L’ultimo saluto al professore Elio D’Agostino

Ci siamo ritrovati in tanti a Santo Stefano, stamattina, per porgere l’ultimo saluto al professore Elio D’Agostino. In una sorta di appello intergenerazionale, molti ex studenti del liceo scientifico “Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte si sono stretti alla moglie Elvira, ai figli Linuccia, Rocco, Cristian e Simone, con le rispettive famiglie. E se, mentre si svolgeva la funzione religiosa, la malinconia dei ricordi inevitabilmente strappava le ragnatele del tempo, l’affetto per il nostro vecchio professore di italiano e latino ha riportato tutti sul piano confortante dell’eredità culturale e morale da raccogliere e custodire come una gemma preziosa.
La mente è corsa velocemente a Dante. Le lezioni del professore D’Agostino sulle terzine della Divina Commedia ci tenevano incollati alla parola. Ci ha fatto scoprire il lato nascosto o comunque meno conosciuto delle interpretazioni dei versi danteschi. Era quasi un gioco andare a verificare se la sua spiegazione coincideva con le note del Sapegno. Anche se non ce n’era bisogno, perché lui stesso ci avvisava che per ogni terzina le spiegazioni potevano essere molteplici. Ce le proponeva tutte collegando il vicino con il lontano, l’alto con il basso, l’antico con il recente. Grazie a lui abbiamo amato il Sommo Poeta e sopportato la metrica latina.
Per tre decenni è stato un solido punto di riferimento all’interno della comunità eufemiese. Ha continuato ad esserlo anche dopo il pensionamento, quando non era infrequente vederlo partecipare ad iniziative culturali, in particolare quelle organizzate dall’Associazione “Terzo Millennio”. Seduto tra il pubblico, gli occhi semichiusi come a cercare il filo di un intervento che avrebbe messo tutti d’accordo, ognuno di noi attendeva che prendesse il microfono. Il silenzio che circondava le sue parole era la prova più evidente del riconoscimento di un’autorevolezza culturale assoluta.
Sono stati diversi gli allievi che andavano a trovarlo a casa, specialmente chi dopo la maturità aveva intrapreso un percorso universitario umanistico o chi aveva bisogno di consigli per la preparazione dei concorsi per docenti nelle scuole. È stato generoso con tutti, a dispetto della fama che lo dipingeva come un po’ avaro nella valutazione degli studenti. In realtà, D’Agostino non era severo nei giudizi. Era giusto, come dovrebbe essere ogni insegnante che abbia veramente a cuore il bene dei suoi ragazzi. La sua integrità morale garantiva l’accettazione di qualsiasi voto da parte di studenti e genitori. I voti bassi non erano un giudizio divino, ma un pungolo a fare di più e meglio. Traevano origine da un profondo senso del dovere, contro il quale imprecavamo quando, seppure leggermente in ritardo, arrivava a scuola nonostante la neve caduta nella notte lungo la strada che da Santo Stefano portava a Sant’Eufemia.
La mia generazione ha avuto la fortuna di trovare nel liceo di Sant’Eufemia docenti preparati ed educatori straordinari (Elio D’Agostino, Rosario Monterosso, Adoneo Strano), entrati nel cuore degli studenti e delle famiglie con la forza dell’esempio, dell’empatia, dell’umanità e dell’umiltà. Nel suo intervento sul sagrato della chiesa Francesco Luppino, allievo del “Fermi” e oggi primo collaboratore del dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo “Don Bosco”, ha sottolineato l’importanza di D’Agostino nella formazione di intere generazioni di eufemiesi: «Ha dedicato la sua vita alla scuola non come un lavoro, ma come un dovere, sentendo profondamente la sua missione di educatore nel senso socratico, cercando di far emergere dagli alunni le loro singole potenzialità, incoraggiandoli ma nello stesso tempo con la sua fermezza, la sua serietà e il rigore morale richiamandoli al senso del dovere, aiutandoli, aiutandoci a maturare come uomini in mezzo agli uomini, con la responsabilità del sentirsi tali».
Il mio ultimo ricordo da liceale è legato alla prova orale dell’esame di maturità. Nel 1992 la commissione era composta da docenti esterni e da un solo rappresentante interno, che per la mia classe fu il professore Monterosso. La mattina in cui dovetti sostenere l’esame era però presente anche il professore D’Agostino, che aveva accompagnato la figlia Linuccia, mia compagna di classe. Mi vide vicino ad una finestra, mentre cercavo di concentrarmi e di tenere a bada la tensione. Si avvicinò e con la sua consueta calma mi disse: «Come va? Stai tranquillo. Vedrai che andrà tutto bene», con lo sguardo e il tono di voce del genitore, non del docente.
La comunità eufemiese piange insieme a quella di Santo Stefano la perdita di un grande figlio. In un pubblico manifesto affisso per iniziativa di Carmela Cutrì, allieva ed erede della cattedra che fu di D’Agostino, gli alunni transitati dal “Fermi” hanno preso in prestito le parole di Seneca («Da un uomo grande c’è qualcosa da imparare anche quando tace») per rivolgere al loro professore un saluto riverente: «Ha lasciato un segno indelebile in ognuno di noi, PROFESSORE. Grazie per i suoi insegnamenti, la sua grande umanità, la sua fermezza, la sua immensa cultura, il suo irreprensibile senso del dovere. Grazie per quanto ci ha donato».

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La guerra e noi

Provocano sempre sconcerto la violenza e le guerre, rigurgito di pulsioni primitive che si fa fatica a definire. Cos’è la guerra? Perché gli uomini e le nazioni si fanno la guerra?
Ci sono certamente delle ragioni che portano gli uomini a calpestare la vita e la dignità di altri uomini per un qualche interesse. Anche se qualsiasi motivazione risulta incomprensibile agli occhi di chi pone al primo posto della propria scala di valori la vita e la dignità umana.
Da giorni leggo i commenti e i post delle tifoserie contrapposte. Come se davvero la guerra possa essere accomunata ad una partita di calcio o ad una gara canora. Se l’uomo perde di vista l’aspetto umano degli avvenimenti, perde sé stesso.
C’è un popolo in fuga dal proprio Paese, che ha dovuto abbandonare la propria casa con quattro cose strette dentro un sacco. Una vita dentro un sacco. Ci sono bambini che piangono terrorizzati. C’è la piccola Mia, che nasce nel sotterraneo della metropolitana di Kiev adattato a rifugio antiaereo. C’è il fischio della sirena che invita a correre negli scantinati perché dal cielo stanno per piovere bombe. Ci sono civili e militari che muoiono, e non era nei loro progetti. Non così, almeno. C’è gente che ha perso tutto ciò che aveva. C’è il ricordo, già diventato vecchissimo, di una condizione di normalità stuprata dall’invasione.
Le democrazie hanno mille imperfezioni, spesso sono inefficienti. Ma rappresentano il meglio di cui l’uomo è stato capace per esprimere la sua natura di animale sociale. Sono il prodotto di un percorso evolutivo millenario; nel secondo dopoguerra, l’esito della fine dei conflitti e della sconfitta delle dittature in Europa: “la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”, ammoniva Winston Churchill in un celebre discorso del 1947.
A differenza di molti altri conflitti in corso sul pianeta, dei quali colpevolmente non sappiamo o facciamo finta di non sapere niente, questa in Ucraina è una guerra in presa diretta. Uomini, donne, bambini e anziani non sono numeri, ne vediamo i volti sofferenti. Il dolore provocato non dobbiamo immaginarlo, ferisce i nostri occhi.
Per questo è sconcertante l’incontinenza verbale del tifoso della strada. Mette angoscia ciò che non si riesce a comprendere.

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Buon Natale

Beati coloro che sanno emozionarsi nell’attesa del miracolo che ogni anno si compie, l’ennesima ri-nascita. Con un inizio testardo da attaccare ad ogni fine con la colla, come la coda colorata del disegno del bambino.
Tra bilanci più o meno impietosi e buoni propositi, contiamo le sedie vuote di chi non c’è più, di chi non ha voluto esserci, di chi non può esserci. Mentre i ricordi trafiggono l’anima. Mentre i ricordi accarezzano l’anima.
Natale è tempo di assenze. Ingombranti nel loro non esserci, assordanti nel loro silenzio. Un tempo sospeso, che svanisce in un giro d’orologio portando con sé addizioni e sottrazioni, successi e fallimenti. Incalzato dall’urgenza di recuperare la coperta che protegga il bambino dal gelo. Perché si è inevitabilmente chiamati a fare i conti con la realtà, non con la sua idea o rappresentazione.
Non si può scappare dalla vita, quella cosa che ti travolge proprio quando pensi di avere tutto sotto controllo. Quando il cammino ha l’aspetto ingannevole di una strada lunga e dritta: senza curve, salite, incroci. Tocca andare e vedere le carte, con il bello e con il cattivo tempo. Con in bocca la preghiera cantata da De Gregori a Gesù Bambino: «Fa che piova un po’ di meno, sopra quelli che non hanno l’ombrello».
Buon Natale

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Gino Strada, una vita contro le guerre

«Tra i suoi ultimi pensieri – si legge sul sito di Emergency – c’è stato l’Afghanistan». Gino Strada se n’è andato proprio mentre i talebani stanno per riconquistare Kabul, in una terra che l’ha visto lungamente impegnato a cucire feriti, ingessare ossa spezzate, operare con il bisturi mentre attorno all’ospedale lo scoppio delle bombe diventava assordante. Nastro adesivo nelle finestre e via, per non interrompere l’opera umanitaria alla quale ha dedicato tutta la vita: la cura e la riabilitazione delle vittime di guerre e delle mine antiuomo. Fedele al principio che tutte le vite hanno uguale valore, “che le guerre, tutte le guerre, sono un orrore. E che non ci si può voltare dall’altra parte, per non vedere le facce di quanti soffrono in silenzio”. Parole scolpite nel libro testimonianza Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra (Feltrinelli, 1999), che contiene la prefazione di Moni Ovadia: «Gino Strada arriva quando tutti scappano, e mette in piedi ospedali di fortuna, spesso senza l’attrezzatura e le medicine necessarie, quando la guerra esplode nella sua lucida follia. Guerre che per lo più hanno un lungo strascico di sangue dopo la fine ufficiale dei conflitti: quando pastori, bambini e donne vengono dilaniati dalle tante mine antiuomo disseminate per le rotte della transumanza, o quando raccolgono strani oggetti lanciati dagli elicotteri sui loro villaggi. I vecchi afgani li chiamano pappagalli verdi». Morti e feriti privi di dignità, ridotti ad “effetti collaterali” di ogni sporca guerra: «Il 90% dei feriti di una guerra sono civili, molti dei quali bambini: è questo il nemico?».
Strada è stato definito un idealista concreto. Sono 11 milioni le persone curate in 18 paesi diversi a partire dal 1994, quando insieme alla moglie Teresa Sarti fondò Emergency: «Se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino – il mantra della cofondatrice, morta nel 2009 – ci troveremmo in un mondo migliore senza neanche accorgercene». Un pezzettino “banale” come l’applicazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che Strada ha voluto pubblicare in appendice al suo Buskashì. Viaggio dentro la guerra (Feltrinelli, 2002): «Mi piacerebbe – scrisse in quell’occasione – che ce ne fosse una versione plastificata, di piccolo formato, da tenere nel portafogli con la carta d’identità e la tessera del gruppo sanguigno».
Dopo l’attentato delle Torri Gemelle a New York, lanciò la campagna “uno straccio per la pace”: «Uno straccio di pace appeso alla borsetta o al balcone o all’antenna della macchina o al guinzaglio del cane per chiedere che questa guerra finisca e non ne nascano altre. Volere la pace non significa mancare di rispetto alla memoria di chi è morto negli attentati. Confidare nella pace non significa non aver pianto per le migliaia di vittime innocenti». Io optai per un pezzo di stoffa bianco annodato allo specchietto retrovisore della mia auto: è ancora là.
Chissà come avrebbe reagito all’ipocrisia del cordoglio espresso da gente che mentre era in vita l’ha aspramente criticato, accusandolo neanche tanto velatamente di fare il gioco dei terroristi. Probabilmente avrebbe tirato fuori quel carattere irascibile, richiamato dal cantautore Daniele Silvestri nel suo commosso ricordo: «Gino mio. Gino nostro. Gino di tutti. Gino degli indifesi, dei feriti, Gino in guerra contro ogni guerra, sempre. Lasci un mondo che ti ha fatto incazzare quasi ogni giorno, eppure ’sto mondo di merda è un po’ meno di merda grazie a te e a chi negli anni da te ha imparato e ti ha seguito».

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Benvenuti nella giungla

A seguito delle proteste per la soppressione o scippo (dipende dai punti di vista) dello svincolo autostradale, il Potere, per benevola concessione, acconsentì al mantenimento di un tratto della vecchia autostrada, in modo che i cittadini di Sant’Eufemia non dovessero scendere a Pellegrina e poi risalire da Ceramida, prima di potersi immettere nel nuovo tracciato. Il progetto originario prevedeva infatti proprio questo: fantastico e lungimirante.
Da ciò conseguì il problema della manutenzione di un tratto di strada ignorato anche dal navigatore satellitare: Anas, Città metropolitana, amministrazioni comunali?
Fino ad ora, a seguito delle insistenze delle amministrazioni comunali e dei politici locali, in qualche modo si era ottenuto almeno lo sfalcio estivo da parte della Provincia, poi Città metropolitana. Se non a giugno, ad agosto: in modo, insomma, che i turisti non si dovessero dotare di machete per potere andare al mare.
Noi stanziali invece non abbiamo di questi problemi, essendo specialisti delle gimkane. Se non guidiamo col brivido non ci prendiamo gusto. Abbiamo bisogno delle scariche di adrenalina da rischio di incidente stradale per vivere bene. Per questo motivo, esultiamo nel constatare il trionfo della vegetazione su guard-rail e asfalto.
Benvenuti nella giungla, per dirla con il titolo di una celebre canzone dei Guns N’ Roses.
Purtroppo, non possiamo contare su nessuno. Per me è una magra consolazione essere sempre stato contrario all’abolizione della Provincia, che era l’ente più vicino alle comunità periferiche, delle quali esprimeva i rappresentanti. D’altronde, se i grandi che fecero l’Italia suddivisero la Penisola in province e non in regioni, un motivo doveva esserci. Vuoi vedere che era proprio quello di dare dignità istituzionale e rappresentanza ai territori di ogni singola provincia?

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Splendi, Diego

Scrivo di te di notte, l’ora del dialogo con le stelle. L’ora dei sogni. L’ora dell’amore. Perché sei stella, sogno e amore. Sei “Pibe de oro” e “mano dei Dios”, sei “Isso”: il liberatore dei popoli oppressi, il riscatto degli scugnizzi, il bambino che grida che il re è nudo mentre attorno il sistema volge lo sguardo da un’altra parte. Per paura o per debolezza. Due sentimenti che non ti appartengono, che non possono appartenere a chi ha respirato la polvere di Villa Fiorito.

Sono argentini i due più grandi rivoluzionari della seconda metà del XX secolo: Ernesto Che Guevara e tu, Diego. «Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo». Ed è quello che hai fatto salendo le scale degli spogliatoi del San Paolo, il 5 luglio 1984. Caricandoti sulle spalle la rabbia degli ultimi per condurli nella scalata al cielo: sapendo che “la vita è una lotteria di notte e di giorno”, come canta di te Manu Chao. Lo sai meglio di chiunque, Diego: conosci vittorie e sconfitte della vita, quella tua vita che hai spesso maltrattato, ma sempre amato. Sei il Lord George Byron del calcio. Lo sarai per sempre, con quel cuore grande che hai portato anche in un campo infangato di Acerra, per mantenere la promessa fatta ad un bambino malato. E come sorridevi, quel giorno. Per questo la gente ti ama e ti amerà per sempre: come me, con il tuo poster attaccato accanto a quello dell’Inter dei record.
E allora splendi, continua a splendere, nell’eterno presente in cui vivono gli Dei.
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2 novembre 2020

Quanto siamo cambiati da marzo ad oggi? Quanto le nostre vite sono state stravolte dal Covid? A quante abitudini abbiamo dovuto rinunciare? Ci pensavo oggi, mentre il pensiero andava ai “miei” defunti. Parenti e amici che non ho potuto salutare come facevo ogni anno, lasciando sulle loro tombe un fiore o un lumino. Ho ripercorso mentalmente il percorso che faccio quando entro nel cimitero, in una sorta di appello degli assenti. Ci sono tutti.

La pandemia ci ha rinchiusi nelle nostre case, costringendoci ad una solitudine che diventa più acuta in occasione di una ricorrenza. Avvertiamo lontana e rimpiangiamo la tradizione dei “morti”, quando da piccoli andavamo a bussare alle porte delle case per ricevere qualche soldino, frutta e dolcini. In quelle castagne, in quei cioccolatini si realizzava il miracolo dell’incontro simbolico con l’aldilà, poiché i questuanti – sostiene l’antropologo Vito Teti – non erano altro che “vicari” dei defunti. I bambini rappresentavano le anime dei propri cari, che avrebbero sofferto molto in caso di rifiuto.
Nelle fotografie delle lapidi cerchiamo occhi e lineamenti che ci riconducano ad una storia ininterrotta, nonostante la morte: “le tessere giganti di un domino che non avrà mai fine” (De Andrè). Cerchiamo il calore di parole che abbiamo ascoltato, di gesti che ci hanno fatto sentire amati. Oggi, tutto questo non c’è stato: sono mancate le visite e, con esse, un aspetto profondo del rapporto con la morte nella nostra cultura religiosa e popolare.
Non potendomi recare al cimitero, ho deposto un lumino ai piedi del Crocifisso del monumento dei caduti. A quel Cristo che, per chi crede, è risorto dalla morte e, per chi non crede, è comunque il simbolo della lotta non violenta contro gli abusi del potere e delle autorità. Il predicatore dell’egualitarismo e della fratellanza universale. Il volto degli “ultimi” della Terra, di tutti coloro che soffrono nel fisico o portano sul cuore cicatrici impresse come solchi.

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Lettera ai vertici di Poste Italiane

Sulla Gazzetta del Sud di oggi, la mia segnalazione a Poste Italiane del disagio patito dall’utenza di Sant’Eufemia a causa dell’elevato numero di operazioni svolte quotidianamente dall’Ufficio, a fronte della presenza di due soli sportelli, attivi con turni di lavoro antimeridiani. Ho scritto alla direzione centrale Risorse Umane Organizzazione e Servizi di Roma, a quella per il Sud di Napoli e a quella di Reggio Calabria. Ho chiesto pertanto l’adozione di opportuni provvedimenti, in particolare l’apertura di un terzo sportello e la collocazione del “totem giallo” all’interno dell’Ufficio postale, essendo il “numerino” inidoneo allo smistamento del lavoro sulla base delle diverse tipologie di servizio richiesto dagli utenti.

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A proposito delle prossime elezioni comunali

Con l’elezione del sindaco di Sant’Eufemia Domenico Creazzo a consigliere regionale, al quale auguro buon lavoro e faccio i complimenti (così come faccio i complimenti anche all’altro candidato Giuseppe Gelardi che, pur non centrando l’obiettivo, ha ottenuto un eccellente risultato), si apre inevitabilmente la partita delle prossime elezioni comunali. Sussistendo infatti causa di incompatibilità tra la carica di consigliere regionale e quella di sindaco, entro sei mesi Creazzo dovrà dimettersi, dopodiché si andrà a nuove elezioni.
Già lunedì, a urne ancora calde, ho ricevuto parecchi messaggi e, ovviamente, la fatidica domanda, sentita anche nei giorni successivi: «Ti ricandiderai?». Al quesito rispondo pubblicamente, con franchezza: chi sarà il prossimo candidato a sindaco, per il mio modo di intendere la politica, è l’ultimo dei problemi. Ho sempre odiato le personalizzazioni e le autocandidature. Il vero quesito, dunque, dal mio punto di vista è un altro: di questo nostro paese cosa vogliamo fare? Quanta gente c’è disposta a fare uno sforzo di generosità per mettersi al servizio della comunità e, soprattutto, di un progetto che voli alto, che tenti di scardinare vecchie logiche e dia la speranza di un’inversione di rotta anche nella quotidianità amministrativa del comune?
Se non c’è il sogno, non c’è politica, ma soltanto gestione di (poco, pochissimo ormai nei comuni) potere. E io non posso esserci.
Se c’è il sogno, se ci sono giovani e meno giovani innamorati di questo nostro paese che accettino di mettersi in gioco e che, soprattutto, accettino di metterci la faccia (perché, dopo, è facile lamentarsi perché “al comune ci sono sempre gli stessi”), che accettino di diventare protagonisti attivi e non spettatori disincantati della fase che si è ora aperta, allora io ci sarò.
Credo di avere sempre dato prova di non coltivare ambizioni personali. È notorio che nelle passate elezioni ero disposto a fare non uno, ma dieci passi indietro, pur di arrivare ad una soluzione di lista unitaria. Cosa che allora non è stata possibile, con mio grande rammarico. Ci sarà questa possibilità? Non lo so. So però che dall’ipotesi di un progetto che sia il più inclusivo e condiviso possibile dipenderà o meno la mia presenza. A queste condizioni potrò esserci, con il ruolo che, tutti insieme, decideremo per tutti coloro che accetteranno la sfida. Tutti insieme.
Ho sempre fatto politica con spirito di servizio e di lealtà nei confronti dei miei compagni di viaggio, sia quando sono stato protagonista, sia quando ho avuto un ruolo più defilato. Spirito di servizio significa che le decisioni vanno prese collegialmente: elaborazione di un programma elettorale, selezione dei candidati a consigliere, decisione su chi sarà il candidato o la candidata a sindaco (l’ordine non è casuale).

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Salviamo Favazzina

Dopo le mareggiate del 23-24 dicembre, Favazzina è uno strazio. Il mare ha travolto le sue caratteristiche e graziose spiaggette, portando via tutto. Quel che è rimasto somiglia tanto a un campo di battaglia subito dopo un bombardamento. Terra arata, rivoltata, franata. Spaccature lungo il poco di spiaggia rimasta, profonde come ferite dell’anima.
Favazzina è uno dei miei luoghi dell’infanzia. A Favazzina mio padre mi ha insegnato a nuotare, quarant’anni fa. Favazzina è stata teatro delle gare di resistenza in apnea tra bambini. A Favazzina mi sono tuffato per la prima volta dagli scogli sull’acqua limpida. Gli stessi scogli che, adolescente, ho esplorato a caccia delle patelle, da staccare con il coltello e divorare subito dopo una veloce sciacquata sulle piccole onde.
Tutte le estati degli anni 80 le ho trascorse a Favazzina, gli occhi felici e il sale sulla pelle, spruzzi e tuffi, gol e parate. Favazzina sono i miei fratelli e i miei cugini francesi, sarabanda giocosa con seguito di ombrelloni e borse frigo gigantesche con dentro frutta, panini e bibite. Favazzina è la Toyota Corolla di mio zio Carmelo, nello stereo le musicassette di Johnny Hallyday e Adriano Celentano per un mese di fila, mentre mia zia Gigì gli intima di andare piano non appena supera i 100 km/h.
Alla fine degli anni 90, Favazzina fu per me una piacevole riscoperta, fatta insieme a tanti altri amici e a tanti bambini, ospiti dell’Orfanotrofio Antoniano di Sant’Eufemia, che per tutto il mese di luglio con i volontari dell’Associazione “Agape” accompagnavamo al mare. Una colonia estiva che per un decennio abbiamo organizzato portando a Favazzina bambini di Altamura e Napoli, ma anche disabili e ragazzini di Sant’Eufemia provenienti da nuclei familiari disagiati.
Da qualche anno Favazzina mi attende a settembre, il periodo in cui preferisco andarci per lasciarmi cullare dalle onde e dal silenzio. Nella solitudine della “mia” spiaggia ho letto Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo ed è stata una doppia emozione.
Ora è tutto molto doloroso. La strada d’accesso è crollata e della stessa spiaggia non è rimasto quasi niente: una lingua ristretta di massi sputati dal mare. La furia del mare si è abbattuta anche sui miei ricordi di bambino, di adolescente, di adulto. Come se abbia portato via anche una parte di me.
Favazzina deve continuare a vivere anche per noi, suoi innamorati. Sul sito charge.org Carmen Santagati ha promosso una petizione (“Ricostruiamo Favazzina di Scilla distrutta dal maremoto”), che ho sottoscritto e che chiedo di sottoscrivere ai tanti che come me amano quest’angolo di Paradiso.

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