Mozione contro la riapertura della discarica di contrada “La Zingara”

La mia richiesta segue quella analoga presentata da Adone Pistolesi, del gruppo consiliare “Rinascita per Bagnara”, in occasione del consiglio comunale tenuto a Bagnara il 30 dicembre 2019 (la cui votazione è stata rinviata). Essa segue ad altre due mie azioni sulla vicenda: la prima (2 settembre 2019), la richiesta al sindaco Creazzo di “farsi promotore di un’iniziativa (un incontro o un consiglio comunale aperto) che coinvolga le realtà associative della nostra comunità e la sua popolazione, per fare il punto della situazione e per valutare quali eventuali azioni possiamo tutti insieme intraprendere per difendere il nostro territorio”; la seconda (12 dicembre 2019), una nota nella quale lamentavo che “ad oltre tre mesi di distanza questo auspicato coinvolgimento dell’opposizione, delle realtà associative e della popolazione di Sant’Eufemia” non c’è ancora stato. Ritengo che una determinazione ufficiale da parte del consiglio comunale possa essere utile e rafforzare la posizione di contrarietà alla riapertura della discarica espressa dal sindaco Creazzo in diverse circostanze.

Al Presidente del Consiglio comunale
di Sant’Eufemia d’Aspromonte

Mozione: Richiesta di inserimento, come punto all’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale, di una mozione contro la riapertura della discarica in contrada “La Zingara”, nel comune di Melicuccà

Premesso
che
con una nota stampa del 2 agosto 2019, il Settore rifiuti della Regione Calabria ha comunicato la volontà di riaprire entro 24 mesi la discarica di contrada “La Zingara”, ricadente nel comune di Melicuccà, ma confinante con Sant’Eufemia d’Aspromonte e con Bagnara Calabra;
tra la popolazione e gli operatori economici del territorio ha generato molta preoccupazione il dissequestro della discarica, permanendo forti perplessità circa l’impatto negativo che la stessa, situata alle porte dell’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte, avrebbe sotto il profilo ambientale, turistico ed economico;
già in anni abbastanza recenti le popolazioni locali hanno manifestato la propria contrarietà, mettendo in campo diverse iniziative di protesta che portarono al sequestro della discarica stessa;
è necessario mettere in campo una serie di iniziative conseguenti, con il coinvolgimento della popolazione, delle associazioni del territorio e delle amministrazioni dei Comuni limitrofi
Chiedo
l’inserimento, come punto all’ordine del giorno del prossimo Consiglio comunale, di una mozione contro la riapertura della discarica di contrada “La Zingara” di Melicuccà.

Il Consigliere comunale
Domenico Forgione – “Per il Bene Comune”
Sant’Eufemia d’Aspromonte, 31 dicembre 2019

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Buon 2020

Buon anno
a chi non ci sperava
a chi vede il bicchiere mezzo pieno
a chi stringe forte quando abbraccia
a chi si prende cura degli altri
a chi rispetta la natura
a chi non odia
a chi fa collezione di attimi
a chi canta sotto la doccia
a chi singhiozza nel buio di un cinema
a chi ripensa al finale di un romanzo
a chi crede in qualcosa
a chi non smette di cercare
a chi ama
a chi corre per strada
a chi danza sotto la pioggia
a chi si commuove guardando le stelle
a chi si fa cullare dal silenzio
a chi trattiene il fiato
a chi fa sogni colorati
a chi tenta la giocata di tacco
a chi beve in compagnia
a chi si ribella
a chi trova una ragione per sorridere
a chi pianta un seme
a chi resiste e vive, vive e resiste.

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Buon Natale

Don Tonino Bello ci insegna che le ferite sono un’occasione speciale nella vita di ciascuno di noi, se siamo capaci di trasformarle in feritoie attraverso le quali farvi passare nuova luce. La bravura sta nel riuscire a cogliere il bagliore, nell’aprire i cuori al cambiamento che quelle ferite reclamano. E quale occasione più suggestiva della Natività? Vivere è rinascere ogni mattina, dare alla propria esistenza un senso, ricercare nuovi orizzonti.
Siamo all’altezza di un impegno così gravoso? Non possiamo saperlo, ma abbiamo il dovere di provarci. Il dovere di farlo guardando al bimbo della mangiatoia. Un neonato che parla a tutti, credenti e non credenti, con la potenza del suo messaggio di pace e di amore. Contro ogni violenza fisica e morale, contro ogni forma di sopraffazione, contro ogni tentativo di comprimere la personalità altrui. Contro le volgarità, le offese, le parole che diventano clave. Contro l’indifferenza, il male peggiore di questa nostra società.
La pace nasce dall’incontro con l’altro. Dalla chiusura nel recinto degli egoismi e degli interessi nasce la desertificazione dell’anima. Come in guerra: “hanno fatto il deserto e lo chiamano pace”. Le immani tragedie della storia sembrano non avere insegnato niente.
Occorre uno sforzo. Non girarsi dall’altra parte, non pensare che riguardi sempre altri distanti da noi. Sentire su di sé le ingiustizie del mondo. Ricercare i volti. Spogliarsi della propria identità e indossare i vestiti dell’altro. Riconoscere la dignità ad ogni individuo che si incontra nel proprio cammino. È aberrante l’idea che anche soltanto un membro del genere umano possa essere considerato un rifiuto della società. Purtroppo accade, oggi come ieri. Ma la cultura dell’odio e dello scarto, più volte denunciata da Papa Francesco, si può sconfiggere soltanto con la solidarietà: è lei la strada capace di condurre ad un mondo più giusto.
Non ci sono alibi. Viviamo in quest’oggi e con esso bisogna fare i conti, tenendo bene a mente le parole di Sant’Agostino: «Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi».
Auguri

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Il mio albero di Natale

Il mio albero di Natale è del 1972 e arriva dall’Australia. Cinque anni dopo viaggiò verso l’Italia insieme a ciò che rimaneva degli anni vissuti nella terra “down under” dai miei genitori: tra le altre cose, tre bambini. Un alberello transoceanico, che mamma e papà avevano acquistato per festeggiare il loro secondo ed estivo Natale australiano.
Anche la gran parte dei suoi addobbi solcò l’oceano, in uno dei bauli che da Fawkner, alle porte di Melbourne, riportò in Italia pure il corredo matrimoniale della ragazza dai lunghissimi capelli neri.
Ogni anno aspetta il suo momento, certo che arriverà. Qualche volta è stato tirato fuori il 23 o addirittura il 24 dicembre. Quegli anni che non hai tanta voglia di festeggiare. Senza, sarebbe stato comunque qualcosa di definitivo e irredimibile. Meglio esserci, anche senz’allegria.
Non è soltanto un albero. È il riassunto di tante vite. Una storia della quale vado fiero, ma che è possibile rileggere negli occhi di chi, in ogni angolo della terra e in qualsiasi tempo, cerca con dignità di costruirsi la speranza di un futuro migliore. È “fare e disfare… battere e levare”: la strada fatta, le corse e le frenate. Ricorda da dove veniamo e quanto sia importante non smettere mai di inseguire un sogno o una possibilità.
Da quando ci sono i miei nipoti, tocca a loro sistemare luci, palline, nastri e qualche nuova decorazione. Un lungo filo rosso tenuto da più mani.
Si vive di gioie talmente piccole che spesso sgusciano via silenziose. E invece soltanto di quelle ci ricorderemo, come alla fine è chiaro anche a Scrooge nel Canto di Natale di Dickens. Le piccole cose che riempiono la vita.
Sul mio albero ci attacco i miei anni. Uno dopo l’altro. Ci appendo gli sprazzi di gioia e le nuvole di tristezza, le carezze di chi c’è e quelle di chi non c’è più.
Le sue lucine sono desideri che si accendono e si spengono. Tanti inseguiti e altrettanti abbandonati, seguendo l’umore dei momenti vissuti o lasciati andare. Vicini o lontani. Vicini e lontani.

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Sul movimento delle sardine

Ho letto con attenzione un articolo non molto tenero nei confronti del movimento delle sardine, inviatomi ieri. In alcuni passaggi mi è sembrato ingeneroso, se non astioso. In altri qualcosa di condivisibile c’era. Complessivamente, io ritengo che questo movimento possa rappresentare una novità positiva, quantomeno per la ventata di freschezza portata nella cloaca politica che è diventata l’Italia.
Il movimento delle sardine, come quello dei grillini delle origini, è l’effetto di una politica che da troppi anni non dà risposte e che, soprattutto, non riesce a scaldare i cuori; l’effetto della crisi dei partiti politici, che tra le tante colpe ne recano una a mio avviso gravissima: quella di non fare il proprio mestiere, cioè formare e selezionare una classe dirigente degna di questo nome. Ciò comporta la nefasta considerazione che un partito vale un altro, che ieri si poteva essere democratici e oggi sovranisti. Abbiamo davanti a noi una politica senza valori, nella quale finiscono giocoforza per prevalere furbi e cinici. Con la complicità interessata di chi quella selezione dovrebbe farla, ma anche con la sostanziale acquiescenza di cittadini che, evidentemente, votano tutto e il contrario di tutto perché della coerenza non sanno che farsene.
Tornando al movimento delle sardine, a me interesserebbe comprendere lo sbocco politico della protesta, il passaggio dalla pars destruens a quella construens. Non si può ridurre la ragione politica di un movimento all’antisalvinismo e all’antisovranismo, che rappresentano certamente due paletti identitari e sentimentali molto forti. Per andare oltre il riempimento di una piazza (che comunque non è cosa di poco conto), sarebbe necessario uno scatto ulteriore. L’indisponibilità a scendere in prima persona nell’agone politico rischia infatti di tradursi in velleitarismo perché, per dirla con Don Milani, “a che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?”.
Ho l’impressione che a Reggio e dintorni il movimento delle sardine raccolga molti grillini in uscita, a suo tempo avvicinatisi al M5S perché delusi dalla sinistra. Ennesima prova dell’incapacità dei partiti appartenenti a quel campo di intercettare la domanda di rinnovamento, di attenzione per l’ambientalismo, per l’etica politica e finanche per i valori della Resistenza e dell’antifascismo. Incapacità dovuta al fatto che – a volte a torto, spesso a ragione – eletti e dirigenti della sinistra vengono percepiti come casta sempre più distante dalla società reale, impegnata per lo più nella difesa di posizioni di potere personali o di banda. In sintesi, perché non sono considerati credibili.
Il movimento delle sardine rappresenta pertanto un disagio che a sinistra andrebbe ascoltato con molta attenzione, magari rinunciando alla tentazione di metterci strumentalmente sopra il proprio appello.

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Ancora sulla discarica di Melicuccà

Su diverse testate giornalistiche online, leggo che oggi il gruppo consiliare “Rinascita per Bagnara” ha chiesto di inserire all’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale di Bagnara una mozione che impedisca la riapertura della discarica di contrada “La Zingara”. Com’è noto, la discarica ricade nel territorio di Melicuccà, ma di fatto si trova pericolosamente nell’entrata del comune di Sant’Eufemia, al confine con la frazione Pellegrina di Bagnara.
Come gruppo consiliare di Sant’Eufemia d’Aspromonte “Per il Bene Comune”, il 2 settembre avevamo chiesto al sindaco Domenico Creazzo (prot. 4556) “di farsi promotore di un’iniziativa (un incontro o un consiglio comunale aperto) che coinvolga le realtà associative della nostra comunità e la sua popolazione, per fare il punto della situazione e per valutare quali eventuali azioni possiamo tutti insieme intraprendere per difendere il nostro territorio”. La risposta del sindaco, due giorni dopo, lasciava ben sperare: “La Vs. richiesta di un pubblico confronto sulla tematica in questione ci trova pienamente d’accordo, essendo questo un obiettivo già da tempo messo in conto da questa Amministrazione comunale nella ferma convinzione della necessità di valutare tutti insieme – amministratori, forze associative e cittadini – la strada da percorrere per impedire la concretizzazione di un evento che avrebbe conseguenze deleterie per il nostro territorio, già ampiamente penalizzato” (prot. 4608).
Spiace che ad oltre tre mesi di distanza questo auspicato coinvolgimento dell’opposizione, delle realtà associative e della popolazione di Sant’Eufemia non ci sia ancora stato. Continuo a pensare che in questioni così importanti l’unione davvero può fare la forza e dare più vigore alle dichiarazioni rilasciate qua e là dal sindaco.

*Nelle fotografie, le condizioni della discarica qualche mese fa.

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Dote e corredo in un contratto nuziale del 1800

Nel 1975 la riforma del diritto di famiglia ha abrogato l’istituto della dote, risalente al diritto romano. Pur tralasciando gli aspetti giuridici di tale antica tradizione, la lettura dei “contratti nuziali” suggerisce qualche riflessione sui cambiamenti sociali intercorsi non rispetto a millenni fa, ma soltanto a “ieri”, se si considera quanto relativamente vicino a noi siano quei tempi. Ciò vale un po’ per tutto, come costatazione generale: si pensi a quanto la società è cambiata nel campo del progresso tecnologico, mentre fino all’Ottocento la realtà – tutto sommato – era rimasta immobile per secoli. Per non dire dello sconvolgente ed impetuoso sviluppo digitale dell’ultimo trentennio. Chi c’era negli anni Ottanta, faccia caso a quante cose riesce a fare oggi – e in quanto poco tempo – semplicemente con il colpettino di un polpastrello sul display di un telefonino.
Il matrimonio per secoli è stato sempre uguale. I contratti nuziali venivano redatti davanti ad un notaio, alla presenza di parenti e testimoni. Il primo contratto nuziale redatto dal notaio Antonino Brancati è datato 23 marzo 1800 [Archivio di Stato di Palmi, b.39 – anni 1800-1811]: Antonia Calarco di San Roberto è definita “vergine in capillis”, espressione che indicava un’adolescente in età da marito o una donna ancora nubile: solo loro potevano infatti andare in giro con il capo scoperto, a differenze delle donne sposate che dovevano coprirlo con un foulard (“u muccaturi”).
La madre Anna Maria Calabrese (il padre, Antonio, era deceduto) dota la figlia di diversi beni, tra i quali: tre “saje”, due delle quali usate; due “giupponi” (“jippuni” o “iuppuni”: camicetta), uno nuovo color turchino, l’altro di vellutino blu usato; quattro tovaglie, una di mussolina (“musulina”: tessuto leggero, in genere di cotone) e tre di tela; cinque camicie, una di frandina (tessuto ottenuto dalla lana) e quattro di tela; tre cuffie, due di seta ed una di calamo; due paia di scarpe “a papuzze” (colori verde e nero); due paia di lenzuola di tela nuovi; una coperta bianca di cotone; un “anteletto” (avanti letto: più che come ornamento, serviva per non fare vedere ciò che c’era sotto il tetto); due “saladde” (tela ruvida in genere usata come coperta); due paia di cuscini, uno di frandina e l’altro “lestiato” (lino e cotone); una mutanda, un corpetto di calamo e seta, un paio di calzette di calamo; trenta ducati in contanti, più altri trenta alla morte di uno zio (venti) e della nonna (dieci) materna; per lo sposo un paio di mutande di tela “fimmanella”, un “gilecco” (gilet), un paio di calzini di calamo, un fazzoletto di tela, un paio di bottoncini.
Nunziata Tripodi, madre di Rosario Panuccio di Sant’Eufemia, “per l’amore che porta al medesimo”, dota anch’essa i futuri sposi di diversi beni. Per lo sposo: “un paio di vestimenti di vellutino a color acquamare usato”, un altro paio “di panno a color turchino usato”, cinque paia di mutande di tela usate; per la sposa: “un sajo di seta usata di color turchino”, “un giuppunetto di seta a color cremisi”, “un paio di pater noster di pietra, con la medaglia a filograna”, un paio di bottoncini d’argento, un puntale d’argento, diciassette ducati d’oro lavorato; un paio di fibbie d’argento “del valore di ducati tre”, metà casa “fintantoché non si farà una commoda abitazione per essi futuri sposi, a spese communi d’essa Nunziata e d’esso Rosario, di quella parte che piace a Donna Nunziata”. Poi una serie di oggetti utilissimi: una cassa vuota, una paletta, un tripode e quattro “zapponi”.
Era tanto? Era poco? Quel che è certo è che non tutti i novelli sposi stipulavano un contratto nuziale, visto che soltanto una ristretta minoranza possedeva qualcosa da portare in dote.

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Oliverio sì, Oliverio no

Da mesi e mesi il quadro politico del centrosinistra calabrese è avvitato sul quesito “Oliverio Sì – Oliverio No”. Non proprio uno spettacolo edificante. Messa così la vicenda si presenta come una questione personale, più che politica. E forse lo è. La gestione del Partito democratico in Calabria nella legislatura che si sta per concludere è stata fallimentare. Lo certifica la fuga di diversi consiglieri regionali e di personalità che in questo quinquennio vi hanno giocato un ruolo di primo piano. I nomi di questi signori è possibile verificarli nelle cronache politiche di questi ultimi mesi, caratterizzati da copiose transumanze e dal fiorire di associazioni e movimenti che ruotano attorno ai fuorusciti, ovviamente già collocati o in cerca di collocazione in altri più accoglienti e (prevedono) vincenti lidi.
D’altronde, quando ciò che tiene insieme è soltanto il potere, quando manca la visione su ciò che si è, su ciò che si vuole fare e a vantaggio di chi, un partito finisce col diventare il contenitore di un pastone indigeribile.
Leggo di dirigenti del partito che ora, soltanto ora, chiedono una discussione. Giusto, giustissimo. Tuttavia, mi chiedo dove fossero questi dirigenti quando gli si faceva notare lo snaturamento del Pd, che si era consegnato al peggior trasformismo locale e aveva mortificato la storia di esperienze genuine. Allora si preferì mettere la testa sotto la sabbia e pensare che uno meno uno avrebbe dato zero: insomma, non sarebbe cambiato niente. E invece no: la matematica della politica poggia su teoremi più complessi. Fatto sta che chi è stato mortificato si è allontanato, chi vi era entrato per opportunismo ha abbandonato la nave alla prima onda leggermente più alta. Tutto questo è avvenuto senza che vi sia stata un reale dibattito, a nessun livello, e calpestando le più elementari regole democratiche (ad esempio nei tesseramenti).
E però… quando la finiremo di essere trattati come colonia? Sul principio che a decidere debbano essere gli elettori di centrosinistra della Calabria non dovrebbero esserci dubbi. Solo su questo mi sento di essere d’accordo con i sostenitori di Oliverio, al quale già la volta scorsa fu fatto di tutto per impedirne la candidatura. Lo affermo da ex sostenitore dello stesso Oliverio che in quell’occasione dovette pagare un prezzo altissimo, politicamente ma anche in termini di rapporti personali. Da presidente di un seggio delle primarie che dovette ingoiare la sfilata di votanti assurdi. Guarda caso, il candidato a governatore che sostenevano è oggi schierato apertamente con il centrodestra.
Ma non è questo il tema. È un altro ed ha a che fare con valori democratici che bisognerebbe sempre tenere in mente. Piaccia o no (personalmente non mi entusiasma), quella di Oliverio è l’unica candidatura in campo, alla luce del sole, che non vive nelle ombre dei palazzi romani. Se ci sono altri che legittimamente aspirano alla candidatura si facciano avanti e non si nascondano dietro le indicazioni interessate del partito nazionale. Non si può essere democratici a giorni alterni, un giorno invocare le primarie e un’altra volta impedirle. Perché l’antipolitica ingrassa proprio laddove la politica non riesce ad essere credibile.

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Socialisti senza partito

Noi socialisti senza partito ci riconosciamo da alcuni piccoli dettagli. Ad esempio, dalla presenza nelle nostre librerie dell’Almanacco socialista pubblicato in occasione dei 90 anni del Psi. Il sottotitolo recita “Cronistoria, schede, commenti, documentazione sul socialismo italiano”: ed è una storia della quale io personalmente vado orgoglioso. Anche se dopo la tempesta del 1992-94 ognuno di noi ha preso strade diverse, nelle case che ci hanno accolto abbiamo sempre provato disagio. Come quegli ospiti che hanno l’impressione di non essere molto graditi e ricambiano con altrettanto fastidio. La diaspora non si è mai conclusa: noi socialisti siamo anime erranti con sola bussola la forza di idee e valori che sentiamo ancora vivi, nonostante non li abbiamo ritrovati compiutamente da nessuna parte. Ci accomuna la rivendicazione delle lotte e delle conquiste che quel partito seppe condurre per l’emancipazione politica e sociale del popolo italiano.
A me piace inseguire con la mente il lungo filo rosso che inizia con le lotte di Andrea Costa per la libertà di opinione e di associazione, per il diritto di sciopero e per la giustizia sociale in un’epoca in cui la legislazione del lavoro sostanzialmente non esisteva. Tutte cose che oggi diamo per scontate e delle quali, proprio per questo, non riusciamo a cogliere l’importanza. D’altronde i nomi luminosi di Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Antonio Labriola oggi non dicono quasi niente. Le lotte per la democrazia con i suoi martiri della libertà le abbiamo dimenticate: provate a chiedere chi furono Giacomo Matteotti o Bruno Buozzi. Eppure, viviamo in un paese libero grazie alla generazione dei socialisti che tra le due guerre non ebbe paura di sacrificare tutto ciò che aveva nella lotta contro la dittatura fascista: Pietro Nenni, Sandro Pertini e tantissimi eroi anonimi, uccisi o finiti al confino per un ideale.
Dopo la conquista della libertà, giunse il tempo di raggiungere livelli più avanzati di democrazia: lo Statuto dei lavoratori di Giacomo Brodolini e Gino Giugni, la legge sul divorzio di Loris Fortuna. Nel solco di quel riformismo che è stato il tratto prevalente nella storia del socialismo italiano e che negli anni Ottanta produsse l’unico concreto ed organico tentativo di modernizzazione del Paese, a partire dal suo assetto istituzionale.
Quella che portò al crollo della Prima Repubblica fu una crisi “di sistema” e la via giudiziaria al suo superamento fu una comoda scorciatoia per evitare di affrontare politicamente i veri nodi di quella vicenda, in primis la questione del finanziamento della politica, sollevata da Bettino Craxi con un discorso storico alla Camera il 3 luglio 1992, che nessuno in Parlamento osò controbattere.
Occorrerà ancora del tempo prima che su quella stagione si possa pronunciare un giudizio obiettivo, scevro da cedimenti emotivi. D’altronde, la contemporaneità è un limite quando si scrive di storia.
Non so se ha ancora senso l’esistenza di un partito socialista. So però che ha ancora senso lottare per la libertà e per la giustizia sociale, continuare a credere con Nenni che “il socialismo è portare avanti tutti quelli che sono nati indietro”.

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Tempo di partenze

Partono senz’allegria. Partono senza dolore. Sanno che si deve, come la medicina che va presa nonostante il suo sapore amaro. È una storia che si ripete, che si tramanda come gli occhi scuri o le spalle larghe. Sono le strade dei nostri nonni, dei nostri genitori. Di quelli rimasti a casa di Cristo e sepolti lontani. Di quelli tornati per i propri figli, perché a loro fossero risparmiati gli addii sulle banchine.
Invece no. Si parte ancora. Sui treni, con le auto, in aereo. Come un sortilegio. Giovani con i trolley imbottiti di speranza e adulti con gli occhi bassi della sconfitta. Senza rimpianti, le lacrime asciutte di chi comprende il senso dell’ineluttabilità. Anche il nodo in gola è meno acre. Per chi resta è un dolore sordo, da interpretare. Pensieri cattivi che si vogliono scacciare lontano, come nuvole spazzate dal vento; ed è inutile piangersi addosso. Non è più tempo di lamenti, né di rabbia.
Nessuno che li trattenga; nessuno che sia capace di lanciare lo sguardo al di là del proprio miserabile orizzonte. Terra persa, terra maledetta. Con i suoi tramonti mozzafiato, con il suo mare colore del vino, con i suoi alberi puntati contro il cielo. Terra bella e maledetta. Che non sa afferrare un braccio, che non sa dire “restate”.
È la sconfitta dell’amore. È una condanna ai ricordi e alle videochiamate, sul comodino i sassolini della spiaggia e le fotografie di una favola triste.
Tra poco sarà inverno, la stagione delle lunghe notti. Chissà quanto ancora durerà questo buio, se mai passerà.

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