quando il naturale pudore di molti sfortunati le costringeva nelle tasche. Ricorda la vita vera delle rrughe, i bambini a piedi scalzi nei cortili e le nostre grandissime donne a sorvegliare pentole enormi, ricolme del pasto che avrebbe alleviato una fame antica. Ogni mercoledì una rruga: e poi la sala matrimoniale “Il Cagnolino”, che dal dopoguerra non ha mai smesso di perpetuare questa nobile tradizione.

Da diversi anni, grazie al dinamismo di un gruppo di amici del Vecchio Abitato “u mangiari i San Giuseppe” ricorda a chi l’avesse dimenticato non solo da dove veniamo, ma soprattutto cosa significa essere comunità e quali doveri abbiamo nei confronti di chi sulla propria tavola non sempre trova il conforto di un piatto caldo. Si tratti di eufemiesi di nascita o di eufemiesi di adozione, che il destino e la fame, dalle strade del mondo, ha portato alle pendici dell’Aspromonte.

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La notte degli gnomi

Martina amava i libri del padre. A dodici anni sognava di diventare Cecile, la ribelle protagonista di Bonjour Tristesse. O Lia, che in Canne al vento insegue la libertà scappando dalla Sardegna. Del romanzo di Grazia Deledda l’affascinava quel mondo fantastico, abitato da folletti e spiriti, che lei stessa incontrava ogni notte prima di addormentarsi.
Sotto le coperte, il lettino si popolava di folletti buffi e graziosi che si sfidavano in una gara molto particolare: spazzare via la tristezza del giorno. Spuntavano dietro un cespuglio o sotto un fungo, si lanciavano dai rami bassi degli alberi, scorrazzavano nello stagno a bordo di larghissime foglie.
Era la notte degli gnomi.
Gli angoli del materasso diventavano i confini di un mondo fantastico, il cielo trapuntato di stelle lucentissime e sorridenti. “Ma quante sono?”, si chiedeva con meraviglia per poi rabbuiarsi al pensiero del mistero di quel magnifico e imperscrutabile ricamo, che la faceva sentire uno zero tra gli infiniti numeri dell’universo. Ma era solo un attimo. Il tappeto di foglie brune croccava sotto i passi degli gnomi e delle fate che si rincorrevano festanti, si aggrappavano alla sua vestaglia e la invitavano ad unirsi a quel girotondo di magia. Martina chiudeva gli occhi e si lasciava abbracciare dalla felicità.
Fu in una di quelle notti che intravide uno gnomo vestito da cacciatore. Non aveva però con sé il fucile: solo un po’ di pane, in una mano, che presto sbriciolò per gli uccelli del bosco; alle orecchie, le cuffie della radiolina che fuorusciva da un taschino dell’eskimo beige.
Martina riconobbe subito quel sorriso distante, molto simile al suo. Quello gnomo era suo padre. Gli occhi erano uguali a suoi, cangianti dal verde mare al castano chiaro, a seconda dei riflessi del sole. In quelli di Martina si leggeva il dolore per quel vuoto ingombrante che il ricordo non riusciva a colmare. Che nessuno poteva capire.
Forse per questo gli gnomi avevano portato lì suo padre.
Per rassicurarla.
Con lo sguardo seguì quel passo lento che si arrestò all’ombra di un albero. Lo gnomo estrasse il giornale dalla tasca posteriore dei pantaloni, si accomodò sul prato e cominciò a leggere.

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Un cinghiale ferito non può far cambiare verso all’Italia

È successo che Renzi ha pensato bene di cominciare a “cambiare verso” all’Italia nominando sottosegretario alle Infrastrutture il senatore Tonino Gentile, da giorni nell’occhio del ciclone per la storiaccia delle pressioni al quotidiano “L’Ora della Calabria” per silenziare la notizia dell’inchiesta sugli incarichi legali all’Asp di Cosenza, che coinvolge il figlio Andrea.
È successo che, con sprezzo del ridicolo, esponenti di primo piano del Ncd calabrese hanno fatto a gara nell’esprimere soddisfazione e giubilo per la nomina del “cinghiale che se ferito ammazza tutti”: da Luigi Fedele a Nazzareno Salerno, da Daniele Romeo a Giuseppe Scopelliti. Senza imbarazzo alcuno.

È successo, questo ormai è evidente a tutti, che esiste un rapporto perverso tra stampa e politica che andrebbe spezzato. Perché un giornalismo sotto ricatto non potrà mai svolgere il ruolo di cane da guardia della democrazia. E alla fine di questa nauseabonda vicenda, a pagare potrebbero essere soltanto i tanti ragazzi che tra mille difficoltà si fanno il mazzo per inseguire un sogno.
È successo che ci saremmo aspettata una reazione feroce da parte degli esponenti del partito democratico, il quale (salvo rarissime eccezioni) risulta “non pervenuto” sulla registrazione della telefonata tra lo stampatore, nonché presidente di Fincalabra, Umberto De Rose e l’editore di “L’Ora della Calabria” Alfredo Citrigno. Imbarazzato ma taciturno, invece, sulla nomina di Gentile.

È successo che è impossibile che Renzi non sia stato informato su quel che è accaduto in Calabria nell’ultima settimana. Se, nonostante tutto, ha preferito piegarsi al diktat del suo alleato di governo, vuol dire che siamo di fronte all’ennesimo bluff. Ma sulle questioni di principio non si può esitare: la libertà di stampa è un principio costituzionale da difendere senza se e senza ma. Ad ogni costo. Punto.

Non ci sono altre strade per rimediare allo sdegno, all’imbarazzo, al disorientamento provocati da una scelta così spudorata: Gentile deve andare a casa perché, al di là degli eventuali risvolti giudiziari della vicenda che lo vede coinvolto, la sua presenza in un esecutivo che si definisce di rottura rispetto al passato non è opportuna. E i rappresentanti democratici calabresi in Parlamento, senza distinzione di corrente, devono assumere una netta posizione di intransigenza. Fino a quando non ci saranno le dimissioni o non verrà ritirata la delega a Gentile, dovranno togliere il sostegno al governo Renzi.
Se proprio non si riesce a cambiare verso, almeno si cominci a cambiare andazzo.

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Il concorso

“Marco Alcina?! Ma di chi cazzo è Marco Alcina?”. Il professore Lucio Guidoni strabuzzò gli occhi e strinse i denti in un ghigno rabbioso. Le sue mani cominciarono a tremare, mentre un grumo di saliva all’angolo sinistro della bocca tradiva un forte stato di agitazione. Come aveva potuto farsi mettere nel sacco, così, neanche fosse uno sprovveduto dilettante e non lo scafatissimo dominus delle commissioni giudicatrici? La prima toppata dopo un decennio di concorsi confezionati con precisione sartoriale per parenti, amici, qualche amica: ché se si riesce a comandare e fottere è pure meglio. Mai un dottorato assegnato senza la sua benedizione. Con borsa, senza. E sennò che mi coordini, Guidoni?

“Nei corridoi della facoltà non si parla d’altro, Corrado: sfilare un dottorato sotto il naso a Guidoni… a casa sua, ti rendi conto? Questo è un esproprio proletario!”. Franca D’Amico non stava nella pelle dalla gioia. Con Corrado Romeo aveva una storica consuetudine di battaglie solitarie e perdenti. Un fronte sempre aperto li contrapponeva al preside Giacomo Nichetti, potentissimo distributore di cattedre e procacciatore di ordinariati da talamo per tutte le età: la tesista capace di scalare in pochi anni i gradini dell’accademia; la matura applicata di segreteria vincitrice di concorso con una sola pubblicazione all’attivo, cinquanta pagine di articolo e altrettante di appendice pubblicate sulla prestigiosa rivista specializzata diretta dallo stesso Nichetti.

La disfatta era il collante del loro affiatamento, saldo a dispetto dei rovesci della fortuna e proprio per questo fonte dell’invidia dei colleghi. Per festeggiare degnamente l’atto di pirateria, Corrado avrebbe cucinato a casa di Franca uno stocco da apoteosi, prestando la sua proverbiale attenzione al bilanciamento tra ingredienti dolci e salati (“è questo il segreto”): carota e olive, pera e capperi, uva passa e pinoli.

Nella testa di Marco i fotogrammi si accavallavano senza un ordine. Ogni immagine, un livido. Ogni livido, un sorriso. Sorrisi amari. Quel “di chi cazzo è Marco Alcina?” era un prodigioso analgesico, ma spiegava meglio di mille inchieste giornalistiche le logiche accademiche: o sei di qualcuno, o sei nessuno. Un corpo estraneo da espellere con fastidio. Puoi prendere il pezzo di carta da appendere al muro, ma dall’altra parte della cattedra, no. Scordatelo. Quella è riserva di caccia per baroni, zona rossa invalicabile.

Marco non era di nessuno, non lo era stato neanche negli anni precedenti: due volte su due primo dei non ammessi alla prova orale, poco più di una formalità che si risolveva nella conferma della graduatoria decretata dallo scritto. Una cocente doppia delusione, rinfocolata dal ricordo del tempo consumato sui libri e della vita offerta in olocausto sull’altare di un futuro appena sognato. “Io mi fermo qui”, la sofferta e conseguente decisione.

Mica facile.

“Marco, me la dai una mano?”. Dalla cornetta l’accento inconfondibile del professore Romeo, un giorno che non ti aspetti, dopo il silenzio di un anno. Una richiesta d’aiuto per portare a termine, con la collaborazione di altri ex studenti, la ricerca necessaria per il libro che gli avrebbe consentito di conseguire l’ordinariato. Subito dopo la pubblicazione della sua tesi di laurea Alcina si era congedato dal professore Romeo con mestizia: “io questo tipo di lavoro continuerei a farlo anche gratis, ma non posso proprio”. Ora però era diverso. Un paio di mesi: neanche una parentesi, a pensarci bene.

“E presentala! Che ti costa?”: il pressing degli amici era diventato asfissiante. “Non c’è due senza tre”, il pensiero finale di Alcina, che compilò controvoglia la domanda per il concorso del dottorato. Il professore Romeo sembrava addirittura speranzoso, nonostante i nomi dei vincitori circolassero dal giorno successivo all’uscita del bando: l’allievo prediletto di Guidoni e la giovane assistente del professore Aldo Foresta, una procace venticinquenne che aveva deciso di seguire il relatore della sua tesi di laurea fin sotto le lenzuola. Il piano era semplice: Alcina doveva solo pensare a svolgere la migliore traccia della sua vita, al resto avrebbe provveduto l’insospettabile Anna Vincelli, in commissione ma senza alcun candidato da sostenere. Andò come auspicato: gli altri due commissari valutarono positivamente l’elaborato, ignari del punteggio massimo assegnato dalla collega. Per Foresta, che considerava la borsa di studio triennale un equo compenso alla generosità della sua allieva, fu vera beffa.

Ogni tanto Marco Alcina ritorna a quelle giornate. Alle aspettative deluse da un turno (il suo) mai arrivato, l’anima un pungiball per uno-due terrificanti: “è inutile che presenti la domanda per il post-dottorato: quel posto non è tuo”, “l’assegno di ricerca è andato a un altro dipartimento”, “ci hanno sottratto la gestione del corso di laurea nella sede distaccata”.

Frasi sfumate e immagini in dissolvenza, una vita dopo.

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Ricognizione sulla fiducia

Sul suo blog, Pippo Civati invita gli elettori del partito democratico ad esprimersi sul cambio di governo, attraverso un “questionario-ricognizione” e intervenendo “virtualmente” all’assemblea di democratici che si terrà a Bologna: non più di mille battute per motivare un sì o un no all’esecutivo guidato da Renzi (“Ricognizione sulla fiducia. Cosa ne pensate?”). Di seguito, le ragioni del mio sì alla fiducia al nuovo governo. Con i limiti che la sintesi comporta.

La fiducia va votata. Turandosi il naso e mordendosi la lingua. Nell’attuale situazione non c’è alternativa: questione di responsabilità, serietà, maturità. Ma anche per dare una risposta, prima di tutto a se stessi, su come si intende agire per incidere nelle scelte di partito e di governo, e non fare solo testimonianza.
Esiste un dato, imprescindibile: il gruppo Civati è minoranza. E in politica i numeri contano. Oltretutto, siamo nell’arte del possibile, non dimentichiamolo, non tra i vicoli di Utopia. Per cui, mettiamoli e mettiamoci alla prova, con spirito propositivo, tentando di spostare a sinistra la barra del governo con gli strumenti parlamentari di cui disponiamo.
La fuoriuscita dal partito non è scelta lungimirante. Si farebbe la figura del bimbo sconfitto che, per ripicca, abbandona il campo portandosi dietro il pallone. Ovviamente, la nostra non deve essere una cambiale in bianco, ma una verifica quotidiana. Se tra sei mesi o un anno dovessimo ritenere negativo il saldo, allora ne trarremo le necessarie conseguenze. Dopo, però. Prima occorre andare a vedere la mano di carte di Renzi e giocarsi bene le proprie.

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Prima la politica

Come spesso accade per le cose del partito democratico, le primarie che avrebbero dovuto eleggere il nuovo segretario regionale in Calabria hanno registrato una coda inattesa. Neanche tanto, a dire il vero, considerato che già alla vigilia era data come altamente probabile l’eventualità che nessuno dei quattro candidati raggiungesse la maggioranza assoluta dei delegati. Cosa che puntualmente si è verificata. A norma di regolamento, la palla passa all’Assemblea. Non senza qualche coda polemica. Magorno contro Canale. Con il primo che si è fermato a soli due delegati dai 151 necessari per avere la maggioranza. E con il secondo che può a ragione ritenersi soddisfatto. Checché se ne dica, dall’altra parte c’era schierata la stragrande maggioranza dell’establishment dei vecchi democrats, politici di lungo corso ritrovatisi incidentalmente renziani a braccetto, anche fuori dalle insegne di partito, con coloro che più hanno da temere dall’affermazione di uomini e metodi nuovi: Sandro Principe, Marco Minniti, Mario Pirillo, Agazio Loiero, Luigi Incarnato, Peppe Bova, Antonio Borrello, truppe cammellate delle più svariate fogge. Avere impedito a Magorno una vittoria al primo turno, nonostante l’impari lotta contro questi vecchi volponi, per Canale è già una vittoria. L’altro dato a mio avviso confortante riguarda la provincia di Reggio Calabria, dove Canale (54%) ha stracciato l’avversario (45%) nonostante lo sforzo collettivo compiuto da tutti i big (esclusi Nino De Gaetano e Sebi Romeo) per contrastarne l’affermazione. Merito della novità della proposta, colta in particolare da quei giovani che hanno permesso gli exploit di Rosarno, Palmi, Bagnara, Siderno e, a leggere bene le situazioni, anche Gioia Tauro. Il futuro è segnato. Ritorni al passato, almeno in provincia di Reggio, non ce ne saranno. E questa è una prospettiva davvero interessante. Una prima, vera, vittoria.

Ora occorrerà ricomporre i cocci della campagna elettorale, stemperare i veleni di situazioni non limpidissime (Diamante e Belvedere Marittimo), ricercare un’unità di intenti che è indispensabile per affrontare con fiducia le prossime sfide: Europee, Comunali, Regionali.

Il 22 febbraio alle 16.30 Canale riunirà presso l’Hotel Euro Lido di Falerna i delegati, gli amministratori, i segretari di circolo e i sostenitori della sua lista per elaborare la proposta politica da presentare all’Assemblea. Un’altra storia deve necessariamente iniziare dai contenuti, non dalla conta congressuale. Da qui lo slogan #primalapolitica con il quale Canale ha lanciato l’evento.

Come circolo “Sandro Pertini” di Sant’Eufemia, cercheremo di dare il nostro piccolo contributo anche in questa occasione. L’abbiamo fatto giorno 16 con i 130 voti attribuiti a Canale, per i quali grande merito va ai compagni e amici Mario Surace, Enzo Fedele, Peppe Gentiluomo e Pasquale Napoli. E speriamo di continuare a farlo nelle sedi deputate, a partire dal coordinamento della Piana. Perché o la politica parte dal basso, o è altro.

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Quando Montalto in Aspromonte diventò un vulcano

Non è il racconto di un folle, né la bizzarra ipotesi di quei programmi televisivi che campano sulla credulità umana e spacciano per verità panzane clamorose, “ovviamente” occultate per ragioni oscure che solo la Cia conosce. Non è neppure uno scoop giornalistico pompato da farci prime pagine per giorni e giorni. È scritto nero su bianco; anzi nero su ocra, il colore dei telegrammi di fine Ottocento: in quel tempo, l’Aspromonte era un vulcano in attività.

Sono trascorsi appena due mesi dal terremoto che il 16 novembre 1894 sconquassò il circondario di Palmi, provocando rovine e morti. La Madonna del Carmine aveva fatto il miracolo, in seguito riconosciuto dalla Chiesa, e aveva limitato a otto le vittime (circa 300 i feriti) nel capoluogo del circondario, epicentro del sisma per sedici interminabili secondi alle 18.55. Tutt’attorno macerie e desolazione: abitazioni rase al suolo o rese inabitabili, 98 morti (48 soltanto a San Procopio), il terrore negli occhi dei sopravvissuti, molti dei quali avrebbero perso la vita quattordici anni più tardi. A Sant’Eufemia, tra le sette vittime la più anziana è la novantacinquenne Carmina Zagari; la più giovane Maria Antonia Cutrì, un fiore reciso a soli tre anni. Oltre 200 feriti, 212 abitazioni crollate, 326 pericolanti, 432 gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve. E la paura che potesse accadere nuovamente alimentata da scosse continue, per giorni, settimane, mesi.

I terremotati, alloggiati in baracche tirate su con il contributo dei comitati sorti in tutta Italia, hanno ormai orecchie sensibili. A ogni scossa si riversano sulla strada e, affidata l’anima a Dio, alla Madonna e ai Santi, si accalcano pericolosamente all’interno delle chiese, incuranti della tragedia che potrebbe provocare il crollo di strutture già danneggiate. A nulla valgono le raccomandazioni del prefetto, veicolate dal commissario per la gestione dell’emergenza Michele Fimmanò, dal prosindaco Luigi Bagnato e dal presidente della commissione per le cucine economiche, l’arciprete Rocco Cutrì.

Ancora un anno dopo il disastro, il maggiore del genio civile Angelo Chiarle, sulla scorta del parere espresso dal direttore dei lavori di ricostruzione, l’ingegnere Gaetano De Blasi, suggerisce al prefetto di mantenere l’ordine di chiusura delle chiese, perché forti scosse avrebbero potuto causare una “catastrofe mai vista”: “meglio affrontare impopolarità che accusa imprevidenza ed imprudenza”, la saggia conclusione del graduato.

Tensione, suggestione e ignoranza sono gli ingredienti perfetti per sfornare la bufala dell’anno. Che puntualmente arriva, per quanto inconsapevolmente, all’inizio del 1895. Il 24 gennaio tale Greco, da Sant’Eufemia, telegrafa al prefetto: “Contadini, reduci monti, esterrefatti riferiscono apertura cratere Montalto eruttante colonna fumo rosseggiante. Procederemo ispezione, riferirovvi. Avvisate Comitato”.

Il giorno dopo lo stesso Michele Fimmanò, non un cafone analfabeta bensì il colto borghese con tanto di laurea conseguita presso il prestigioso ateneo partenopeo, prende in considerazione l’ipotesi assurda che l’Aspromonte nascondesse nel proprio ventre un vulcano: “Seppi stamane via Delianuova che tre contadini colà arrivati narravano delle cime di monti prospettanti Montalto aver osservato che dalla sommità di esso monte veniva fuori un enorme colonna fumo rosseggiante simile ad un pino piegantesi a terra col vento, e che poi si raddrizzava. I tre contadini tornavano Delianuova esterrefatti. Non le ho telegrafato perché fenomeno fumo simile ad un pino, forma osservata Plinio anno 79 Cristo, Vesuvio, mi ha sorpreso ed ho disposto esplorazione domani facendola intesa risultati”.

Una voce incontrollata che innesca un tam-tam inarrestabile. Il rischio di una nuova Pompei tutt’altro che remoto. Esploratori vengono mandati a Montalto, ma la quantità di neve caduta è tale da rendere impraticabile un sopralluogo.

I fenomeni di psicosi collettiva svaniscono però con la stessa rapidità con la quale si manifestano. E così noi non sapremo mai cosa fosse il “rombo enorme mugghiante accompagnato vivo bagliore” annotato dai volontari inerpicatisi fino a Montalto, nel lontano gennaio del 1895.

*Articolo pubblicato su ZoomSud il 14 febbraio 2014: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/63898-quando-l-aspromonte-divento-un-vulcano.html

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Con Massimo il Pd cambia Canale

Alle primarie per l’elezione del segretario regionale del partito democratico, domenica 16 febbraio, voterò per Massimo Canale. Una decisione, va detto, non influenzata da logiche geografiche o di campanile. Voto Canale non perché dei quattro in lizza è l’unico candidato proveniente dalla provincia di Reggio Calabria. Se così fosse, una banale scelta di opportunità e non di merito, si ricadrebbe negli errori del passato, nel localismo e nel personalismo che hanno determinato quattro devastanti anni di commissariamento. La ragione fondamentale è un’altra ed è serissima, perché ha a che fare con il futuro del Pd in Calabria, con il progetto di una nuova visione del rapporto tra partito e società.

La candidatura di Canale archivia antichi steccati correntizi e di campanile, non soltanto perché sostenuta trasversalmente da renziani, cuperliani e civatiani. Ciò che la distingue dalle altre proposte è l’apertura a tutta un’area storicamente di sinistra ma non iscritta al Pd, spesso molto critica nei confronti dei democrats, che in Canale vede il riferimento alto e rappresentativo dei movimenti, dell’impegno civico, della contrapposizione frontale al “modello Reggio”. D’altro canto, Canale ha già ampiamente dimostrato di riuscire ad intercettare consensi fuori dal recinto partitico, come attesta quel 10% in più ottenuto rispetto alle liste che sostenevano la sua candidatura a sindaco contro Arena. Non un grigio burocrate di partito, bensì l’espressione più avanzata della lotta politica e culturale contro la gestione scopellitiana del potere, che nelle primarie “aperte” (alle quali, cioè, potranno partecipare anche i non iscritti al partito) può ritrovare una buona occasione per manifestarsi.

Canale rappresenta ciò che fino ad ora il Pd non è mai stato. L’entusiasmo e la spinta di una massiccia componente giovanile nascono proprio dall’aspettativa di un partito aperto a quanto di meglio offre il territorio. Nascono dalla sensazione di avere finalmente aperto le finestre delle segreterie per farvi entrare aria fresca. Nascono dalla promessa di un nuovo protagonismo agli amministratori locali, perché un partito che si ricorda di esistere solo quando c’è da racimolare qualche voto per questo o per quel candidato non ha ragione di esistere.

Infine, non va sottovalutato un aspetto solo apparentemente secondario. Il partito democratico calabrese, lacerato dai veti incrociati e dalle primarie fasulle del passato, umiliato dalla lotta fratricida per lo strapuntino personale a costo della mortificazione delle energie locali, per chiudere con quella stagione e rilanciarsi ha bisogno di un segretario a tempo pieno. Come Massimo Canale, che ha escluso una sua candidatura nei prossimi appuntamenti elettorali ed ha assicurato l’impegno esclusivo per la cura del rapporto con il territorio e l’ascolto delle sollecitazioni della base, nell’ottica di un partito che sia realmente cinghia di trasmissione tra società e istituzioni, periferie e centro.

Domenica 16 febbraio, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, il circolo di Sant’Eufemia “Sandro Pertini” allestirà il seggio elettorale “Sant’Eufemia-Sinopoli-San Procopio” nella sala della biblioteca comunale, all’interno del palazzo municipale.

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