Lo spettacolo della politica e la politica spettacolo
Mancava solo questa: il ricorso alla “prova tv” per sanzionare il comportamento di un ministro (La Russa) che in Parlamento, come fosse un Pasquale Bruno qualsiasi (rude difensore degli anni ’80-’90 soprannominato “O animale”) in preda a trance agonistica, manda a quel paese il presidente della Camera e si produce in uno show sguaiato mentre parla il capogruppo del Pd, Dario Franceschini. Dopo che in precedenza, in un eccesso di superomismo, aveva sfidato a petto in fuori i dardi (le monetine) tirati dai manifestanti accorsi davanti al portone di Montecitorio per protestare contro il tentativo di affossare il processo Mills con l’approvazione della legge sulla prescrizione breve. Una scena che ci riporta ad un illustre precedente, Bettino Craxi sotto assedio all’uscita dell’hotel Raphaël, la metafora del declino politico del leader del Partito socialista. Ora come allora, quando i manifestanti contestarono la bocciatura dell’autorizzazione a procedere contro il segretario del Garofano, è sempre il tema della giustizia ad alimentare le più feroci contrapposizioni. Forse perché il cittadino comune ha difficoltà a subire passivamente lo scenario orwelliano di una giustizia uguale per tutti, ma per alcuni “più uguale”. Un’accelerazione improvvisa e sospetta che contraddice le promesse del Guardasigilli Alfano sul varo di un progetto di riforma costituzionale della giustizia liberato dallo spettro di leggi ad personam. Che invece torna prepotentemente alla ribalta in questo rissoso tornante.
Il clima da corrida fa intravedere tempi duri, da campagna elettorale. I decibel sono quelli. Ma ogni giorno ha la sua pena, o il suo show, che fa lo stesso. Perché l’esibizione di Berlusconi a Lampedusa è stato un numero di cabaret degno del migliore avanspettacolo. Lo schema è quello classico, già sperimentato per il post-terremoto a L’Aquila e per la vicenda dei rifiuti a Napoli: situazione di immobilismo assoluto, arrivo del premier, “ghe pensi mi” e soluzione immediata. È l’uomo del fare, capace di compiere miracoli in 48 ore. Nell’ordine: lo sgombero di 6.000 tunisini; la realizzazione di un campo da golf, una scuola, un ospedale e un casinò, un piano fogne e uno elettricità; la promozione di un “piano colore” per l’isola (troppo grigio, che tristezza); l’acquisto dei pescherecci in Tunisia per impedire le partenze; una moratoria fiscale, bancaria e previdenziale; la riduzione del prezzo del gasolio per i pescatori dell’isola e l’istituzione di una “zona franca”. Non basta? Avanti con la candidatura di Lampedusa per l’assegnazione del premio Nobel per la pace. Serve una garanzia? L’acquisto di una villa è come la ceralacca, sfiora l’autorevolezza della firma sul contratto con gli italiani da Bruno Vespa.
Se un paio di giorni dopo l’exploit a favore di telecamere i problemi si ripresentano nella loro drammatica gravità, pazienza. L’effetto mediatico, in ogni caso, c’è stato. Come nella testimonianza (falsa) della terremotata (falsa) a “Forum”. Così, mentre la maggioranza tenta di imbavagliare i talk show in vista dell’imminente campagna elettorale per le amministrative, l’Agcom richiama il tg1, il tg4 e Studio aperto per la sproporzione della presenza del governo nei servizi giornalistici e il Parlamento europeo inserisce l’Italia tra i paesi a rischio (con Ungheria, Estonia e Romania) per quanto riguarda la libertà di informazione.
Un telegiornale un po’ troppo istituzionale
Mercoledì, sono quasi le 19.30 e penso: “vediamo cos’è successo in Calabria”. Accendo il televisore e mi sintonizzo sul tg3, curioso di apprendere qualche novità sulla fluidissima situazione politica regionale. Ci sono in ballo le candidature per le prossime elezioni amministrative, con Reggio da tempo ormai al centro dell’attenzione. Che farà l’Udc? Si accoderà alla linea regionale che riconferma in toto il patto di ferro con il Pdl o seguirà la strategia romana del Nuovo polo? Il Pdl sfoglierà la margherita (Fedele-Raffa) o, alla fine, salterà fuori un nome capace di mettere tutti d’accordo? Il Pd è vivo e lotta insieme a noi o è capitolato definitivamente, sotto i fendenti di Bova- Adamo- Loiero da una parte e Musi dall’altra? Mi attendo delle risposte e sono tutto orecchie davanti alla giornalista Maria Luigia Cozzupoli.
Si inizia con la cronaca. Ci può stare. In una regione martoriata dalla criminalità è pure normale. E poi, proprio il giorno prima c’era stata l’operazione “Crimine 2”. Si continua su quel filone. Per cui, in rapida successione: il rapporto della Direzione nazionale antimafia che assegna alla ’ndrangheta il primato nella classifica delle associazioni criminali; il sequestro di beni per un valore di 40 milioni di euro, effettuato tra Calabria, Basilicata, Lazio e Toscana; gli spari contro la segreteria politica di Salvatore Magarò, presidente della Commissione regionale antimafia e l’intimidazione al consigliere regionale Gianni Nucera. Completano il quadro della “nera”, gli aggiornamenti sulla scomparsa di Maria Pelaia a Serra San Bruno.
Grande risalto per la firma del protocollo di legalità sottoscritto tra Anas e prefettura di Reggio Calabria per la prevenzione dei tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata nei lavori riguardanti il VI macrolotto della A3 (tratto compreso tra Scilla e Villa San Giovanni). Poi, la presentazione a Catanzaro del rapporto dell’Unicef sull’adolescenza e il consiglio provinciale aperto, tenuto a Cosenza per la presentazione del progetto di istituzione della facoltà di Medicina. A Cirò Marina, invece, il progetto presentato (“Io denuncio”) riguarda l’educazione alla legalità. Ma si “presenta” anche nella sede del consiglio regionale, dove Candeloro Imbalzano illustra la sua proposta di legge per l’istituzione di un Centro regionale per il sangue. Il disegno di legge sulle “quote rosa” andrà invece in votazione la settimana prossima. Le notizie di politica finiscono qua. Si chiude con lo spettacolo: il Jazzmin della “Sosta” di Villa San Giovanni, con l’intervista al mitico Mimmo Pitasi, e la “Compagnia del sorriso” che al teatro rendano mette in scena la commedia “Nobili e Povaromi”.
Il telegiornale è finito. Forse sono i miei interessi a non essere in sintonia con la linea editoriale della testata giornalistica regionale. Ma l’impressione è che sia la notizia a trovare il giornalista, non viceversa. Quasi che la redazione si limiti a svolgere il compitino senza “osare”, senza “ricercare” le informazioni. Colpisce il taglio “istituzionale”, ma se le notizie di politica si riducono alle note per la stampa preparate dalle segreterie, al fatto compiuto che non spiega le dinamiche e i retroscena (senza per questo diventare morbosi), il solco tra cittadino comune e istituzioni è fatalmente destinato ad allargarsi.
Stringiamoci a co(o)rte
Sarebbe troppo comodo, oltre che vigliacco, sparare su Sandro Bondi, ora che la stella del ministro per i beni e le attività culturali sembra in declino. Colpa della famiglia allargata, se uno dei tanti sedicenti politici “non” di professione commette un peccato da Prima Repubblica, due incarichi affidati dal suo ministero all’ex marito e al figlio dell’attuale compagna. “Una storia dolorosa e un caso umano” (parole del ministro), ma anche un chiaro esempio di alimenti pagati con soldi pubblici. Eppure, non si può non rammentare la fertile vena poetica e il trasporto dei versi dedicati al premier dall’ex sindaco comunista di Fivizzano: “Vita assaporata/ Vita preceduta/ Vita inseguita/ Vita amata/ Vita vitale/ Vita ritrovata/ Vita splendente/ Vita disvelata/ Vita nova”. Commovente.
Di personaggi più realisti del re ne sono sempre esistiti. Bondi non è una mosca bianca e gli ultimi avvenimenti forniscono ulteriori conferme ai tanti esempi del passato, alcuni anche di casa nostra. Ineguagliabile rimane il senatore Antonio Gentile, nel 2002 presidente del comitato promotore per il conferimento a Berlusconi del premio Nobel per la pace. Più di recente, quanti stanno tentando di risolvere con ogni mezzo le due questioni più urgenti per il Cavaliere, la giustizia e l’informazione.
L’uomo del momento è senza dubbio il deputato Pdl Luigi Vitali (già sottosegretario alla Giustizia, noto per essere stato relatore, nel 2005, della legge “salva-Previti”), il quale, prima di essere sconfessato da Niccolò Ghedini e dallo stesso Berlusconi, aveva anticipato la presentazione di un progetto di legge sulla “prescrizione breve”: pena ridotta per incensurati e ultrasessantacinquenni, con effetti sulla prescrizione. Mancava solo la foto del beneficiario. Sul fronte dell’informazione, l’innalzamento della temperatura ha comportato il passaggio da Emilio Fede (se si vuole, “onesto” nella sua esplicita faziosità), ad Alfonso Signorini, autore dell’incredibile intervista a Ruby. Per non dire della tv pubblica, con il tg1 del “direttorissimo” Augusto Minzolini capace di parlare, a proposito della vicenda Mills, di “assoluzione” invece di “prescrizione”, tanto per non esser da meno rispetto a Studio aperto che aveva dato notizia dell’assoluzione di Berlusconi anziché del blocco del processo provocato dal lodo Alfano. Non può essere soltanto frutto di masochismo la realizzazione di un telegiornale (quello della rete pubblica ammiraglia) zeppo di servizi leggeri su costume, diete, moda, animali, con la conseguente perdita di autorevolezza e ascolti. Per la gioia di Enrico Mentana, il quale a ragione gongola. Della compagnia fa parte anche il direttore generale della Rai, Mauro Masi, che vorrebbe a tutti i costi riuscire a regalare a Berlusconi lo scalpo di Santoro o almeno il suo ridimensionamento. Anche a rischio di sfiorare il ridicolo, se soltanto la questione non fosse drammaticamente seria. Come nell’ormai famosissima telefonata di censura preventiva fatta in diretta durante una puntata di Annozero, o con le preziose raccomandazioni contenute nel “codice Masi” per disciplinare gli applausi del pubblico. Per non parlare della proposta per l’atto di indirizzo sul pluralismo avanzata dal senatore Pdl Alessio Butti in commissione Vigilanza, che prevede l’introduzione della doppia conduzione per i programmi di approfondimento politico o l’alternanza dei programmi (esempio: il giovedì, una settimana Santoro, quella successiva Paragone). Una proposta che il presidente della Federazione nazionale stampa italiana, Francesco Natale, non ha esitato a definire “un abominio” e che si aggiunge alla bozza precedente, bocciata, che voleva introdurre due divieti “cuciti” su misura per Santoro: quello di trattare per una settimana lo stesso tema, anche su canali differenti (se Vespa, lunedì, si fosse occupato dei processi del premier, non l’avrebbero potuto fare Floris martedì, né Santoro giovedì), e quello di vietare la conduzione ai giornalisti che abbiano interrotto la professione “per assumere incarichi politici” (guarda caso, Santoro è stato europarlamentare dei Democratici di sinistra).
Intanto, stanno per scendere in campo i mezzi cingolati: Giuliano Ferrara, con una striscia quotidiana dopo il tg1, e Vittorio Sgarbi con alcune prime serate in primavera. Sarà un caso se questo coincide con l’avvicinarsi dello scontro finale con la procura di Milano?
Se il giornalista non supera l’esame di storia
Da Gianni Brera a Marco Mazzocchi il giornalismo sportivo italiano ne ha fatta di strada. A ritroso. C’erano fondati motivi di sconforto, martedì sera, dinanzi alla castroneria sparata da Mazzocchi in diretta televisiva dallo stadio Marassi. Per calmare i propri tifosi, i giocatori serbi si avvicinano sotto la curva e fanno il gesto del tre con le dita. Interpretazione del giornalista Rai: “i giocatori dicono ai tifosi di smetterla altrimenti perderanno la partita 3-0 a tavolino”.
Per fortuna, a distanza di pochi minuti, il giornalista Bruno Gentili rimedia allo strafalcione del suo collega e ristabilisce la verità. Che non era un segreto di stato. Il “saluto a tre dita” (o “saluto serbo”) fa parte della simbologia ultranazionalista serba e rimanda alle pagine più buie della storia dell’ex Jugoslavia, quelle che videro protagonisti i gruppi cetnici (i fascisti serbi) nella guerra civile che si intrecciò con la resistenza contro l’invasore nazista durante la seconda guerra mondiale e nella pulizia etnica degli anni ’90 del Novecento.
I serbi sono forse gli unici al mondo a celebrare una sconfitta, quella subita il 28 giugno 1389 dai turchi nella Piana dei Merli (“Kosovo Polje”), come mito fondante della nazione. Una data, quella in cui si festeggia San Vito (28 giugno), che ricorre di continuo e marca gli avvenimenti più salienti, tanto che lo storico Joze Pirievec ha intitolato Il giorno di San Vito il suo fondamentale studio sulla storia della ex Jugoslavia: l’assassinio, a Sarajevo, dell’arciduca Francesco Ferdinando – erede al trono d’Austria – e di sua moglie Sofia, per mano del nazionalista serbo Gavrilo Princip, che causò lo scoppio della prima guerra mondiale (1914); l’approvazione della Costituzione (detta, appunto, “di San Vito”) del regno SHS – “Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni”; dal 1931, “Jugoslavia” – che stabilì la forma monarchico-parlamentare (1921); l’espulsione della Jugoslavia comunista dal Cominform (1948); la manifestazione organizzata da Slobodan Milosevic per il seicentesimo anniversario della battaglia della Piana dei Merli, che preannunciò l’imminente guerra civile (1989).
È una storia di popoli diversi per etnie, lingue, culture, religioni. Un vero e proprio ginepraio. Croati e sloveni più europei per via del retaggio austro-ungarico e cattolico; serbi e montenegrini storicamente legati alla Russia per il comune slavismo e la religione ortodossa; macedoni più “orientali” in virtù della storica sudditanza alla Sublime Porta. Ancora, serbo-bosniaci, croato-bosniaci, ungheresi della Vojvodina, albanesi del Kosovo, considerato sin dal 1389 culla della civiltà serba (“Kosovo è Serbia” era un eloquente striscione esposto allo stadio). E, nel cuore stesso dello stato ex Jugoslavo, la compresenza di tutti i fattori di diversità in un unico stato, la Bosnia-Erzegovina, dove l’elemento turco s’incontra (e si scontra) con quello serbo e croato. Il ponte sulla Drina, del premio Nobel per la letteratura Ivo Andric, è la metafora perfetta della Bosnia (e della stessa ex Jugoslavia): una terra in bilico tra occidente ed oriente, tra cristianesimo ed islam, come la cittadina bosniaca del romanzo, Visegrad, divisa in due dal fiume Drina e unita dal ponte che collega due sponde (e due mondi).
La storia della Jugoslavia, come stato unitario, comincia con l’assetto europeo stabilito a Versailles dopo la prima guerra mondiale. Una creatura fortemente voluta da Francia e Inghilterra in funzione anti-imperi centrali inizialmente, quindi per contrastare le mire espansionistiche di Italia e Ungheria. Tra le due guerre mondiali vive di fatto “sotto tutela”, grazie agli aiuti finanziari anglo-francesi, che ne determinano tutte le decisioni politiche, compreso – nel 1929 – il colpo di stato di Alessandro I contro le opposizioni.
All’interno del Paese si afferma l’ideale grande-serbo: i serbi occupano i gangli dell’amministrazione burocratica e militare, mentre il sistema economico si fonda sul costante drenaggio delle risorse economiche dalle regioni ricche (Croazia e Slovenia) verso Belgrado. Questo modello viene fatto proprio anche dal maresciallo Tito, che dopo la seconda guerra mondiale stabilisce la dittatura al termine di un periodo convulso che registra, accanto alla guerra contro l’invasore nazista, quella tra le truppe cetniche di Mihailovic e i partigiani comunisti.
Il regime titoista attraversa diverse fasi: dalla fedeltà al modello sovietico all’eresia sanzionata dalla scomunica stalinista nel 1948, fino all’elaborazione dottrinaria di Kardelj e Dijlas che costituisce la base teorica del socialismo jugoslavo. Pilastri del nuovo corso sono l’autogestione in politica interna, il non-allineamento e il terzomondismo nel campo estero (una sorta di “pendolo” tra i due blocchi creati a Yalta).
I conflitti interni diventano però sempre più aspri e, inevitabilmente, esplodono in seguito alla morte di Tito (1980), quando i vincoli federali si allentano e la disastrosa congiuntura economica esaspera quelle spinte secessionistiche che diventano incontrollabili dopo la caduta del muro di Berlino. Una deriva che viene mirabilmente evocata da Emir Kusturica nella sequenza finale di Underground, capolavoro cinematografico che ripercorre cinquant’anni di storia nazionale, dalla seconda guerra mondiale alla disgregazione dello stato jugoslavo.
Il resto è guerra, distruzione e crimini contro l’umanità. E un dopoguerra lunghissimo, con la questione kosovara ancora capace di generare tensione e apprensione.
La morte in diretta
Provo un profondo disagio nell’esprimere un giudizio negativo su Federica Sciarelli e sul suo “Chi l’ha visto?”, che seguo sin dagli inizi e reputo un esempio di vero servizio pubblico in palinsesti quasi interamente monopolizzati da programmi-spazzatura. Niente a che vedere, insomma, con tutti quei programmi che speculano – da mane a sera – sulle disgrazie altrui, esibendo le solite compagnie di giro e gli immancabili fenomeni da baraccone. Tutti a favore di telecamera, tutti pronti a dispensare la propria verità, i propri sospetti, i “si vedeva che era così”. Spesso lontani parenti delle vittime, gente che in molti casi non ha mai avuto rapporti (o non ne ha da tempo immemorabile) con i malcapitati protagonisti della tragedia, ma che ne approfitta per poter godere del proprio warholiano quarto d’ora di celebrità.
In quale gorgo stiamo precipitando, se non riusciamo a fermarci davanti a niente, se non comprendiamo che davanti all’orrore occorre a volte spegnere le telecamere e lasciare che il dolore torni ad essere un sentimento privato, da tenere per sé e non da esibire nella piazza televisiva?
La spettacolarizzazione della morte è un esempio di come qualsiasi sentimento, per esistere, ha bisogno di essere buttato in piazza, condiviso con altri, “linkato” come avviene su internet per qualsiasi cosa, sia un post, una foto o un video.
E poi c’è questa abitudine, pessima, di fare baccano, quando invece occorrerebbe stare zitti. Ci sono dei momenti in cui si devono spegnere le luci, abbassare le voci e lasciare campo al silenzio. La morte esige silenzio, compostezza, raccoglimento. Non quegli odiosi applausi che ormai frequentemente si odono ai funerali. Da sempre, l’applauso esprime gioia, non dolore. Il dolore si esprime con il silenzio e con le lacrime, possibilmente a telecamere spente.
Dovrebbe esistere un modo per affermare il diritto di cronaca senza turbare le coscienze. Quelle telecamere che insistevano sul volto della madre per carpirne le reazioni alla notizia della confessione resa ai giudici dal cognato hanno fatto del male alla famiglia della vittima, a noi che assistevamo e alla televisione in generale. È stato superato il limite del buonsenso. Quello che avrebbe dovuto avere Federica Sciarelli (o qualche responsabile del programma), interrompendo d’imperio la diretta dalla casa dell’assassino, senza chiedere alla madre di Sarah se volesse ascoltare le notizie che si stavano diffondendo in rete e spiegando, dopo (alla famiglia e al pubblico), ciò che stava accadendo.