La promessa

Pizzico queste sei corde, il loro suono accompagna la nenia senza tempo che mi sussurravi da bambino per farmi addormentare. Anche i mostri che il lume a petrolio proiettava sulla parete trovavano finalmente riposo, una pace che negli anni non ho più vissuto. Una tregua che vorrei siglare ancora, irricevibile a quanto pare.

Non lo so se riesci ad ascoltarmi, ma io sono qua. Per quanto possa esserti di conforto, proprio davanti a te. Forse è più utile a me, ma non importa. Importa il silenzio rotto dal canto di questa storia che sa di muffa e cimici. Storia non memorabile, ma mia: ciò che ero; ciò che sono.

Ti osservo con la devozione di un fedele inginocchiato ai piedi della statua muta. Ti guardo e attendo parole che so non arriveranno mai. Che mai potranno arrivare. Mi accontento del soffio che a fatica esce dal tuo petto e che sorreggo fino a farlo adagiare sopra le lenzuola candide. Lentamente, quasi accompagnandolo dal palmo delle due mani ai fiorellini ricamati sul lino. Come in una deposizione già vista. Devo accontentarmi di questo perché altro di te non mi rimane. Né molto di me, che ho rinunciato a tutto pur di tenere fede al nostro patto:

– Anche se non tu dovessi più essere capace di badare a te stessa, non ti porterò in ospizio. Stai tranquilla, mamma: te lo prometto.

Ti avevo appena raccontato del pranzo di Natale con gli ospiti della casa di riposo. Mi aspettavo pochi anziani, immaginandone la gran parte al tepore delle famiglie, arbitri delle rumorose corse ingaggiate dai nipotini per presentare i regali della mezzanotte:
– Guarda cosa mi ha portato Babbo Natale!

Invece erano tutti presenti, gruppo marmoreo dell’aridità e di una salvezza che stentiamo a riconoscere. Solitudini rassegnate, aspre, ignare. Lontane dallo squillo di voce che nel pomeriggio anticipava l’indicazione dei numeri sul tabellone. Lontane dal nostro dovere di umanità. Altrove.

Un Natale che ricorderò per sempre. Come quello dei miei otto anni, una tavola spoglia e niente da mangiare, neanche un pezzo di pane. Avevo adocchiato un deposito di patate da semina: tra il pensiero e lo scasso fu un attimo, cosicché cominciai a scegliere le migliori per portarle a casa, quando i miei occhi si posarono a terra, su di uno strano foglio color mattone piegato in quattro. Lo aprì e in quell’istante imparai ad amare Dante Alighieri, il cui profilo austero occupava il centro della banconota da 10.000 lire. Allora fu carne, come non ne vedevamo da Carnevale. Se chiudo gli occhi riesco a sentire le tue lacrime scorrere calde sulle mie guance. Le stesse di quando scappai di casa per due giorni temendo una tua punizione per quell’uovo che avevo rubato in un pollaio e bevuto d’un fiato, che invece tu sapevi stantio, lasciato sotto il culo della gallina per la cova.

Devo al Sommo Poeta il più bel pranzo di Natale della mia vita.

Vorrei regalartene uno uguale, per riassaporare ora quella felicità. Per diventare ancora una volta il tuo piccolo eroe. Mi aggrappo al ricordo della morbidezza del tuo grembo quel giorno, cercando di non farmi trafiggere dalle raffiche di nostalgia. E mi ritrovo a cullare i tuoi 38 chili in questo finale scelto insieme, che non mi permette di entrare nei tuoi occhi per scoprire cosa guardano quando mi fissi senza sorridere. Ma che contiene tutto ciò che c’è da sapere.

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Sulla vicenda dei Bronzi la penso così

Puntuale come il cd autunnale di Mina, l’estate 2014 ha portato in dono il sempreverde dibattito sulla trasferibilità dei Bronzi di Riace. Questa volta ci ha pensato l’ambasciatore per le Belle arti di Expo 2015 Vittorio Sgarbi a rispolverare la vexata quaestio, prima proponendo l’idea di un tour meneghino per i due guerrieri greci in occasione dell’esposizione universale e poi traducendo l’auspicio in una richiesta ufficiale – sottoscritta insieme al presidente della Lombardia Roberto Maroni – al ministro della Cultura Dario Franceschini, il quale ha preannunciato la costituzione di una commissione di esperti per decidere sulla trasportabilità delle due statue. Neanche a dirlo, la polemica è divampata immediatamente. Molte le reazioni stizzite: “chi vuole vederli deve venire a Reggio, a Milano si porti il David di Michelangelo e vediamo cosa dirà Renzi in proposito”, il senso di quelle più concentrate sul campanile. Non sono mancati però i possibilisti: “sarebbe una bella pubblicità per la città e una buona occasione per guadagnarci qualcosa”. D’altronde, dai sei mesi di visite al Padiglione numero 1 che dovrebbe ospitare i Bronzi, Sgarbi ipotizza un incasso di 15 milioni di euro, un terzo dei quali – assicura – potrebbe essere destinato alla città di Reggio.
Inevitabili, poi, anche le remore sulla fattibilità di scarrozzare le due statue senza rischiare di danneggiarle. Questo sì problema sul quale non ci si può dividere e preliminare rispetto a qualsiasi altra considerazione.

Assodata quindi la priorità della loro salvaguardia e al netto delle guerre di religione tra chi è pronto a fare le barricate per non spostarli dal museo di Reggio Calabria e chi è disposto ad accettare di spedirli in giro per l’Italia o per il mondo, il dato da cui bisogna partire, senza pregiudizi, è che i Bronzi – ora come ora – non creano turismo culturale, né indotto economico.
Perché è un bel dire “i turisti devono venire qua”, quando la verità inconfutabile è che i turisti a Reggio non vengono. Chi ha competenze tecniche e responsabilità di governo su questo dovrebbe confrontarsi, in modo da elaborare una proposta seria e realizzabile entro un paio d’anni. Avvitarsi perennemente in un dibattito inconcludente non risolve il problema; semmai, diventa un alibi all’inefficienza di chi doveva fare e non ha fatto, per negligenza o per incapacità. E, quindi, sarebbe forse più utile concentrarsi su come agire per rimuovere i molti ostacoli strutturali e incoraggiare il flusso turistico a Reggio.
Si potrebbe ad esempio pensare all’istituzione di una commissione per il rilancio e la valorizzazione del museo della Magna Grecia, composta da soggetti istituzionali e esperti del settore, alla quale affidare l’incarico di elaborare un progetto organico di sviluppo culturale della città in grado di colmare il gap di ricettività del territorio e di fruibilità dell’arte che Reggio sconta nei confronti di altre realtà nazionali e internazionali. Magari facendo ricorso proprio ai fondi garantiti dalla tournée dei Bronzi a Expo 2015 o da altre, limitate nel tempo, da svolgersi nell’ambito di eventi di eccezionale partecipazione.

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Otto

Scoprì molto tempo dopo che l’otto è il simbolo dell’infinito. E che pertanto avevo fatto bene a eleggerlo mio numero preferito in quel lontano autunno di grembiulini azzurri in fila per due e mani sudate e saldate, le orecchie puntate al suono della campanella. Preferito, non fortunato. Ché la fortuna bisogna cercarla da soli, non come i numeri che ti trovano – loro – ovunque.
Le bretelle della cartella ancorate alle spalle, mi lanciai scivolando a gambe aperte dalla larga ringhiera delle scale color ocra, saltai a terra e scattai verso casa. Correvo e contavo, contavo e correvo: uno, due, fino a otto. Poi ricominciavo, tenendo strette tra le dita le divise variopinte dei calciatori fotografati a figura intera, da attaccare a un album che non avevo. Rischiai più volte di inciampare, di sbattere, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dai capelli rossi di Odoacre Chierico, che Aldo mi aveva “regalato” durante la ricreazione: ne aveva un mazzo di figurine, anche quella introvabile di Luciano Bodini.

– Prendila, così potrai giocare anche tu con noi.

Imparai in un lampo la liturgia della disposizione “a tetto” delle figurine da capottare assestando al pavimento uno schiaffo violento: alla fine, Chierico si ritrovò in compagnia di altri sette giocatori, le mie sette conquiste. Per la prima volta nella mia vita fui orgoglioso di me, per quella vittoria guadagnata colpo dopo colpo che mi aveva lasciato sul palmo della mano un livido doloroso.
Quel giorno Aldo diventò il mio migliore amico. Uno accanto all’altro, gambe incrociate per terra e pollici alzati “alla Fonzie” nelle foto di classe, o abbracciati e accovacciati dietro al pallone di cuoio in polverosi e cocenti campi di calcio. Più avanti, con l’espressione di chi sa il fatto suo, un piede contro l’albero e la prima sigaretta in bocca, ingellati e preparati per la caccia al ritmo felpato dei lenti ballati su terrazze disadorne.
Nessuno avrebbe potuto farci del male e se anche qualcuno avesse voluto tentare avremmo saputo difenderci. Sarebbe bastato tirare fuori dalla tasca il coltello che entrambi avevamo acquistato, identico: il suo già tinto del rosso sgorgato dagli indici incisi e fatti baciare per conferire all’amicizia il sacro sigillo del sangue. Quello stesso coltello che anni dopo placò la sua folle sete nella pancia di un ragazzo che non aveva distolto lo sguardo da Aldo all’entrata di una discoteca.
– Che cazzo hai da guardare?

La notte in cui Aldo uccise eravamo già due sconosciuti, la mia lama seppellita da anni ai piedi di un castagno. Ci separavano una lingua di mare e il ricordo annebbiato di una vita lontana dall’impegno di aule, libri e discussioni a stordire la notte tra un bicchiere e un tiro. Avevo da tempo imparato a non scagliare il pacchetto vuoto dal finestrino dell’automobile in corsa, a condividere sui cartoni birra e Lucky Strike, a pennellare il mondo con i colori dell’utopia fottendomene se resistevano il tempo di un corteo. A camminare piano e armato – questa volta sì – di una curiosità feroce, gli occhi come carta assorbente stesa sul mondo.

Anche se nel volto cupo di Aldo rilanciato dalle prime pagine dei giornali intravedevo i miei lineamenti, riflessi nello specchio oscuro delle possibilità.

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EstatEufemiese 2014

I nomi degli “animatori” dell’estate eufemiese sono una garanzia, perché si tratta di gente che fa questo da decenni e perché l’ha fatto sempre bene. Insomma, ci si può fidare e prepararsi ad affrontare i prossimi due mesi con un occhio attento alle date del calendario delle manifestazioni di EstatEufemiese 2014. Nel presentare il programma allestito in collaborazione con associazioni e comitati, il profilo facebook Sant’Eufemia d’Aspromonte official site informa sul sostegno economico concesso dall’amministrazione comunale a coloro che da sempre si impegnano “per fare di Sant’Eufemia una cittadina più vivibile e dinamica”. Un atto dovuto ma importante, anche quando si tratta di un contributo poco più che simbolico; un riconoscimento ai tanti giovani e meno giovani che “donano” alla comunità il proprio tempo, la propria passione, le proprie competenze (anche il proprio denaro) per realizzare occasioni di crescita o semplici momenti di svago.

Il programma è molto vario, l’occhio dei promotori sempre attento alla valorizzazione del territorio, in tutte le sue componenti. Confermata la tradizione degli appuntamenti religiosi, con i festeggiamenti in onore di Maria SS. del Carmelo (19-20 luglio), i SS. Cosma e Damiano (2-3 agosto), Sant’Eufemia V.M. (15-16 settembre), i quali coinvolgono i tre rioni del paese (Pezzagrande, Vecchio Abitato, Petto) e ai quali va aggiunta la “Festa delle contrade” in piazza Cersa (contrada Badia, 14 agosto).
Non poteva ovviamente mancare lo sport, con l’organizzazione di due tornei di calcio a 5, a cura dell’Oratorio parrocchiale Don Bosco: quello “adulti” si è appena concluso, quello per bambini si svolgerà sui campetti del circolo polisportivo La Madonnina dal 28 luglio al 10 agosto. Ancora, il saggio di danza dell’Associazione sportiva Olympus (anch’esso già svolto); il torneo di scacchi all’aperto “semi-lampo” (13 agosto), a cura dell’Associazione scacchistica Zatrikion; il raduno “Tuning” (24 agosto), a cura del club “The new generation of the tuning”.
Diversi gli appuntamenti dedicati alla storia, alla cultura, alla tradizione e alla promozione del territorio. Il défilé di moda a cura dell’Associazione sarti e stilisti calabresi (26 luglio), con protagonisti le migliori botteghe sartoriali regionali; l’ormai storica sagra della patata, a cura dell’Associazione turistica Pro-Loco (8 agosto); la presentazione del libro di Giuseppe Pentimalli “Storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte” (7 agosto); la tradizionale escursione naturalistica nel Parco nazionale dell’Aspromonte a cura dell’Associazione Terzo Millennio (9 agosto); le celebrazioni per il 152° anniversario del ferimento di Garibaldi in Aspromonte, a cura dell’amministrazione in collaborazione con Pro-Loco, Associazione Acanto, Associazione Garibaldini d’Italia.
Ben quattro le manifestazioni teatrali: “La giara”, a cura della IVb dell’Istituto comprensivo “Don Bosco” (6 agosto); una rappresentazione in vernacolo a cura del gruppo “Insieme per crescere” (10 agosto); il doppio appuntamento a cura del Terzo Millennio: il musical “Forza venite gente” (12 agosto) e una rappresentazione in vernacolo, in occasione della tradizionale “Festa dell’emigrante” (17 agosto).

Occasioni di svago, appuntamenti per soddisfare i più svariati interessi culturali, ma anche attenzione per le fasce più deboli della popolazione con la “Giornata della solidarietà” curata dall’Avis (27 luglio) e con l’impegno dei volontari dell’Associazione di volontariato cristiano Agape nell’organizzazione della consolidata “Colonia estiva” in favore di soggetti diversamente abili (1-6 settembre).

Infine, gli eventi dedicati dall’amministrazione
comunale
ai più piccini: i quattro appuntamenti di “Bimbi Estate in Piazza” (piazza Matteotti: 30 luglio, 4, 11 e 22 agosto) e l’organizzazione dei “Giochi della Gioventù”, in collaborazione con Agape, Avis e i giovani della parrocchia.

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Il compagno

L’immagine è il manifesto “Vota Comunista”, il primo a comparire sui muri di Sant’Eufemia a ogni campagna elettorale. Uno l’attaccava sulla parete esterna del deposito attrezzi del terreno agricolo di contrada San Luca, che ha coltivato fino a qualche settimana fa nonostante i suoi 86 anni.

Le parole, invece, sono quelle apodittiche di mio nonno Mico “Marco” Pentimalli – che teneva sul comodino i santini di Stalin e Togliatti – all’indirizzo di mio padre, candidato negli anni Ottanta alle elezioni comunali per la lista del Partito socialista: “Non posso votarti, lo sai che sono comunista: voto la lista del Pci, per Vincenzo ’u brigghiu”. Mio nonno, un passato da carbonaio analfabeta spedito dal Duce a difendere la “Quarta sponda” in Libia, al ritorno dalla prigionia inglese non poteva che iscriversi al partito comunista: quando l’appartenenza era una fede e l’ultimo dei militanti si sentiva protagonista di un grande sogno di libertà e riscatto sociale. La fotografia riprodotta in uno dei pannelli dedicati alla storia di Sant’Eufemia, all’interno del Palazzo municipale, li ritrae uno accanto all’altro, insieme ai compagni eufemiesi scesi in piazza per protestare: il segretario della Camera del Lavoro Vincenzo Gentiluomo e mio nonno magro dentro al cappotto, barritta calata in testa, mentre tiene in alto il cartello della Cgil.
Quando mi hanno riferito che ’u brigghiu era in rianimazione, in condizioni gravissime, sono rimasto senza parole. Avremmo dovuto cenare insieme qualche giorno prima, un incontro di preparazione per l’apertura della nuova sede del Partito democratico, al quale aveva aderito con entusiasmo, ma all’ultimo minuto aveva dato forfait. Nessuno poteva però sospettare un epilogo così drammatico.

Mi rimane il conforto di un rapporto che eravamo riusciti a ricucire due anni fa dopo uno strappo dolorosissimo, un silenzio che aveva fatto soffrire entrambi per troppo tempo. La mia prima vera campagna elettorale furono le Provinciali nel 1994: Umberto Pirilli per il Polo della Libertà, Demetrio Scordino per Pds e Partito popolare, Pasquale Amato per Rifondazione comunista e Movimento meridionale. Gentiluomo era candidato nella lista di Rifondazione, ma non fu eletto. Votai per lui e quando venne a Sant’Eufemia Amato, all’epoca mio professore all’università, fui con loro nell’incontro che tennero con gli elettori, pur non essendo io un militante del partito. Degli anni a seguire ricordo la stima reciproca e le piacevoli chiacchierate sulla politica locale e nazionale, il tentativo fallito di una mia candidatura in quota Rifondazione alle elezioni comunali del 1997 e la violentissima rottura nelle successive del 2002. Capita spesso, nei piccoli comuni, di assistere alla fine tristissima di amicizie che durano da una vita. Soprattutto quando chi non ha un interesse politico diretto si schiera e non rimane nel limbo dei pavidi, del “chi te la fa fare di esporti pubblicamente?”.

All’epoca ero corrispondente per il Quotidiano della Calabria e scrissi un articolo sulla “strana alleanza” tra comunisti e Forza Italia all’interno di una lista civica, che provocò l’intervento della Federazione provinciale di Rifondazione e mi procurò, in un comizio, l’attacco del candidato comunista. Gentiluomo si sentì da me tradito, io invece non gli perdonai un’accusa infamante: l’avere cioè firmato un articolo scritto dal candidato a sindaco della lista avversaria. L’offesa più grave che si possa rivolgere a un giornalista.

Ci risalutammo a dieci anni da quei fatti, quando lo avvicinai per chiedergli come stesse dopo un gravissimo problema di salute che gli era costato diversi mesi d’ospedale.

La costituzione del circolo del Partito democratico, nove mesi fa, aveva risvegliato in lui il fuoco antico della militanza. Era venuto al seggio per le primarie nazionali e regionali, quindi aveva fatto campagna elettorale per le elezioni Europee con tanto di facsimili in tasca, da distribuire in quel porta a porta del quale era maestro.

Il mio pensiero va ora alla sua espressione felice per il brillante risultato ottenuto dal Pd e all’esortazione ad aprire una sede, un “luogo” della politica che considerava indispensabile e che aveva promesso di abbellire con i manifesti della “sua” Camera del Lavoro.

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Vandali in azione al campo di tiro a volo “Giuseppe Garzo”

Viene difficile dare torto a Rocco Rugari quando sostiene che no, così non si può andare avanti e forse è giunto il momento di gettare la spugna. Qualche notte fa è successo un fatto molto grave al campo di tiro a volo “Giuseppe Garzo”. Ignoti – ma di certo vandali e vigliacchi – si sono introdotti all’interno della struttura dedicata dal 1973 a uno dei soci fondatori dell’omonima associazione sportiva costituita l’anno precedente e, una volta dentro, hanno smontato e portato via dieci macchine lancia piattelli del “percorso caccia” e dello “skeet”, piattelli e altre attrezzature del campo. Un danno economico di circa 20.000 euro, non bruscolini per una società sportiva che si mantiene per lo più con l’autotassazione degli iscritti e con il denaro che qualche socio negli anni ha anticipato e chissà quando avrà indietro.

Ciò che più brucia è però la ferita allo spirito di questo gruppo di amici. Rugari c’era quando l’associazione è stata costituita più di quarant’anni fa e per venti (dal 1992 al 2012) ne è stato presidente, prima di passare la mano a Raffaele Monterosso per un saggio ricambio generazionale. Il campo di tiro a volo rappresenta, per lui e per molti altri, un sogno realizzato, ma anche importanti traguardi sportivi e gratificanti riconoscimenti ottenuti in tutta Italia. Senza fare l’elenco, citiamo la recente vittoria nel campionato regionale specialità “Fossa universale” a squadre, un’affermazione che a settembre farà volare a Bergamo i tiratori eufemiesi per la disputa della finale nazionale.

I due campi di “Fossa universale” non hanno subito danneggiamenti, per cui dovrebbero svolgersi regolarmente gli eventi già calendarizzati per la stagione estiva (13 luglio: trofeo “Città di Sant’Eufemia”; 16-17 agosto: trofeo “Garzo”, trofeo “Pillari”, trofeo “Lombardo”). Però il colpo psicologico è duro da assorbire e il futuro diventa un punto interrogativo che richiede una considerazione pacata e seria: vale la pena proseguire?

Tutto ciò che serve per creare aggregazione o utilità sociale è sacro, si tratti di strutture pubbliche, private, in uso alle associazioni. Le donne e gli uomini che se ne servono per fini di promozione sociale e del territorio vanno sostenuti e incoraggiati, non feriti a morte nell’entusiasmo, la parolina magica che spesso ripete un caro amico, da almeno 35 anni in prima linea nel campo del volontariato: “se manca l’entusiasmo non si va da nessuna parte, perché ogni attività ci apparirà un sacrificio e non un momento di crescita, nostro e della comunità”.

Chi ha compiuto questo inqualificabile atto può ancora rimediare restituendo il bottino del raid vandalico, che oltretutto è di complicata collocazione sul mercato. Questa sì che sarebbe una bella notizia.

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Cari ragazzi, in bocca al lupo

Eccoli qua i giorni e le ore tanto attese. Il momento in cui diventa quasi insopportabile il peso della responsabilità per l’esito di un processo di formazione che va oltre la semplice didattica, anche se il sigillo sarà un voto. La cifra che dovrebbe racchiudere un lustro di esperienze, gavettoni e pallonate, compiti in classe e pomeriggi sui libri, sorrisi e pianti, ciò che si era a quattordici anni e ciò che si è diventati a diciotto. Una tappa di avvicinamento alla maturità vera e propria, per chi proseguirà negli studi e per chi dirà basta.
C’è un mondo che vi aspetta. Aspetta tutti voi, perché sarà vostro. Dovrà essere vostro. Di voi che sudate al solo pensiero di questi esami. Di voi che risolvete la questione con strafottenza, perché tanto sapete che in qualche modo riuscirete a sfangarla.

La conosco l’ansia di questo momento, perché è stata la mia. Perché negli anni più volte mi è capitato di sognarmi alle prese con il compito di matematica e non vi dico il sollievo, al risveglio, nel realizzare che si trattava solo di un incubo notturno. Perché anch’io la mattina dell’orale ebbi la sensazione di andare incontro a un plotone d’esecuzione che forse mi avrebbe risparmiato, se solo fossi riuscito ad essere convincente. Solo contro tutti, con in testa un mantra che da allora mi ripeto ogni volta che la posta in gioco appare troppo alta, ogni volta che il bivio atterrisce, ogni volta che le conseguenze di una decisione o di un evento atteso tolgono il sonno: “stai tranquillo. Domani a quest’ora sarà tutto finito da un po’, comunque andranno le cose”.
Il mio auspicio è che il patrimonio di speranza che rappresentate non vada disperso. Ho avuto modo di ascoltare alcuni di voi, anche negli anni scorsi. Non tutto è perso a Sant’Eufemia: c’è del bello anche grazie a questo nostro caro liceo, ai suoi docenti e agli studenti. Perciò non mi stancherò mai di ripetere che va custodito come una gemma preziosa.
Un consiglio solo mi sento di darvi. Partecipate. Partecipate alla vita del nostro piccolo paese, nei modi che ritenete più opportuni. Però fatelo. Nelle realtà associative già presenti sul territorio o in nuove aggregazioni che inventerete voi stessi. Siate protagonisti e date libero sfogo all’entusiasmo che avete in corpo. Ci sarà tempo per le delusioni, purtroppo. Ora è il tempo della semina, la vostra.
Tra un paio d’anni ricorderete questi giorni, prima con il sorriso sulle labbra, poi con il rimpianto per un passato di leggerezza che vi costerà fatica riuscire a mantenere nel tempo. Perché la vera sfida sarà quella della vita quotidiana, con i suoi mille piccoli problemi. Sarà capire non tanto che gli esami non finiscono mai, bensì accettare con serenità che non sempre si vince. Che perdere non è un dramma, ma una possibilità a volte necessaria. Che le sconfitte servono a preparare le vittorie e che entrambe non sono mai eterne. Che il viaggio è più affascinante della meta. Che dare tutto per realizzare qualcosa in cui si crede è una virtù che prescinde dal risultato.
Non abbiate mai timore di fare domande, scavate in profondità e siate sempre curiosi, capaci di stupirvi e di emozionarvi per ogni (apparente) piccola cosa.
Capaci di sognare.

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Fettuccine Alfredo e cappuccino. Alcuni stereotipi sugli italiani all’estero

Ho
chiesto a Mario di farci un resoconto curioso dell’immagine, spesso
stereotipata, che all’estero hanno degli italiani. Ecco il risultato  (D.F.)

L’esperienza mi ha convinto che all’estero gli italiani sono generalmente benvoluti perché paragonati al resto del mondo risultano sempre essere il male minore. Il nostro modo di fare, la gestualità esagerata generano simpatia anche nel dramma intrinseco di cerchi infiniti, disegnati con le mani, ai quali addossare tutte le colpe di questo mondo: dal buco dell’ozono al crollo dei governi, alla nostra incapacità di parlare sottovoce. La loquacità è socialmente accettata e incoraggiata, mentre i nostri difetti sono condonati perché fanno parte di quella italianità che ci caratterizza e rende unici.

Essere italiano è un biglietto da visita che negli anni mi ha aperto tante porte, perché portare a spasso oltre duemila anni di storia suscita fascino e una buona dose di curiosità. Se in Italia ci ricordassimo della popolarità che abbiamo all’estero, molte cose sarebbero diverse anche in casa nostra. Siamo una leggenda metropolitana alimentata da luoghi comuni così radicati nell’immaginario collettivo che è quasi impossibile smentirli. Un po’ come affermare che in Calabria nevica. Provate a dirlo a un inglese: non vi crederà mai.
Eccoli, allora, alcuni di questi stereotipi, chicche made in Italy che di italiano hanno poco o niente.

LE FETTUCCINE ALFREDO. In America sono talmente popolari da avere una pagina su Wikipedia, con tanto di varianti alla ricetta originale. Con gli scarafaggi, che essendo in grado di sopravvivere a un’esplosione nucleare non potranno mai essere sterminati da nessuna disinfestazione, le “fettuccine Alfredo” sono la costante di qualsiasi ristorante americano. Ovviamente, tranne che nel borgo romano di provenienza, Alfredo è in Italia un emerito sconosciuto, così come le sue fettuccine, note con un nome semplice quanto la ricetta rubata da Alfredo e fatta sua. Andate su Google e scopritelo da soli. Da non credere.
BEVIAMO LITRI DI CAPPUCCINO. La colpa è dei ristoratori italiani all’estero che, per arrotondare il conto, a fine pasto offrono un cappuccino. Sembra non ci sia niente di meglio che lavare pranzo o cena con un bel tazzone di latte caldo. Hai voglia a spiegare che se in Italia ordini un cappuccino dopo le undici del mattino come minimo ti cacciano dal bar e in casi limite di sparano al petto senza avvertimento. Cavalcando l’onda infondata di questa nostra usanza, “Starbucks” in America, “Costa” e “Nero” in Inghilterra, oltre a creare franchising milionari, spingono intere e inconsapevoli nazioni a bere caffè e cappuccino sino a notte fonda. E poi ci si chiede perché non dorme mai nessuno.

I CAPELLI DI BERLUSCONI. 100% made in Italy, come la famosa bandana, ora sempre in testa ai chirurghi della serie televisiva americana Grey’s Anatomy. Non c’è dottore che non la indossi prima di praticare una qualsiasi operazione a cuore aperto o un massaggio cardiaco. Del resto, prima degli ultimi rovesci Silvio è stato cavaliere. Cos’altro aggiungere?

LA PIZZA HAWAIANA. Prendete una semplice pizza al prosciutto cotto, copritela con fette di ananas e poi sbattetela in forno, perché una cosa del genere merita di essere cotta senza pietà. Infine servitela a un qualsiasi anglosassone, che la sbaferà senza vergogna. In un mondo ossessionato dal mangiare “sano”, la pizza hawaiana è diventata una scelta obbligata, perché contiene due delle cinque porzioni di frutta e verdura che ipoteticamente dovremmo assumere giornalmente. Resta un mistero il motivo per cui è stata così battezzata dal pizzaiolo di dubbie origini che l’ha inventata. Forse voleva darle un’aura esotica. A me ricorda soltanto il bombardamento di Pearl Harbour, direttamente sul mio stomaco.
Sublime alternativa per la colazione è il cornetto dolce, farcito con salame e formaggio.

GLI ITALIANI LO FANNO MEGLIO. Beh, sorvoliamo.

L’ORTO. Ogni italiano che si rispetti ha dietro casa l’equivalente della foresta pluviale di Avatar in 3D, terra generosa dove coltiviamo l’impossibile perché – si sa – da noi è tutto fresco e la spesa al supermercato è usanza delle grandi città. In campagna invece si vive di baratto. L’alba è una radiosa visione di casalinghe assennate e benevole che, con aria di santità e ceste alla mano, raccolgono un pomodoro qui e una pesca là, proprio come natura crea.
Questo ci conduce direttamente alla leggenda metropolitana per antonomasia.

LA MAMMA. Per mezzo mondo, una creazione di menti malate. Infaticabile dea della cucina, fazzoletto in testa e grembiule, dall’alba al tramonto non c’è niente che non crei dal nulla. Immaginiamola di primo mattino avvolta in una nube di farina, a stendere pasta fresca mentre sforna una ciambella dietro l’altra per la colazione, in un delirio da Mulino Bianco. Quindi impegnata nella preparazione di conserve e sugo di pomodoro sufficienti per tutto l’anno, alle prese con salami da insaccare, formaggio da stagionare, creme e dolci, pomodori secchi e pesto fresco: un pezzo di casa da mettere in valigia e portare nel fumo di Londra o in giro per il mondo. Basta semplicemente ordinare.
In realtà, se portassi a mia mamma delle melanzane e le chiedessi di farle sott’olio, me le tirerebbe dietro una per una con mira da cecchino, prima di giustiziarmi con una ciabattata assestata tra capo e collo alla fine di un estenuante inseguimento attorno al tavolo della cucina.

Ma gli amici inglesi non mi crederebbero, perché l’Italia è il paese delle mamme e noi tutti mammoni siamo.

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Nottetempo a contare le stelle

Non conosco le strade di giorno, vocianti di bambini schiacciati da zaini pesanti e sproporzionati, brulicanti di uomini e donne che ansimano su binari senza orizzonte, diretti dove neanche loro, forse, sanno. Avanti e indietro, in preda a una febbre che si spegne a sera davanti a un piatto e alla domanda se ne è valsa la pena.
Io non me lo chiedo se ne è valsa la pena. Nemmeno penso, a dire il vero. La mia pena è arrotolata dentro la borsetta, tra le salviettine e i preservativi. Io resto fuori. In disparte, a mimetizzarmi con le quinte del teatro.
Sono ciò che mi circonda e mi dipinge viva. Sono il lampione che illumina quella manciata di metri quadrati attorno alla mia mise di indossatrice, l’attrice dei vostri sogni di supereroi con la patta già aperta. Perché avete fretta, vi capisco. Anche se il vostro vero orgasmo è avere il dominio assoluto su questa piccola mosca che sbatte contro le pareti del bicchiere capovolto, a campana. Lo leggo nel fondo dei vostri occhi di padroni. Lo sento nel sudore rancido delle vostre notti andate a male. Lo annuso nell’alito al whiskey della vostra solitudine.
Non conosco le strade di giorno, i suoi assassini indecifrabili e stanchi. In fuga. Io non scappo perché so dove andare, so dove il mio stomaco mi porterà. Qui. Senza molte domande. Quelle sono roba vostra.
“Cinquanta bocca e amore”: c’è poco da spiegare. Se qualcosa ho da interrogare lo faccio nel silenzio dei miei pomeriggi, quando entro nelle vite di carta e me ne impossesso aspettando che la luna canti la ninna nanna al condominio. Prima di andare, un bacio ad occhi chiusi alla copertina, come a un tozzo di pane troppo vecchio per essere consumato. E poi via, su trampoli buffi da domare, armata di rabbia e rassegnazione.

Conosco invece le vostre paure. Di essere scoperti da mogli distratte o dai figli dei vostri amici sghignazzanti da finestrini che ci sfiorano a velocità folle. Di non farcela o di venire presto. Di scoparvi un pezzo di legno che non vi guarda nemmeno in faccia. Ma io faccio altro, nella prestazione non è compreso l’ascolto dei vostri guai. Anche se finisce che di alcuni di voi so le vite, come se fossi vostra sorella o un amico d’infanzia, persone alle quali ci si può rivolgere senza il timore di sentirsi giudicati.
Provo tenerezza nell’ascoltare giustificazioni improbabili, non richieste. Non ce ne sarebbe davvero bisogno. So cosa vi spinge a sostare guardinghi accanto al fuoco debole di quattro frasche, il tempo di contrattare il prezzo del vostro riscatto. Nel gorgo sporco di questa metropoli sono il relitto al quale vi aggrappate conficcando le unghie a sangue, per non essere risucchiati.
Venite da me perché io vi salvo. Mi basta questo per sentirmi migliore di voi, delle vostre storie smozzicate e sussurrate ad occhi bassi, tenuti fissi sul cruscotto.
Tra un paio d’ore sarà tutto finito, almeno per stanotte. Lungo la strada del ritorno conterò le stelle per controllare che ci siano tutte, che nessuna sia scappata per non vedere. Poi, a casa, lo specchio rifletterà l’immagine della madre che sono, riemersa dall’abluzione di un bagno bollente. E finalmente respirerò.

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Farage, l’amante londinese di Grillo

Ho chiesto a Mario cosa pensano i londinesi dell’incontro tra Grillo e Farage, uno che manda nelle case degli inglesi volantini come quello che vedete qui accanto, da mio fratello rispedito prontamente al mittente: “avete sprecato un pezzo di carta e un francobollo, perché io sono tra coloro che “rubano” il vostro lavoro. Lo faccio da 18 anni, impunito”. 
Ecco la sua risposta.

Sto seguendo con interesse il dibattito italiano sulla vittoria del movimento di estrema destra Ukip (United Kingdom Independence Party) nelle elezioni per il Parlamento europeo in Inghilterra e le polemiche sollevate dall’incontro del comico e leader del M5S Beppe Grillo con Nigel Farage. Non credo però sia il caso di fomentare isterismi ingiustificati e cercherò di spiegarne il motivo.
In Inghilterra solo il 37% degli aventi diritto al voto si è recato alle urne, per varie ragioni. Tra questi, la circostanza che le elezioni coincidevano con un Bank Holiday, una delle cinque vacanze nazionali caratterizzate dall’astensione dal lavoro anche il lunedì. Un week-end lungo che molti hanno sfruttato per concedersi una vacanza, ai quali vanno aggiunti coloro che il 22 maggio (giorno delle votazioni) hanno ripiegato su un bel barbacue, considerato che una volta tanto qua splendeva il sole.
Al voto europeo in Inghilterra partecipano prevalentemente i detrattori dell’UE, per esprimere il proprio disappunto. Per questo motivo Ukip ottiene buoni risultati, potendo contare anche sul sostegno dei conservatori vecchio stampo. Per intenderci, quegli elettori che avrebbero imbalsamato Margareth Thatcher pur di averla ancora al potere, i quali non riescono a digerire la coalizione che il leader David Cameron ha messo in piedi con i liberali. Lo stesso Nigel Farage è un fuoruscito del partito conservatore, per cui non è sorprendente che su di lui convergano le simpatie dei vecchi compagni di viaggio, attempati e in aria da pensione.
Gli equilibri verranno ristabiliti il prossimo anno, quando ci saranno le elezioni politiche. L’Ukip tornerà ad essere una forza marginale, perché non ha una solida agenda sulle vere problematiche del paese e si limita a slogan nazionalisti e antieuropeisti. Farage non ha mai partecipato ad un dibattito televisivo con gli altri leader politici, ma anche se lo facesse non avrebbe la dialettica, né la preparazione sufficiente per riuscire a tener testa agli avversari.
A differenza che in Italia, qua l’effetto Farage è durato 24 ore. Il tempo di stabilire che nella remota eventualità di un exploit alle elezioni del 2015 nessuno se lo imbarcherebbe in una coalizione di governo e già martedì il leader di Ukip non era più una notizia.
Farage è un impulsivo, non sa contenersi, è sopra le righe, parla a sproposito e non conosce la storia. Tanto meno la discrezione e il rispetto, due principi cardine della società britannica. È affascinato dal modus operandi di Putin e, effettivamente, ha molto dello “stile” di Beppe Grillo, con il quale sono certo che a Bruxelles andrà d’amore e d’accordo. Con lui berrà una birra o due, perché a Farage piace dare l’idea di essere uno di noi, uno che va al pub. Della loro agenda comune non mi preoccuperei più di tanto. Cosa potrebbero programmare, dare fuoco a Palazzo Charlemagne?
Con questo incontro Beppe Grillo conferma però ciò che ho sempre sospettato, sin dai tempi delle sue ospitate sui palchi di Sanremo, vissute da me con un certo disagio. È un estremista che ha cavalcato il malessere e la rabbia prodotti dalla crisi economica e dall’immobilismo istituzionale del sistema politico italiano, riuscendo così ad avere molto successo in Italia. Ora ha bisogno di farsi conoscere fuori dalle frontiere nazionali, per cui probabilmente userà Farage per accrescere l’esposizione mediatica.
Qualche amico inglese mi ha chiesto com’è possibile in Italia che un comico guidi un movimento politico. Poiché in Inghilterra apprezzano l’ironia, rispondo che la cosa non mi sorprende, visto che per vent’anni siamo stati nelle mani di un leader che non si lasciava sfuggire l’occasione per raccontare barzellette, pure male. Non ci resta che ridere.

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