Il tempo della neve

Il tempo della neve è un tempo sospeso. Il sogno di una notte calma, che consegna al risveglio una sensazione di leggerezza. Una parentesi candida che placa la fatica del vivere quotidiano. Un ricordo lontano e rinnovato, piacevole come tutti i bei ricordi. Un mantello di serenità.
Sono io a quattro anni insieme ai miei fratelli, lo stupore per la scoperta incredibile fatta da tre bambini appena arrivati dall’Australia, il pianto incredulo: «la neve è fredda, non mi sento le mani!». È Mario incollato con il naso al vetro della finestra notti intere, incantato dalla magia dei fiocchi silenziosi.
Forse è vero che quando nevica si torna bambini, ma di certo non fa male allo spirito mangiare neve, ciucciare ghiaccioli o fare di una carota un naso.
Il mondo sembra fermarsi, i minuti dilatarsi nell’illusorio desiderio di sospingere più in là la ripresa della normalità. Si vive di fretta, inseguendo sempre qualcosa, con la dannata ossessione di arrivare da qualche parte. Come se arrivare fosse lo scopo: arrivare dove, poi.
La neve e la fretta sono invece antitetiche. La neve non può andare d’accordo con la frenesia di chi vorrebbe la strada pulita dopo un’ora. Nell’era dei social, una nevicata può essere l’ottava meraviglia del mondo o una calamità naturale di dimensioni bibliche. Tutto diventa eccessivo e drammatico, bello e ipocrita. Spesso falsato dal protagonismo di chi racconta o documenta: d’altronde informazione e social network sono evidentemente in una situazione di pericoloso corto circuito.
La lezione che la neve indica a noi affannati e distratti viandanti può riassumersi nel bisogno di sintonizzarsi sulla stessa frequenza della natura, liberandosi dalle zavorre mentali che non ci permettono di godere delle piccole cose. Ad esempio, camminare con la sola compagnia del silenzio, il passo lento che soltanto consente di conoscere un posto, di notare particolari di uno scorcio non apprezzabili dal sedile di una macchina in movimento, di respirarne l’anima. Anche soltanto per un giorno.

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Ntoni u spazzinu

Per parecchi anni, gennaio è stato un mese felice. Il compleanno di mia nonna Ciccia e quello di Mario, il campionato di calcio che riprendeva dopo la pausa natalizia, la speranza della neve e la sensazione di trovarmi seduto sullo slittino al cancelletto di partenza, pronto a lanciarmi velocemente verso l’estate laggiù in fondo. Oggi è un po’ diverso. Gennaio è il mese delle assenze: di nonna, la mattina dell’esame di storia moderna; di zio Ntoni, fratellastro di mia mamma, la notte in cui la morte entrò proprio dentro la nostra casa per svegliare tutti e addormentarne uno. Diciotto anni fa.
Ntoni “u spazzinu” aveva rischiato di morire appena nato, come sua mamma a pochi mesi dal parto. Tragedie familiari frequenti negli anni Trenta e anche in seguito, con la sala parto “allestita” dentro le abitazioni che impegnava tutte le donne della rruga: chi riscaldava l’acqua, chi porgeva tovaglie e ferri del mestiere alla mammina, chi preparava il pranzo per gli altri componenti della famiglia, chi si limitava a pregare perché tutto andasse per il meglio. Le preghiere servivano, eccome.
Ntoni la superò, anche se qualche traccia di quella battaglia gli rimase incisa tra le pieghe del cervello per tutta la vita. Riuscì però ad ottenere un posto da spazzino comunale, quando ancora il politically correct non aveva introdotto la figura dell’operatore ecologico e quando il netturbino proveniva esclusivamente dai ceti più poveri della società. Grazie al lavoro, soggetti a rischio di emarginazione riuscivano a ritagliarsi un ruolo e a svolgere una funzione nella comunità, contribuendo così al perseguimento del bene comune. Che in questo caso consisteva nel mantenimento della pulizia delle strade e delle piazze del paese.
Una cantilena di nomi forse meno prestigiosa di quella “Zoff-Gentile-Cabrini” vittoriosa a Spagna ’82, ma impressa nella mente dei bambini di allora: l’autista Peppino “llipari”, Saro “mbisca”, Vincenzo “u merru”, Ciccio Lombardo, Gianni Pitasi, Mico “u bandista”, Ciccio “cciamparancella”, Vincenzo “u bagasciu”, Ciccio “gaddina”. Quest’ultimo anche vandijaturi, in possesso di una voce squillante che dagli incroci delle strade raggiungeva i cortili e le case per annunciare il bando, generalmente la chiusura dell’acqua nel periodo estivo: «jettu u bandu… ca e cincu i stasira… chiudinu l’acqua!». Infine mio zio Ntoni, appena un ciuffetto di capelli sopra il centro della fronte, nascosto dal cappello blu come la sua divisa da spazzino comunale. Un uomo forte e senza misura, la cui figura spesso s’intravedeva appena, coperta dalla carriola caricata all’inverosimile di cartoni, che spingeva nelle salite del paese cercando di tenere il castello in equilibrio.
È innegabile che il servizio porta-a-porta degli anni Ottanta fosse efficientissimo, le strade del paese spazzate tutti i giorni senza l’ausilio di mezzi meccanici, la via occupata dalle bancarelle del mercato pulita ogni domenica in tempi record. Ci pensavano loro, con le ramazze di brojera che spesso ho visto preparare per zio Ntoni da mio nonno, la faccia caliata dal sole anche in vecchiaia, come se gli anni di duro lavoro da carbonaro o nei cantieri gli avessero per sempre marchiato la pelle. Il sangiovanni con il parroco del paese don Antonio Messina, suo padrino di cresima, comportava inoltre a Ntoni alcuni impegni extra: lavori nella casa del sacerdote, ma anche la raccolta della legna e dei rami per il “luminario” che il 6 settembre – allora come oggi – veniva acceso in onore della Protettrice.
Una vita di fatica analoga a quella di molti altri lavoratori anonimi: gente umile, dignitosa, esemplare nella propria semplicità.

*Nella fotografia, da sinistra: Peppino Oliverio, Mico Bonfiglio, Saro Bonfiglio, Vincenzo Federico, Ciccio Modaffari, Vincenzo Panuccio, Francescantonio Pentimalli.

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Buon anno

Da sempre ho un debole per il pettirosso. Minuscolo e imponente con quella macchia rossa al centro che lo fa sembrare un soldato a petto in fuori. In questi giorni il gelo lo spinge dai boschi alla porte delle abitazioni o sulle ringhiere dei balconi, in cerca di cibo. Mi piace pensare che sia sempre lo stesso: quello di venti o trent’anni fa, e che torni da me perché già allora le briciole dei biscotti o del pane erano a lui destinate. A lui che, poveretto, chissà che freddo soffriva ma con dignità. A lui che forse era triste, nella sua gelata solitudine.
Forse è proprio quello che disegnai alle scuole elementari su un cartellone che poi rimase attaccato alla parete tutto l’anno, insieme alla vendemmia o alla primavera realizzate da altri miei compagni. Un pettirosso enorme su un ramo troppo piccolo per poterne reggere il peso, ma che importava.
Molto dopo sarebbe arrivato Fabrizio De André: un furibondo bisogno di domande più che di risposte, di dubbi più che di certezze, di una prospettiva umana che fosse in grado di regalare una “goccia di splendore” anche all’ultimo della terra. E con lui il “pettirosso da combattimento” dell’apocalittica Domenica delle salme, che si salva dall’incendio della barba del “poeta della Baggina” e indica nella lotta uno strumento di giustizia.
Situazioni distanti che forse non casualmente riaffiorano nella mente, come tessere di un mosaico più grande e misterioso. La ricerca delle radici, il senso della storia e delle storie che Maurizio Maggiani sublima nelle pagine del suggestivo romanzo Il coraggio del pettirosso; il lancinante album di Loredana Bertè (Un pettirosso da combattimento), impreziosito dalla straziante traccia Zona Venerdì, in morte di Mia Martini.
Il pettirosso è il sogno impossibile, deciso nell’inverno che una dolorosa perdita familiare aveva reso più freddo degli altri, per consolare e riscaldare – lui che arriva con il gelo – le anime nostalgiche.
Chissà come e perché sono arrivato fin qua. In fondo volevo soltanto scrivere due parole di augurio per l’anno che stanotte accoglieremo con la stessa identica speranza dell’anno scorso e per salutare quello che in qualche modo sta per finire. Consapevoli di avere fatto ciò che cuore e raziocinio hanno comandato. Senza l’urgenza di un bilancio che forse altri in questi stessi minuti stanno già facendo, disponendo sui piatti felicità e dolore, rimpianti e sogni. Quei sogni che soli possono rendere affascinante l’incognito e che ci spingono ad agire. Che ci fanno uscire dal bosco e danzare nel freddo, per continuare a vivere e per affrontare con coraggio ciò che il futuro ci riserverà.

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Suonala ancora

Ogni ricorrenza è un termometro che misura la febbre del tempo. Scotta quando seduti a tavola qualche sorriso manca e, proprio in quei momenti che dovrebbero essere di allegria, il vuoto nella pancia segnala assenze pesanti. Sentimenti che la quotidianità della vita riesce a tenere sopiti, nascosti dal fardello delle troppe cose da fare, si rivelano nudi. Innocenti, fieri, finalmente liberi.
Non si scappa dalle feste e dal loro carico di inevitabile malinconia. Da bilanci personali più o meno definitivi, rabberciati di anno in anno. Dalla speranza che matura i germi del futuro. Dal bisogno di darsi progetti, scadenze, altri traguardi nella corsa senza freni che scava sui volti rughe più profonde, curva le schiene, spruzza neve sui capelli.
Scrutiamo pensierosi l’orizzonte, come i reduci che vi vedono scorrere i fotogrammi di mille battaglie. In cerca di risposte – o soltanto di consolazione – al nostro andare incomprensibile e sorprendente. Un gorgo di dubbi che inghiotte anche il presente, a volere a tutti i costi svelarne il fascino. Domande che sfuggono da ogni parte, come l’aria di un pallone bucato che si cerca invano di tappare con la mano.
Si dirà che non si può vivere ripiegati su se stessi, e probabilmente è vero. D’altronde la solitudine è spesso una conquista effimera, raccattata, che non riesce a tenere a bada l’ansia di risposte definitive agli ostinati “chi siamo”, ai prorompenti “cosa vogliamo”. Siamo troppo impegnati a vivere, per fortuna. Consapevoli del fatto che una vita non basta e che un’altra non ci è data. Una condanna e un’opportunità, a pensarci bene. Perché l’urgenza costringe all’azione: domani potrebbe essere troppo tardi.
Una filosofia che il ragazzino sembra già conoscere quando viene aiutato ad alzarsi dalla sediolina; quando spinge le gambe con tutta la forza che ha in corpo per arrivare faticosamente alla pianola. Un passo dopo l’altro, in una moviola accorata che scaccia via ogni dubbio rendendoci piccoli davanti al sogno impossibile di fare andare con gli occhi quelle leve esitanti.
Lo sa, deve saperlo per forza mentre suona Jingle bells sorretto da mani sicure, tra il silenzio e l’emozione della sala, tutta concentrata sulle sue dita che battono i tasti bianchi e neri: «Suonate campane, suonate tutto il tempo».
E suona anche tu. Per te e per noi. Per la vita che insegni.

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Il puzzle spezzato

Non abbiamo mai conosciuta un’ultima volta, il colpo secco della porta che scuote le pareti: io di qua e tu di là. Magari con l’orecchio attaccato all’anta per sentire i passi che si allontanano o il silenzio sospeso, incerto sul da farsi. Chissà. Neanche il basta altissimo e arduo da scalare a mani nude, le dita che cedono, si arrendono e non fanno andare oltre. Ci proviamo stavolta. Ci proviamo, sì.
L’angoscia dell’addio confonde momenti distanti in un flusso unico che mescola dolore e rabbia. Un fiume che precipita verso il mare e tutto travolge. Siamo due naufraghi che non hanno più la forza di aggrapparsi a un legno, sballottati dalla furia del troppo orgoglio.
Niente sembra più bastarci. Le tue risate e le mie. Il tuo naso freddo di tramontana. La rosa nella valigia accanto ai cioccolatini. Il sole rosso intascato dall’orizzonte, leggero come una carezza sulle guance. La libertà soffiata dalle onde sui nostri corpi profumati di battigia. La vita inventata giorno per giorno, messa insieme a fatica e ora sparpagliata per terra, come i cartoncini di un puzzle spezzato.
Ogni flashback è una discesa nel buco nero del passato. Ciò che per me è stato, dimenticato, confinato nell’angolo delle recriminazioni, degli errori, in fondo delle scelte. E che per te è presente ancora vivo e sanguinante. Sei rimasta là, intrappolata da ciò che poteva essere e non è stato. Un paesaggio di fiaba che avevi sognato e che ancora cerchi, stretta dentro un vestito di ricordi feriti.
Aspetti che io ritorni per prenderti e portarti via, dici. Che io entri nel sogno frantumato e da lì ti tiri fuori. Non so farlo. Avrebbe dovuto farlo quel ragazzo, non può farlo quest’uomo.
Il grido lanciato si spegne nel vuoto, impotente per quanto forte e disperato. L’attesa diventa un tempo circolare di rimpianti che dilatano i minuti della notte e trasformano il sogno in incubo. Notti che furono la magia di un tappeto di stelle srotolato sulle nostre teste, quando ogni respiro era felicità. Quando ci facevamo rapire dal mistero delle costellazioni cercando di decifrare nelle figure indovinate le tracce del destino.
Era nelle nostre mani. Ma il dolore ha bisogno di attenzione, non della rabbia urlata nel ping-pong estenuante delle accuse. Forse non siamo stati all’altezza del sogno. Forse il sogno era impossibile. O forse doveva semplicemente andare così, una vendetta degli dei irritati dalla pervicacia dei nostri sbagli. Mancano persino le parole, fiaccate dal corpo a corpo finale e avide di riposo. Desiderose soltanto di una tregua.
Che inganno il silenzio della notte ricamata di stelle, ora che il tempo è finito. Ora che le nostre facce camminano schiacciate sul marciapiedi, indifferenti all’illusione di bagliori lontani.

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Ballando sotto la pioggia

Il mio recente post Impressioni di Londra ha convinto Mario a raccontare qualcosa della sua esperienza di giovane “scappato” dall’Italia quasi vent’anni fa e accolto da una città che gli ha dato la possibilità di non rimpiangere niente di quella scelta. Ho sempre pensato che ci vuole molto coraggio per abbandonare questa nostra martoriata terra, tanto quanto ne serve per restare. [D.F.]

La mia storia d’amore con Londra cominciò una piovosa notte di giugno del 1997. Era il 16 giugno, per essere esatti. Due settimane prima avevo comprato un biglietto di sola andata, così, d’impulso, dopo aver letto un articolo sulla capitale inglese dove, tra le altre cose, mi si assicurava che avrei trovato lavoro in due secondi.
Avevo 22 anni. Da marzo mi trovavo a Milano, dove ero giunto proveniente dalla Sicilia dopo un viaggio in treno di 23 ore, ovviamente senza biglietto, il mio posto tra il corridoio ed il bagno, in una nuvola di fumo di sigarette. Come un “vu cumprà” terrone senza vergogna, vendevo prodotti inutili porta a porta, mentre mamma pensava fossi a Palermo a studiare psicologia. Conseguentemente, mia madre non crede a ciò che le dico da 19 anni. In verità, la mia carriera universitaria durò quattro mesi, il tempo di capire che avrei avuto almeno 30 anni prima di riuscire a guadagnare qualche soldo. Cosa per me impensabile, avendo assaporato l’indipendenza economica già a vent’anni, quando guadagnavo uno stipendio giocando alla guerra come sottotenente dell’esercito.
Quando arrivai a Londra, tutto il mio mondo in una singola valigia, mi resi conto di non capire una parola di inglese. Subito dopo mi ricordai di non avere un biglietto di ritorno. Panico, per cinque minuti. Le mie preoccupazioni hanno sempre una vita breve. Giunsi al mio ostello dopo essermi perso due volte in Underground: almeno per un tetto avevo avuto il buon senso di prenotare tutto tramite un’agenzia italiana.
Avrei diviso una stanza con tre sconosciuti. Uno di loro sarebbe poi diventato uno dei miei migliori amici. La prima notte mi portò a Piccadilly Circus a ballare sotto la pioggia “perché a Londra puoi fare quello che ti pare, quando ti pare”: una frase che non ho mai dimenticato e che negli anni mi ha spinto ad osare, a tentare di riuscire in “altro”, cose che in Italia non avrei mai considerato.
Essere via ti libera. Per me è stato come stare di fronte ad una tela bianca, pennello in mano, e cominciare a dipingere la mia vita, come la volevo io e non come se la immaginavano ed aspettavano gli altri.
Il mio primo lavoro non lo trovai in due secondi ma in due giorni, giusto in tempo, perché non avevo più soldi. Il 1997 fu un attimo, terminato a Trafalgar Square, arrampicato su un monumento ad aspettare la mezzanotte sopra un mare umano. Lavoravo in un McDonald’s dalle 7 del mattino alle 15.00, poi in un Pub dalle 18.00 alle 23.00 ed infine in strada dalle 23.30 all’una di notte, a fare volantinaggio per una discoteca dove il sabato notte vi lavoravo come cubista(!). Poi si usciva in centro. Dormivo pochissimo ma non importava, perché non dovevo chiedere niente a nessuno. Finalmente libero, ero felice.
Per me la felicità è sapere che puoi contare sulle tue forze per “arrivare” da qualche parte, che si può vivere senza dover chiedere favori e che se ti va, puoi lottare per conquistare la tua parte di mondo, senza compromessi, perché se hai delle qualità ti verranno non solo riconosciute ma anche valorizzate. Negli anni ho fatto di tutto, da elfo nei magazzini Harrods a poliziotto nella polizia metropolitana, da manager in un locale ad impiegato bancario, oltre ad altro di cui non parlo per scaramanzia ma che amo.
Ho vissuto a Melbourne, a Malta, a Los Angeles; spendo tanto tempo ad Havana e giro il mondo per lavoro, ma solo a Londra mi sento completo. Solo a Londra mi sento a casa. A Londra sono maturato nell’uomo che sono. A Londra ho trovato me stesso.
Ecco, potrei morire domani e morirei in pace, senza rimpianti. Da quella prima notte a Piccadilly Circus, non ho mai smesso di ballare sotto la pioggia.

[Mario Forgione]

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Impressioni di Londra

Un viaggio è un puzzle di immagini spolverate sulla mente come zucchero a velo, che il tempo avrà cura di soffiare lontano, inevitabilmente. Restano le impressioni che lo spettacolo della vita concede a chi sa e vuole fermarsi un attimo, anche soltanto per rafforzare il ricordo facendolo vivere un po’ più a lungo. Conservare le emozioni del paesaggio, dei volti, della folla anonima che nella metropoli incede indistintamente, quasi sempre di fretta, fiumana umana in movimento verso mete che non sapremo. Per questo affascinanti.
Nel mio breve soggiorno londinese ho camminato. Ma proprio tanto. Dalla mattina alla sera, di notte. Il contapassi di Pasquale a un certo punto non smetteva più di congratularsi! Un cammino per lo più allegro, da turista, ma anche penoso e doloroso quando ha sbattuto contro la solitudine della morte, la vera ragione della nostra trasferta. Nelle scelte di vita bisogna entrarci in punta di piedi, con rispetto e discrezione, pertanto non scriverò di Peppino “Joe” Conte. E non perché il dolore degli altri è “dolore a metà”, ma perché so che la vita Joe l’ha gustata per intero – come l’ape con il fiore – e se n’è andato senza rimpianti, soddisfatto dei suoi 84 anni avventurosi, per certi versi cinematografici. Abbiamo bevuto alla sua salute e, se da qualche parte Joe ci stava osservando, sono certo che avrà sfoderato il suo inconfondibile e paffuto sorriso.
Volti che sfumano, dicevo. Dell’alcolista che alle due di notte chiede 40 penny per onorare il venerdì londinese. Del ragazzo con la lattina vuota che cerca l’elemosina davanti a una chiesa anglicana, accanto a un cimitero di sole croci rovinate dal tempo e di scritte annerite su rettangoli di marmo rotto. Della donna che dorme dentro al sacco a pelo, abbracciata al suo cane, in un riparo di strada trafficatissimo accanto a Westminster.
Ma anche le facce sorridenti dei cinque ragazzi di differenti etnie che arrivano a Piccadilly Circus, con una corda perimetrano una porzione di suolo all’uscita dell’Underground e per qualche ora replicano uno spettacolo di danze e salti acrobatici sulle note di “Gangnam Style” per un pubblico che si rinnova al ritmo scandito dagli arrivi della metro. Gli artisti di strada che a Covent Garden si esibiscono per centinaia e centinaia di bambini rapiti dalla magia e dall’abilità dei giocolieri, stupiti dall’impassibilità delle statue viventi color oro o argento che si animano come per incanto. I visi allegri dei frequentatori delle botteghe dei barbieri nigeriani, aperti anche di notte perché i “Barber Shop”, nella cultura centroafricana, sono veri e propri spazi ricreativi, nei quali c’è chi si ferma anche soltanto per assistere all’ultima puntata della telenovela del momento.
Le voci e gli accenti si accavallano ma sembrano fondersi in un linguaggio universale che tiene insieme le tessere di un mosaico fatto di volti colorati e allegri nel centesimo selfie della giornata. Il contrasto tra miseria e benessere fa riflettere su quanto l’uomo sia davvero artefice del proprio destino, in una città che comunque ha una marcia in più. Che a tutti, soprattutto ai giovani, sembra essere in grado di offrire una possibilità.

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Graziadei Tripodi, il restauratore al servizio di Dio

A gran parte degli eufemiesi probabilmente dice poco il manifesto mortuario affisso in paese stamattina, che annuncia le avvenute esequie di Graziadei Tripodi, domenica scorsa nella Chiesa della Santissima Concezione ad Airola, in provincia di Benevento. Accade sovente, quando il defunto da molti anni vive fuori paese. Ci si limita a leggere i nomi dei congiunti, per capire a chi “appartenga” il deceduto e poi si passa oltre, distrattamente.
La morte di Graziadei Tripodi non può però passare inosservata, perché chi ci ha lasciato è (uso il presente, il tempo degli artisti, che tali rimangono per sempre) una grande personalità nel campo della scultura e della pittura: “il restauratore al servizio di Dio”.
Graziadei Tripodi, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 13 giugno 1932 al numero civico 2 di via Nucarabella, appartiene a una famiglia di artisti. Il padre, Carmelo, fu pittore, scultore, musico e fotografo. “Galileo Galielei” e “Sant’Antonio Abate” sono probabilmente i suoi dipinti più celebri (premiati all’Esposizione campionaria internazionale di Palermo, nel 1906 e nel 1907), ma molte altre sue opere d’arte sono sparse in diverse chiese della provincia (Acquaro di Cosoleto, Solano, Gioiosa Ionica, San Procopio, Palmi e ovviamente Sant’Eufemia), in Calabria e in Sicilia. Una passione per l’arte trasmessa dal genitore agli otto figli (due donne e tre maschi), in particolare al restauratore Graziadei, appunto, ad Agostino e al pittore Domenico Antonio (“L’Aspromontano”), artista di fama internazionale pluripremiato per le sue opere, esposte nelle sale più prestigiose di tutti i continenti.
Ma un ruolo non secondario per il successo dei figli lo giocò la madre Carmela Giordano, come riconobbe lo stesso Graziadei nella monografia dedicata al padre in occasione del cinquantesimo anniversario della morte (2000): «Carmela Giordano ha avuto il coraggio di lasciar andare via i propri figli, comprimendo il suo senso materno e i suoi affetti, alfine di evitare loro la “provincializzazione”, cioè il restare “chiusi”, come era successo al padre, nello stretto ambito locale, privo di significativa evoluzione nel campo dell’arte. […] Se noi, figli di Carmelo Tripodi e di Carmela Giordano, sparsi per la penisola, oggi, possiamo offrire qualche contributo all’arte, riconosciuto e gratificato, lo dobbiamo sì al gene paterno ma anche alla maternità e al sacrificio immenso di Carmela Giordano».
Di strada, nel campo del restauro, Graziadei Tripodi ne ha fatta molta. Autore di due lavori fondamentali  Il Restauro. Come e perché (Napoli, 1981), Fra restauro e pittura. Una vita al servizio dell’arte (Caserta, 2012) , le sue abili mani hanno ridato vita ad opere realizzate dai giganti del pennello e dello scalpello: su tutti, Giotto (Cappella Peruzzi, chiesa di Santa Croce in Firenze; ma anche la Cappella degli Scrovegni a Padova), ma anche gli affreschi del Solimena e del Cavallini a Napoli, oltre a un’infinità di opere, a carattere prevalentemente religioso, sparse tra Toscana e Campania, in particolare ad Airola e nel Beneventano.
A Sant’Eufemia Graziadei Tripodi fece ritorno, per un breve periodo, sul finire degli anni Ottanta. In quella circostanza fu promotore di manifestazioni a carattere religioso che ebbero uno straordinario successo (il “Presepe vivente”, tra le vie del Vecchio Abitato e la “Via crucis vivente”); quindi, diede prova della sua grande arte a San Procopio, Favazzina, ma soprattutto nel suo paese natio, grazie al restauro della statua della Santa Patrona.
Graziadei Tripodi, l’artista che portava inciso nel nome il proprio destino.

*La foto è tratta da: http://ettore.ruggiero.eu/il-maestro-graziadei-tripodi-un-capitolo-della-storia-di-airola/ 

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Il dovere della memoria

Sarà che oggi, mentre mi dedicavo alla sistemazione di libri e documenti mi sono ritrovato tra le mani la scatola di vecchie carte che furono sue.
Sarà che tra poche settimane saranno quattro anni che il professore Rosario Monterosso non è più tra di noi.
Sarà che mi mancano le nostre conversazioni e i suoi consigli di lettura.
Sarà che non ho mai smesso di cercarlo e di sentirlo comunque presente: ogni volta che leggo un libro; ogni volta che vorrei essere confortato sulla bontà delle mie riflessioni e delle mie azioni; ogni volta che avrei bisogno di una guida sicura, di una luce che rischiari nel buio confuso di questi tempi tristi.
La sua guida. Le sue lezioni puntuali, chiarificatrici. Come negli anni del liceo, quando dal banco lo ascoltavo incantato e seguivo la traiettoria del suo sguardo, che andava a cercare da qualche parte nell’aula le parole più appropriate per rendere facilmente comprensibili anche i concetti più ostici della filosofia o per sciogliere con semplicità espositiva i nodi storici più controversi.
Sarà che oggi abbiamo un bisogno urgente di gente perbene, rigorosa sotto il profilo etico.
Bagnara, la sua città, dovrebbe essere orgogliosa di avere avuto un figlio con lo spessore umano e culturale di Rosario Monterosso. Invece non lo è. Con i fatti dimostra di non esserlo. Perché altrimenti non si spiegherebbe l’oblio caduto sul professore dal sorriso “rugoso”. A quattro anni dalla sua scomparsa, non mi risulta nessuna iniziativa pubblica per ricordare la figura di un intellettuale coltissimo, di un cittadino impegnato nel sociale, di un animatore culturale generosissimo, di un politico onesto. Nessuno che abbia sentito il bisogno di indicare alle giovani generazioni un modello di umiltà e di umanità.
Non mi risulta una targhetta, un segno qualsiasi del suo passaggio su questa terra, la sua terra. Un ringraziamento all’educatore, prima che ancora al docente, di generazioni e generazioni di studenti; all’infaticabile organizzatore di manifestazioni culturali che hanno portato il buon nome di Bagnara sulle pagine dei giornali; al protagonista di vicende significative nella storia delle Acli, dei Lions e della politica non solo bagnarese.
Il dovere della memoria è esercizio faticoso, ma irrinunciabile se si vuole dare speranza al futuro di una comunità. Non tanto per celebrare ciò che è stato, quanto per indicare un percorso auspicabile di rettitudine morale e di impegno sociale fondamentali per la crescita individuale e collettiva.

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Se ne vale la pena

Tre giorni fa ho ricevuto una telefonata inaspettata che mi ha fatto riflettere, sulla quale ancora sto riflettendo. Dall’altro capo del telefono c’era la signora Angela Gioffrè, che vive nel New Jersey da moltissimi anni e della quale ovviamente ignoravo l’esistenza. Emozionatissima e agitata perché non riusciva a “prendere la linea”, mi ha spiegato di essere la nipote di Giacomo Chiuminatto, il titolare della ditta genovese che negli anni Venti del secolo scorso realizzò i lavori di costruzione della galleria e del ponte di ferro che sono il simbolo del nostro paese. Tramite dei parenti che vivono qua aveva ricevuto il libro che scrissi 4 anni fa sulla toponomastica di Sant’Eufemia (Il cavallo di Chiuminatto) e voleva ringraziarmi per avere ricordato la figura di suo nonno. Una lunga telefonata, nel corso della quale mi ha raccontato dell’incontro di sua mamma (figlia di Chiuminatto) con un giovane del posto, Nino Gioffrè, suo padre, e tutto il resto. L’ha fatto con una felicità genuina, rara, come forse solo i bambini o, appunto, le persone anziane riescono a provare e ad esternare.
A volte ci si interroga sul senso delle cose che facciamo, se ne “vale la pena”. E allora bisogna chiedere, a se stessi, cosa “vale la pena”. Non dovrebbe valere la pena scrivere libri che non avranno mai i lettori neanche dei più mediocri bestsellers. Ma si vive di emozioni e di sentimenti, altrimenti non si vive. Vale la pena restare? Restare o partire, da questa prospettiva, sono un falso dilemma. Certo, qua ho avuto la fortuna di potere fare le cose che amo, ad esempio scrivere: per gioco, per hobby, perché tale ho sempre considerato questa mia attività. Altrove probabilmente avrei potuto avere maggiori gratificazioni professionali, qualsiasi cosa avessi deciso di fare. Ma dipende tutto da cosa mettiamo sul piatto della bilancia. Diventa un falso dilemma perché partire o restare sono entrambe scelte condivisibili. Ho un fratello che ha fatto benissimo ad andare via, quasi vent’anni fa; ne ho un altro che ha fatto altrettanto bene a tornare, dopo più di un decennio fuori. Se siamo capaci di emozionare e di emozionarci, di essere liberi nelle nostre scelte, possiamo stare ovunque e staremo bene.
Per me la scrittura è principalmente una cura dello spirito e se i risultati sono quelli di una telefonata come quella che ho ricevuto, be’: vuol dire che la cura funziona.

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