361 volte grazie

Il dato più rilevante è quello dell’astensionismo: a Sant’Eufemia si sono recati alle urne 1.083 elettori, pari al 28,75% degli aventi diritto. Quasi il 9% in meno rispetto alle Europee del 2009 e 73 elettori in meno rispetto all’ultima consultazione, quella relativa alle Politiche del 2013, competizione però storicamente più “sentita” dall’elettorato e quindi più partecipata. La percentuale di affluenza è di molto al di sotto del dato nazionale (58,69%), a sua volta inferiore di otto punti rispetto a quella delle Europee del 2009, che si svolsero però in due giorni. Sarà compito degli analisti spiegare la montante disaffezione nei confronti della politica, chi osserva il responso nudo e crudo deve invece concentrarsi sui risvolti politici immediati. Su chi vince e su chi perde, perché alla fine chi ha partecipato ha deciso per tutti. È la politica, bellezza.

In sintesi ha vinto Renzi, ha perso Grillo. Ha vinto il desiderio di “normalità” contro la guerra continua, gli slogan truculenti, la paura e il terrore mediatico. Ha vinto il senso di responsabilità del Partito Democratico e lo spirito riformista dell’azione di governo, con tutti i limiti e le difficoltà che non si vogliono certo nascondere. Secondo questa lettura, tutto il resto scompare, o comunque assume poca rilevanza. A livello nazionale e a livello locale.
Laddove sei mesi fa esistevano soltanto macerie in otto abbiamo “aperto” (non “fisicamente”, purtroppo) il circolo Pd “Sandro Pertini”. Alla prima importante scadenza elettorale siamo risultati il primo partito con 361 voti (36,06%), davanti a Nuovo Centro Destra (272), Forza Italia (181), Movimento Cinque Stelle (96), Fratelli d’Italia (26), Verdi (21), Tsipras (17), Italia dei Valori (12), Lega (6), Scelta Europea (5), Maie (4). I due candidati che sostenevamo sono stati entrambi eletti: Elena Gentile, primatista a Sant’Eufemia con 220 preferenze, e Gianni Pittella (177).

Un risultato che ci riempie di orgoglio e che consideriamo un buon punto di partenza per l’azione che andremo a sviluppare in futuro, in piena autonomia e con spirito costruttivo. Il tesseramento per il 2014 sarà l’occasione per verificare su quali forze potremo realmente contare, anche sotto il profilo pratico dell’organizzazione. E poi il problema più grande, quello della sede, un punto di riferimento indispensabile soprattutto per i giovani che ci hanno sostenuto in questa campagna elettorale, sui quali puntiamo per continuare a crescere e diventare sempre più protagonisti. Perché un partito ha senso se è al servizio della collettività, non se si riduce a comitato elettorale da mobilitare nelle vicinanze di ogni appuntamento con il voto.
Conserverò per sempre tra i ricordi più cari la stretta di mano ricevuta da un militante storico (classe 1928) del vecchio Pci che ci ha fatto i complimenti e ci ha esortato a continuare su questa strada.

Condividi

Al voto, al voto

È stata una campagna elettorale dai toni eccessivi, a tratti violenti, nei quali in molti non possono riconoscersi. Ma i tempi sono questi. Tempi di gente incazzata perché non ha lavoro, sempre di più neanche da mangiare, e perché i segnali che arrivano dal mondo politico sono spesso quelli di una casta autoreferenziale che vive sul suo personalissimo pianeta, incurante dei problemi che stanno bruciando generazioni di italiani. Convinti che “niente cambierà”, da diverse votazioni sono in tanti a rifugiarsi nell’astensionismo o nel voto in favore di chi promette che manderà tutti a casa, magari con un cartello attaccato al collo, come in ogni guerra civile che si rispetti. Ma la politica non può essere solo rabbia, con quella non si riuscirà mai a governare processi complessi che la semplificazione del “dovete sparire tutti” riduce a tumori da estirpare. Non mi affascinano i tribunali rivoluzionari di giacobina memoria, l’idea di processi di piazza, gogne mediatiche e sputi “virtuali”.

Si è così finito per parlare poco di Europa, mentre invece è solo dentro questa istituzione che possiamo avere un futuro e sperare in una ripresa agganciata, ad esempio, alle molte opportunità garantite dall’utilizzo dei fondi europei. Per cui la questione è riuscire a sfruttare queste occasioni, non uscire dall’Euro. Il processo di unione europea ha visto l’Italia protagonista assoluta e non c’è proprio niente da vergognarsi nel ricordare che questa Istituzione ha garantito pace e libertà laddove c’era una guerra ogni trent’anni. Sbaglia chi pensa che la storia non potrebbe ripetersi.

Certo, l’Unione Europea va cambiata. Proprio per questo è importante andare a votare e cercare di mandare a Bruxelles rappresentanti competenti. Serve un voto contro gli avversari più insidiosi: l’astensionismo e il populismo. Serve innanzitutto partecipare, che è il sale della democrazia.

Ovviamente confido in una buona affermazione del Partito Democratico, che con tutti i suoi difetti (sui quali a volte piace indugiare, anche troppo, in primis ai suoi elettori), si sta dimostrando forza politica affidabile e responsabile. In questo difficile e convulso tornante della vita politica italiana, il Pd ha garantito stabilità e impedito pericolosi salti nel buio. Questo gli va riconosciuto, insieme allo sforzo concreto per realizzare le riforme strutturali da decenni auspicate.

Un’ultima considerazione, in chiave prettamente locale e senza alcuno spirito polemico, per i promotori del Comitato per il mantenimento dello svincolo. Anche alle elezioni politiche dell’anno scorso, l’idea di chi organizzò il ritiro delle tessere elettorali era far sì che il prefetto si chiedesse il perché della scarsa affluenza alle urne. Per l’elezione della Camera dei Deputati votarono 1.156 elettori su 3.075 aventi diritto, ma non mi risulta che i sonni del prefetto o di altri siano stati da ciò minimamente turbati.

Buon voto a tutti.

Condividi

Click

Il mio vero nome danza con il vento. Gli è stato sussurrato tempo fa mentre mi spettinava i capelli, cullato da braccia che non conoscevo. Un padre non l’ho mai avuto, nei ricordi asciutti di mia mamma si faceva vedere ogni due o tre mesi. Lei però non poteva raccontarlo a nessuno che il suo uomo era tornato a casa. Restava acquattato sotto una botola nascosta sul retro per un paio di giorni, lì gli veniva portata una scodella di kabuli pulao e un po’ di carne di pecora, poi ripartiva. Senza neanche salutare.
Per i miei fratelli nostro padre era un fagotto tiepido calato nel buio di una buca. Due occhi lucenti come stelle lontane, che non sai se vedi o stai soltanto sognando, che il bisogno di infinito rende familiari. Due mani mute e terrose che di notte arrivavano e di notte svanivano.

Avevo tre anni quando mandarono a chiamare mia madre per farle riconoscere un corpo mutilato. Era lui, saltato in aria con il furgone diretto a un campo di addestramento. Finalmente aveva coronato il sogno di diventare un martire della jihad, anche se non aveva trascinato con sé nemmeno uno degli infedeli che due giorni prima volteggiavano sopra la sua testa china e stretta tra i gomiti, inseguita dalle raffiche del mitragliatore.
Il rumore di morte delle pale che tagliano a fette l’aria faceva già parte della colonna sonora della mia vita. Cinque anni dopo mi avrebbe sorpreso blindato tra le braccia di mia mamma, il viso nel rifugio del suo seno: non avere paura, ci sono io qua.
Fui l’unico a risvegliarsi, due settimane dopo in un lettino d’ospedale. Dov’era il villaggio, un silenzioso puzzo di stantio. Mia mamma e i miei fratelli, una storia sospesa.
Per tenermi buono Steve mi faceva giocare con la digitale che riprendeva la sua vita in bilico sulla torretta di un carro armato o sorridente tra pacchi di latte in polvere e scatolette da distribuire. I bambini stanno bene ovunque, anche in una caserma di militari dall’accento sconosciuto, se qualcuno si prende cura di loro.
Oggi immagino i contorni sfuocati del vecchio Steve nell’altra parte del mondo, mentre rivela ai figli che la verità spesso è questione di grandangolo. Ripenso alle sue ultime parole prima di andare, le lacrime a solcare gli zigomi cotti dal sole: Click, questa la lascio a te.

Mi piaceva il soprannome che mi aveva dato, lo porto addosso come un mantello che mi protegge dal mio passato, dalla strada che – lei – mi avrebbe certamente scelto. E mentre cerco di stare il più vicino possibile all’orrore, affido i miei quindici anni alla buona sorte e alle mimetiche che mi circondano. A sera avrò tempo per rivivere le vite di tutti e venderle alle agenzie di stampa.
L’obiettivo della macchina fotografica sono i miei occhi. Altro non vedo, fuori dalle fiamme di un inferno che non mi spaventa più, che è la mia stessa pelle; fuori dal sangue che chiazza strade e campi, come inchiostro rovesciato a inzuppare. I colori giocosi dei fiori, il sole rosseggiante che va a dormire dietro al mare, il sorriso di perla dei bambini li fotografo di notte, quando ricamo una trama diversa unendo le crepe del soffitto.
Ma il mio destino è là fuori, annodato a questo dito che scatta e scappa, che nelle immagini della morte si ostina a cercare la vita di domani. Se vincerà il prossimo duello, mirino contro mirino.

Condividi

Il pasticciaccio di Scilla

Forse si sarebbe usciti alla prossima partita, poteva starci contro la seconda forza del campionato. Anzi, no: si sarebbe usciti sicuro. Mettiamola così. Ma il gioco è questo: una squadra vince e l’altra perde. Gli sconfitti fanno i complimenti ai vincitori. Applausi. Invece sembra essere andata diversamente. Perché le squadre erano tre e due “puzzerebbero” di biscotto bruciato, preparato per impedire al Sant’Eufemia di accedere ai play-off di Terza categoria. Terza categoria, ripetiamolo per dare la misura delle cose. Che è quella dei campi polverosi della provincia.

La versione ufficiale parla di una svista. Non se ne sono accorti di essere scesi in campo con un fuoriquota in meno, perché un caso di omonimia avrebbe fatto schierare il giocatore sbagliato. Ma la Scillese, assicurano, la partita contro il Real Messignadi l’ha giocata sul serio, tanto da avere chiuso la pratica con un tennistico 6-2. Il sospetto però è che sia stato tutto architettato per poter comunque festeggiare con una vittoria davanti ai propri tifosi la conquista del campionato. Oltretutto, una sconfitta casalinga avrebbe destato comprensibili sospetti.

Neanche l’arbitro ha notato il pasticciaccio. Quelli del Messignadi invece sì. Scafatissimi: ricorso e vittoria a tavolino. E per il Sant’Eufemia addio al sogno play-off. Nonostante il successivo reclamo della Scillese, che addebita all’arbitro la responsabilità per avere effettuato il riconoscimento dei giocatori soltanto durante l’intervallo.

Il giudice sportivo non l’ha scritto, ma il senso del rigetto del reclamo è impietoso: la toppa è peggio del buco, perché in questi casi la società è responsabile. D’altronde, chi compila materialmente la distinta ha un solo compito: verificare il rispetto delle regole sui fuoriquota.

Una vicenda che lascia l’amaro in bocca, nonostante la signorilità di Peppe Napoli, 35 anni da dirigente che andrebbero meglio rispettati, per tutto quello che rappresenta in termini di passione e valori trasmessi alle centinaia e centinaia di ragazzi allevati con l’amore di un padre verso i propri figli. Il presidente del Sant’Eufemia si è infatti limitato ad esprimere, in un comunicato, “disappunto per quanto in buona o cattiva fede accaduto”.

Viene da chiedersi quale sia il senso di un campionato di calcio di Terza categoria, se non quello di creare occasione di aggregazione tra ragazzi che altrimenti avrebbero ben poco da fare in paesi che offrono poco o niente. Perché Terza, Seconda o Prima categoria cambia davvero poco. Finisce tutto, se a questi livelli il risultato viene prima della funzione sociale dello sport. E finisce tutto soprattutto per società come il Sant’Eufemia, autogestite e portate avanti da gente innamorata del calcio come Peppe Napoli e Franco De Luca, un educatore prima ancora che un allenatore, attento agli aspetti della responsabilità e del rispetto più che ai tre punti.

I play-off avrebbero rappresentato, soprattutto per i ragazzi, la meritata ricompensa per i sacrifici di un’intera stagione. Niente di più. “Preferisco perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati”, ma forse non tutti sono d’accordo con Pier Paolo Pasolini.

Condividi

I fotogrammi della vergogna

Avrebbero fatto meglio a silenziare l’audio. Ci saremmo risparmiate le castronerie di Somma, che derubrica a “atto vandalico” un bollettino da faida: sette colpi di pistola e tre feriti, uno dei quali in codice rosso. Non avremmo neanche ascoltato la minimizzazione di stato divulgata dalla questura per gettare acqua sul fuoco: “un episodio che non ha niente a che fare con la partita di calcio”.

Avrebbero fatto meglio a lasciare parlare immagini che non hanno bisogno di alcun commento, perché sono l’emblema della sconfitta del calcio. Che ormai da tempo è lo sport più bello del mondo solo nella mente delle agenzie pubblicitarie. Mentre, in Italia, è quello che tutti abbiamo visto ieri sera: un ostaggio nelle mani del Genny ’a carogna di turno. La cui resa viene rilanciata senza pietà dalla stampa internazionale: “il figlio di un camorrista ha deciso che la finale di Coppa Italia si può giocare”.

Le immagini della vergogna incorniciano il capitano del Napoli circondato dagli steward e in delegazione ai piedi di un pluripregiudicato assiso su una grata della curva Nord dell’Olimpico, che infine annuisce, stile don Corleone quando il consigliori Tom gli sintetizza all’orecchio il problema del mafioso che ha chiesto udienza. E pazienza per quella scritta sulla t-shirt nera inneggiante alla liberazione dell’ultrà assassino dell’ispettore di polizia Filippo Raciti. Pazienza anche per i razzi e i petardi che fanno scappare subito dopo tutti, ricordando, a ogni buon conto, chi comanda.

Basta con le stucchevoli analisi sociologiche sulla violenza della società contemporanea, sul lavoro che non c’è, sul disagio sociale, sulla rabbia che cova sotto la cenere e cerca sempre uno sfiatatoio. La questione è molto più semplice, nella sua brutalità. Il problema, annoso, è il rapporto perverso tra società di calcio e tifo organizzato. È nelle complicità, nell’omertà, nella “convenienza” che spinge una società di calcio ad avere rapporti opachi con questi figuri.
Qual è la logica che porta l’allenatore Seedorf ad incontrare gli ultras del Milan dopo la sconfitta con il Parma? Se a me non piace l’ultimo film di Robert De Niro, al massimo decido di non guardare il successivo, per ripicca. Ma non vado ad attendere l’attore sotto casa per chiedergli conto di una interpretazione che non è stata di mio gradimento o per suggerirgli quali ruoli accettare in futuro.

Ci sono interessi economici, legati all’indotto economico che l’evento calcistico genera in uno stadio, sui quali il tifo organizzato mette regolarmente le mani con la compiacenza delle società di calcio. Per questo motivo ai cancelli non passa la bottiglietta dell’acqua del bambino, ma entrano bombe carta, bulloni, catene e motorini da lanciare dal secondo anello. Per questo motivo, se gli ultras chiedono ai propri giocatori di togliere la maglietta perché considerati indegni, quelli la tolgono. In lacrime, ma la tolgono. E basta con la balla dell’onore ultrà: non c’è niente di “onorevole” negli scontri violenti con la tifoseria avversaria o con le forze dell’ordine, e neanche nelle razzie agli autogrill di teppistelli che assaltano gli scaffali ed escono senza pagare, con le tasche gonfie di cioccolatini, caramelle, souvenir.
Gli ultras violenti non sono tifosi esagitati, che “vivono” in maniera più intensa degli altri la partita della squadra del cuore. Sono criminali, delinquenti da perseguire con il codice penale, non con le carezze del Daspo o con le assurdità burocratiche della tessera del tifoso. Altrimenti a farne le spese sarà sempre chi ama davvero il calcio e, ad ogni partita, torna a casa con in bocca il retrogusto amaro della delusione per una storia finita.

Condividi

Un tuffo dove l’acqua è più blu

Cosa vuoi che sia un salto per un ragazzino di Bagnara, il primo maggio. Erano in due, li ho visti da lontano, mentre passeggiavo sul lungomare, e ho capito subito quello che volevano fare.
Ho cercato di cogliere quell’attimo e mi sembra di esserci riuscito.
Prima di pubblicare la foto ho esitato per diverse ore. Poi mi sono convinto: no, non mi sembra riconoscibile. Inoltre: no, non è un cattivo esempio.
Da piccolo saltavo da muri che sembravano altissimi, mi arrampicavo sugli alberi, guadavo la fiumara, attraversavo la galleria mentre arrivava la littorina. Lo facevo insieme a molti altri ragazzi e siamo tutti qua. Tutti qua, con forse meno libertà.
Ecco, nel volo di questo ragazzino io vedo solo libertà.
E mi commuovo.

Condividi

L’ultimo sorso

Chissà in quale nascosto cassetto della memoria si trovavano sepolte quelle parole. Emerse all’improvviso dai fondali dei ricordi, come quella foto in bianco e nero tra le lenzuola del corredo da sposa della nonna, gli occhi di suo padre sbarrati per il bagliore del magnesio, nel vecchio baule che raccoglie quel che è rimasto dei suoi ottantadue anni.

Rivedo il sorriso di mio padre ad addolcire il tono secco di un rimprovero che era solamente apprensione per le due bolle spuntate in un attimo su pollice e indice della mia mano destra.
– Ma come fai ad essere così stupido? Come ti è saltato in testa di toccare le dieci lire che coprono il buco del piano cottura della stufa a legna?
E poi quel rimedio antico e improbabile. Ché non ci ho mai creduto potesse realmente essere efficace, ma sono molte le cose in cui non ho mai creduto. Nonostante l’età.
La proprietà disinfettante della pipì sulle escoriazioni, ad esempio. O il prodigio del latte degli scartagnoli per fare crescere le dimensioni dell’uccello. Cose così.

Eccomi allora con le due dita immerse dentro un bicchiere di vino. Quel rosso che nel tempo sarebbe diventato il mio migliore amico. E che ora è accomodato accanto a me, lato passeggero di questa vecchia auto scassata. Lo berrò fino all’ultima goccia, mi servirà.

Che buffo questo ricordo, ora. Nello specchietto retrovisore intravedo un ghigno che riconosco e al quale tento di aggrapparmi, prima di affondare. Nei film è tutto diverso, arrivati a questo punto il protagonista sfodera sempre la battuta memorabile che lo consegnerà alla storia. Che tutti ripeteranno come un mantra.
Io no. Con l’accendino in mano, i vestiti e il sedile inzuppati di benzina risento la voce di mio padre, saltata fuori da quel cassetto che non sapevo: devi averne preso da tua madre!
Non lo so da chi ne ho preso. Non so niente, ormai. Posso solo immaginare il puzzo di bruciato del mio futuro. Il rumore sordo dei sogni franati. Il sapore aspro delle promesse non mantenute. Come un limone che sei costretto a mandare giù, cercando di non fare neanche una smorfia.

Ho portato tutto con me, in questo autodafé finale che è la ragionevole condanna per i miei peccati. Il più grave, la fiducia nella mia forza di volontà e nel mio spirito di adattamento.
Eppure è volato un anno senza lavorare, senza portare un soldo a casa. Un anno di lacrime, quelle di mia moglie. Per le bollette scadute, l’assicurazione della macchina non pagata, lo sguardo scocciato del fruttivendolo, le parole sussurrate dai vicini al mio passaggio veloce a filo di muro, come un topo sfuggente agli occhi.
– Mi spiace, non posso più tenerti. Neanche in nero. Tra un po’ chiudo e mando tutti affanculo, non ha senso andare avanti così.

Spiace anche a me, cazzo. Dopo che ti ho fatto il servo per anni e mai ferie pagate, contributi, malattia. Niente di niente. Per seicento euro al mese. Farei lo stesso lavoro per metà stipendio, ora. Ma non si può, mi dici. E allora sono io a mandare tutti affanculo, anche se mi dispiacerà.
Eccome se mi dispiacerà. Restano sempre troppe cose da fare, troppe parole che non si è avuto il tempo di pronunciare. Troppe pagine di libri da leggere che mi avrebbero consolato, credo.
Un ultimo sorso e si va: l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.

Forse sarà come molti anni fa sul letto di un ospedale. Il fuoco dentro il corpo e la perdita dei sensi, il materasso un buco nero che inghiotte tutto. Fallimenti compresi.
Deve essere proprio così la morte. Una discesa folle aggrappato a un cavallo impazzito.
Prosit.

Condividi

Seminatori di bellezza

Restare o partire. Non c’è molto da girarci attorno, il dilemma è sempre quello. Non ci sono più le valigie di cartone, certo. E fortunatamente il progresso tecnologico ci fa sentire a casa anche a 10.000 chilometri di distanza. Un po’ di coraggio serve, però. La stessa dose richiesta per rimanere, del resto. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”, ha ricordato la docente di italiano Carmelà Cutrì prendendo a prestito le parole di Cesare Pavese in La luna e i falò. Purché queste non diventino un invito alla diserzione (“tanto da questo posto andrò via”), poiché “non esistono luoghi migliori o peggiori; esistono luoghi in cui i cittadini credono, a cui danno valore, per i quali si spendono e si mettono in gioco”.

Il richiamo a vivere la propria comunità con passione e responsabilità ha fatto da leitmotiv all’evento “Per il nostro bene comune”, realizzato dal Centro Servizi per il Volontariato “Dei due Mari” e dalla due quarte classi del liceo scientifico “Fermi” in collaborazione con l’amministrazione comunale e le associazioni di volontariato “Agape” (Sant’Eufemia) e “Asproverde” (Sinopoli). Maria Grazia Manti, responsabile del settore promozione del Csv, ha spiegato la genesi del progetto, abbozzato già in occasione della premiazione della fotografia presentata nella passata edizione del concorso fotografico “Scatti di valore”: un albero fiorito accompagnato dal messaggio “Considero valore… far fiorire il presente”. È iniziato tutto da quello scatto, hanno spiegato i ragazzi nei loro interventi: uno sguardo fuori dalla finestra e la sensazione di avere anche dei doveri nei confronti del proprio paese, a partire da quello di contribuire ad animare quei potenziali punti di ritrovo che l’incuria rende poco attraenti. Un progetto sviluppato in tre fasi: l’osservazione “con occhi nuovi” della realtà in cui si vive; lo studio di due vicine esperienze di cittadinanza attiva (cooperativa sociale “Felici da matti” e l’associazione di volontariato “Roccella in movimento”); l’incontro a scuola con il sindaco Domenico Creazzo, sottoposto a un forcing di domande sulle problematiche del territorio.

Proprio la sala consiliare del palazzo municipale ha ospitato l’evento conclusivo, con gli studenti protagonisti assoluti e applauditi. I componenti della band impeccabili nell’esecuzione dei brani proposti e le “voci narranti”, che hanno raccontato cosa comporta una visione più profonda della realtà e il senso di responsabilità che ne deriva. Un originalissimo diario di bordo fatto di parole e sentimenti, cui il sindaco Creazzo si è richiamato per invitare i giovani a partecipare alla vita della cittadina con passione, coraggio e responsabilità, doti indispensabili per trasformarsi nei “costruttori di bellezza” invocati nel suo intervento dal presidente del Centro comunitario “Agape” di Reggio Calabria, Mario Nasone.

Ai saluti e ai ringraziamenti del professore Pietro Violi è seguita l’emozionante descrizione delle parole subito dopo “seminate” sul prato della pineta comunale insieme ad alcune piantine, l’esecuzione della canzone “Domani” degli Artisti uniti per l’Abruzzo e la chiusura del direttore del Csv, Giuseppe Pericone.

Condividi

Petali

Il mio posto è tra il tuo giubbotto e il vento, gli occhi a fissare in alto quel sorriso affaticato che conosco. Che indossi sempre quando hai paura di rivelarti nudo, di essere letto. Decifrato. Punture di freddo sulla faccia, come aghi di pino. E il mare che non fa niente per piacere, avido di sabbia invernale e lattine arrugginite, cocci levigati di vetro verde e mozziconi consunti, falò arsi sotto la luna gigante. Lacrime e parole di esistenze spiaggiate, le nostre.
Essere stanata dal tepore del mio rifugio è un gioco triste che soddisfo con calcolata cura. Mi ritrovo aggrappata ai tuoi pensieri, nuvole in fuga da una quotidianità che ci manca. L’attesa del gorgoglio della moka sul fornello, i nostri volti illuminati a intermittenza su vetrine sorridenti, strade da percorrere a passo lento. Ogni volta che lo desideriamo.

Ti ho cercato pur sapendo di non poterti trovare. L’ho fatto nuovamente. Ma lo dovevo a me stessa. Alla donna che ero, non certo a quella che sono diventata. Improbabile sotto questa maschera che mi dipinge felice in un mondo ideale, a canticchiare sopra la musica che altri suonano per me. Come fosse perfetta sinfonia e non uno sguaiato lamento di olocausto. Lo dovevo alla mia sfrontataggine e allo stupore che ti procurava, sempre. Lo devo all’ostinazione di un finale che reinventiamo di volta in volta, per darci ancora una possibilità.
Anche se non ho mai creduto a quella storia sul perdono, che va bene per il buio di una sala, gli occhi umidi e i singhiozzi soffocati fino al riaccendersi delle luci. Per perdonarti avrei dovuto sopravvivere ai miei fantasmi. Per perdonarti e per poterti ritrovare. Trovarti com’eri prima, intendo.

Mi aggrappo a un sogno solo mio, inseguito di stazione in stazione, senza alla fine crederci più di tanto. Ravvivato da quel poco di ombretto a sfumare che nasconde i miei anni e le tue colpe. Un trucco che amiamo entrambi. E che somiglia alla sapienza delle rondini, si manifesta quando è ora di partire. Loro tornano sotto lo stesso balcone, per ricominciare dalle macerie di un cerchio disegnato. Io mi riannido tra una camicia e una lampo. Lì intravedo l’idea di noi, sbiadita. Come se tutto fosse successo ad altri, non a noi che pure avvertiamo il sapore salato della nostalgia, desiderio di cielo azzurro e sole e calma. Di auto parcheggiate e corpi sudati. Di corse a inseguire la libertà. Di notti incollati a due cornette. Di incoscienza che era coraggio.

Ora vado, non provare a trattenermi. Tanto lo sai che tornerò. Coloriamo parentesi con la cocciutaggine dei bimbi piegati sul foglio, l’avambraccio sdraiato per non fare copiare il compagno che pressa accanto per sbirciare. La promessa del ritorno è l’unica certezza che possiamo permetterci, l’illusione di una vittoria assurda. Abbiamo vinto perdendo, come petali che resistono, soffiati altrove.

Condividi

Per il nostro bene… comune

Di seguito il comunicato stampa del Centro Servizi per il Volontariato e del Liceo scientifico “Enrico Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che pubblico volentieri e con l’invito alla più ampia divulgazione.
Sabato tutti in pineta!

“Per il nostro bene… comune”

Evento di animazione e cittadinanzattiva a cura degli studenti delle quarte classi del Liceo Scientifico “Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC)

È questo il titolo dell’evento che, sabato 5 aprile a partire dalle ore 10.00 presso la Pineta Comunale, vedrà gli studenti delle quarte classi del Liceo Scientifico di Sant’Eufemia d’Aspromonte mettere in gioco valori, entusiasmo, energie e talenti per animare e dare vita ad un luogo che rappresenta un bene comune per tutta la cittadinanza.

L’iniziativa vuole essere un momento di sintesi e di condivisione di una micro-azione sperimentale promossa dal Centro Servizi al Volontariato di Reggio Calabria in collaborazione con la Dirigenza e lo staff-Docenti del Liceo aspromontano nell’ambito del più ampio ed ormai consolidato progetto di promozione del volontariato giovanile denominato “Scatti di Valore”.

“Per il nostro bene… comune”, infatti, è il risultato di un percorso ideato e sviluppato dal CSV su impulso degli stessi studenti e docenti di Sant’Eufemia, nato per promuovere consapevolezza circa le potenzialità materiali ed immateriali del territorio nonché per testimoniare un modo nuovo di abitare i luoghi e di prendersene cura, contribuendo così allo sviluppo dei territori ed all’accrescimento del ben-essere delle comunità, a partire proprio dalla capacità di mobilitazione delle nuove generazioni.
L’evento, affermando valori e rafforzando legami, vuole essere anche l’occasione per incentivare processi collettivi di partecipazione, cittadinanza responsabile ed impegno civile nelle comunità di Sant’Eufemia e della vicina Sinopoli.

Dopo i saluti istituzionali, protagonisti assoluti saranno i giovani studenti: il programma prevede infatti un prologo musicale a cura della band del Liceo e, subito dopo, uno speciale “Racconto di viaggio” durante il quale i ragazzi narreranno a più voci il percorso che ha portato a questa giornata, le emozioni vissute, le scoperte fatte e le cose imparate durante il cammino, nonché gli spunti e le idee per progettare il domani.

A seguire, gli studenti daranno vita ad un reading per presentare i valori che, alla luce del percorso fatto, desiderano seminare e che si impegnano a coltivare attraverso azioni concrete, con l’aiuto delle associazioni di volontariato, delle istituzioni e di tutta la comunità.

E proprio per simboleggiare questo desiderio di impegnarsi a far fiorire l’oggi ed il domani dei luoghi in cui vivono, i ragazzi pianteranno in tutta la Pineta valori e fiori: un momento evocativo e simbolico a suggello del percorso fatto e raccontato, un momento al quale tutta la comunità è invitata a partecipare.

Condividi