Nadia, il cancro, la sentenza del web

Io non lo so qual è il modo migliore per affrontare la malattia, la propria malattia. Credo che dipenda dal carattere di ciascuno di noi. E credo anche che non esista un modo più giusto di un altro. Ho visto gente disperarsi e ho ancora stampati nella mente gli occhi di un amico di famiglia, bagnati di lacrime quando passò dal bar per salutarci, prima del suo ultimo viaggio della speranza. Non lo rividi più. Una mamma, che ha lasciato due figli piccoli, faceva invece battute autoironiche mentre il fuoco dentro la stava divorando, a pochi giorni dalla morte.
Contro la “Iena” Nadia Toffa, contro le sue “presunte” parole (“il cancro è un dono”) si sono scatenate le tricoteuses del web, armate di tastierina e Verità. Il noto personaggio televisivo si è così dovuto difendere, precisando che il dono al quale si riferiva non è la malattia in sé (quale cretino potrebbe pensarlo?), ma la possibilità che la malattia dà di guardare il mondo e la propria vita da un’altra angolazione, l’opportunità di pensare cosa realmente conti nella propria esistenza e quanto vi sia in essa, invece, di futile e di illusorio.
Quando Nadia Toffa dichiarò di essere ammalata di cancro, accolsi quell’outing con fastidio. Penso che non tutto della propria vita debba andare sotto i riflettori, essere dato in pasto alla curiosità morbosa degli internauti, che bisognerebbe tutelare l’intimità di una malattia. Qualcuno ha anche ipotizzato che potesse trattarsi di pubblicità, macabro esempio di quanto cinica sia diventata la società di oggi.
Nadia appartiene a una generazione abituata a vivere “pubblicamente” ogni aspetto della propria vita, a maggior ragione se già si è un personaggio pubblico: questo aspetto ha avuto probabilmente un peso nella sua decisione.
Chi ha avuto un tumore o ha vissuto esperienze familiari con il cancro non può che essere turbato dalla sintesi semplicistica della dichiarazione di Nadia. Lo capisco. Ma tutti quelli che si sono affrettati a puntare il ditino non sanno cosa è passato nella testa di Nadia, anche se i social network hanno fatto di ogni utente il possessore di una verità inconfutabile che non ammette il confronto con chi la pensa in maniera differente.
Io non conosco la verità, però penso che ognuno abbia il diritto di affrontare la vita e la morte come meglio crede. D’altronde (mi si perdoni la provocazione), per i santi venerati dalla chiesa, malattie e sofferenze erano un dono di Dio: e su questo non mi sembra ci siano polemiche.
Le polemiche ci sono per Nadia perché alla gente comune non sembra vero di potere in qualche modo essere ammessa nel mondo dei “famosi” (si tratti di calciatori, politici, personaggi dello spettacolo), mettendo un “mi piace” a una foto su instagram o, più frequentemente, rovesciando loro addosso insulti di ogni genere per scaricare la propria invidia e la propria frustrazione.
Parlare della propria malattia, per alcuni, è anche un esercizio di esorcismo. Una terapia dell’anima che io non riesco a condannare. Se lei sta meglio così, non vedo che problema possa esserci.
Non me la sento di giudicare il modo in cui gli altri affrontano il mistero più grande della propria vita (la morte), perché non permetterei a nessuno di giudicare il mio.

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I motivi del No alla cittadinanza onoraria per Barbara D’Urso



Tra i punti dell’ordine del giorno del consiglio comunale di oggi c’era il conferimento della cittadinanza onoraria di Sant’Eufemia d’Aspromonte a Barbara D’Urso. Come gruppo consiliare “Per il Bene Comune” abbiamo espresso voto contrario. Di seguito, la nostra dichiarazione di voto:

Non riconosciamo alla signora Maria Carmela alias Barbara D’Urso meriti particolari, tali da giustificare il conferimento della cittadinanza onoraria di Sant’Eufemia d’Aspromonte: a meno che non sia sufficiente avere origini eufemiesi e soprattutto (azzardiamo, ma non tanto) essere personaggio celebre. Requisiti che indubbiamente sono in possesso della nota conduttrice televisiva.
Ma di che genere di televisione stiamo parlando?
La tv della lacrimuccia elemento essenziale di un abusato copione. La tv dello sciacallaggio e della cinica spettacolarizzazione del dolore, offerto sull’altare del dio auditel. La tv del gossip, che per mesi e mesi segue le vicende di coppie che scoppiano, si ricompongono e poi scoppiano ancora, ovviamente a favore di telecamera. La tv dei vip in lotta per un’eredità o in contatto con l’aldilà. La tv dei “morti di fama” che si sottopongono a decine e decine di interventi chirurgici per somigliare a una bambola. La tv del kleenex e dei guardoni, che fa l’occhiolino alla pancia e al voyeurismo di certo pubblico. Di questa televisione stiamo parlando. Ma se anche si volesse sorvolare su considerazioni opinabili, che attengono ai gusti e alle inclinazioni personali di ciascuno di noi, la signora D’Urso ha mai contribuito in qualche modo alla crescita del nostro territorio? Si basa forse su questo assunto un riconoscimento di così grande valore? Non ci risulta.
Il conferimento della cittadinanza onoraria a Barbara D’Urso è soltanto una bassa operazione di marketing, forse utile per intascare una comparsata in televisione.
Siamo perfettamente consapevoli che questi sono i tristi tempi che viviamo. La religione del nostro tempo ha elevato la frivolezza a valore e l’apparire ad essenza della stessa azione politica.
Non vogliamo arrenderci a questo declino. Siamo convinti che la politica debba volare alto, concentrarsi sulle risposte da dare ai problemi dei cittadini, che sono molti e gravi, non scadere nell’utilizzo di imbarazzanti armi di distrazione di massa finalizzate all’effimero godimento di un quarto d’ora di celebrità.
Per tutte queste ragioni, esprimiamo voto contrario.

DOMENICO FORGIONE – Capogruppo
PASQUALE NAPOLI – Consigliere

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Il grande cuore di Fabrizio

C’erano Corrado e Mike Bongiorno, due giganti. E poi c’erano le nuove leve, su tutti Fabrizio Frizzi e Gerry Scotti. È stata la televisione di noi ragazzini negli anni 80: programmi “leggeri”, mai volgari, ai quali i genitori “ci affidavano” tranquilli perché non veicolavano messaggi negativi. I conduttori erano una garanzia di serietà e professionalità; e poi erano simpatici, ironici ed autoironici, sapevano prendersi in giro perché alla fine i problemi sono (dovrebbero essere) altri.
Il tritacarne televisivo sarebbe arrivato più tardi. Allora si respirava aria di semplicità e di sentimenti genuini.
Un appuntamento imperdibile per tanti di noi fu il programma televisivo “Tandem”, in particolare il quiz che al suo interno conduceva Fabrizio Frizzi: “Paroliamo”. Squadre di studenti si contendevano la vittoria cercando di comporre la parola più lunga utilizzando le lettere a disposizione. Un gioco di società che ti faceva sentire a casa, come se stessi giocando a tombola o a monopoli con fratelli, cugini, vicini. Una scenografia essenziale, con le lettere di cartone che venivano disposte sul tavolo. Sembra sia passato un secolo.
Poi si cresce e ci si perde, perché gli interessi cambiano: anche se un’occhiata all’Eredità si finiva sempre con il darla. Guardiamo ad altro “da grandi”, guardiamo all’uomo.
E in questo Fabrizio Frizzi è stato un gigante per umanità, sensibilità, generosità. In prima fila accanto a Telethon o con la conduzione televisiva della “Partita del Cuore”, per sottolineare l’importanza delle donazioni nella lotta alle malattie genetiche.
Ci ha fatto commuovere quando si è saputo che aveva salvato la vita di una ragazza donandole il midollo osseo.
Credo sia questo il suo più grande lascito: l’esempio. Se il conduttore televisivo è stato un ottimo professionista, l’uomo “è” testimone di bellezza, della bellezza e della grandezza del dono.

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Milano chiama, Napoli risponde

La trasmissione sportiva «90° Minuto» fu fenomeno di costume negli anni Settanta e Ottanta. Un rito collettivo celebrato da milioni e milioni di telespettatori sintonizzati ogni domenica pomeriggio su RaiUno per vedere, dopo la loro conclusione, le immagini delle partite del campionato disputate tutte, rigorosamente, allo stesso orario. Rito officiato fino alla sua morte (1990) da Paolo Valenti, un signore d’altri tempi: «Amici sportivi, buon pomeriggio», il suo consueto incipit.
Collegamenti da tutti i campi di serie A (16 squadre, la vittoria valeva due punti), big match della serie B e, in chiusura di trasmissione, la lettura dei risultati delle partite di serie C.
Ripenso con nostalgia a quegli anni, all’epica delle partite ascoltate grazie a «Tutto il calcio minuto per minuto». Tutti attorno alla radio, al bar, con in mano le schedine per aggiornare negli spazi bianchi delle matrici i risultati mano a mano che qualche squadra segnava. I più grandi sulle macchine: davanti alla pineta, parcheggiate accanto ai marciapiedi, al municipio o al campo sportivo (magari mentre giocava l’Eufemiese). Poi l’attesa di «90° Minuto», difficile da spiegare all’epoca delle pay-tv e dei contenuti video su internet in tempo reale.
Abbiamo amato Paolo Valenti come uno zio e ci siamo affezionati ai corrispondenti dai vari campi come se fossero parenti in visita, preceduti dal jingle indimenticabile della sigla della trasmissione. Personaggi semplici, alcuni all’apparenza strampalati ma in realtà dotati di cultura, professionalità e attaccamento alla Rai. Da Firenze Marcello Giannini, che era stato la “voce” dell’alluvione del 1966; da Ascoli Tonino Carino con le sue giacche assurde; Giorgio Bubba da Genova e Gianni Vasino da Milano, dopo la morte del grandissimo Beppe Viola; Cesare Castellotti con le sue cravatte granata da Torino; da Roma un giovane Giampiero Galeazzi; Riccardo Cucchi da Campobasso e Lamberto Sposini da Perugia; Emanuele Giacoia da Catanzaro e Puccio Corona da Messina.
E poi Luigi Necco, il più simpatico di tutti con quel suo faccione, gli occhiali spessi e i tifosi del San Paolo che finivano sistematicamente per travolgerlo. Raccontò i trionfi del Napoli del Pibe de Oro («San Gennaro perdona, Maradona no»), ma anche le salvezze dell’Avellino di Barbadillo e Diaz, di Juary e Dirceu. Forse il primo a fare il gesto della “manita”, la sua ironia garbata e il suo sorriso («Milano chiama, Napoli risponde», ai tempi del testa a testa con il Milan di Arrigo Sacchi) in fondo ci ricordavano che il calcio è un gioco. Un bel gioco però: «Nella mia carriera ho scritto un po’ di tutto, dalla malavita all’archeologia, però niente è stato più bello del calcio».

*Luigi Necco fu giornalista di cronaca giudiziaria (per il suo lavoro fu gambizzato dalla camorra) e grande esperto di archeologia: suo il ritrovamento del “tesoro di Troia” scomparso alla fine della seconda guerra mondiale. In suo omaggio, Rai Cultura stasera alle 23.00 e Rai Storia domani alle 18.00 proporranno lo Speciale “Mesopotamia”, nel quale il giornalista racconta il tragico destino dei tesori della Mesopotamia, distrutti dall’Isis.

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Una strada groviera

Ringrazio l’emittente regionale LaC e il giornalista Agostino Pantano per il servizio giornalistico andato in onda nell’edizione del telegiornale delle ore 14.00. Naturalmente, i tempi televisivi non hanno consentito di mandare in onda l’intervista mia e di Pasquale Napoli nella loro integralità. In ogni caso, credo che la qualità del lavoro sia eccellente perché sintetizza alla perfezione il contenuto di quanto da noi dichiarato e i termini della questione: lo stato disastroso del tratto della Strada Provinciale 2 che collega Sant’Eufemia all’ex svincolo autostradale, pericoloso anche per l’incolumità fisica di chi la percorre; l’abbandono del nostro territorio da parte di Anas e della Città Metropolitana; la doppia beffa della popolazione di quest’area che si è vista sottrarre lo svincolo e attende invano i lavori di compensazione/risarcimento che erano stati promessi per mettere un po’ a tacere una protesta sacrosanta.
La realtà è sotto gli occhi di tutti ed ha le caratteristiche di un percorso molto accidentato per via delle innumerevoli buche presenti sul manto stradale. Buche che provocano danni ai veicoli in transito oltre a creare situazioni di pericolo per gli automobilisti che, cercando di scansarne qualcuna, rischiano di sbattere contro chi procede dal senso opposto di marcia. Tutta questa situazione si aggrava con la presenza di una fitta nebbia che spesso quasi azzera la visibilità di un percorso scarsamente illuminato (laddove ci sono lampioni, funzionano a giorni alterni nella migliore delle ipotesi) e dalle strisce stradali impercettibili, se non assenti.
Si tratta di una strada utilizzata quotidianamente da centinaia e centinaia di automobilisti per lavoro o per altre esigenze, che rendono necessario raggiungere l’autostrada alla popolazione dell’intero comprensorio. Va inoltre evidenziato che più volte nel corso di una giornata essa viene percorsa dall’autoambulanza del 118, che a Sant’Eufemia ha la sua postazione: per chi deve salvare una vita non è proprio il massimo lavorare in queste condizioni. Senza dimenticare, infine, i molti ciclisti amatoriali provenienti da tutta la provincia per i quali è impossibile pedalare a bordo strada e che sono costretti a pericolosissime gimkane tra le buche.
È necessario un intervento straordinario, che peraltro era stato promesso. E poi bisogna intervenire con regolarità per eseguire quei lavori di manutenzione ordinaria che impediscano il periodico riproporsi di tali situazioni di emergenza.

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“A Dio” di Vittorio Gassman

Oggi Vittorio Gassman, “il Mattatore”, avrebbe compiuto 95 anni. Una personalità debordante e un artista sublime, versatile, protagonista di pellicole che hanno fatto la storia del cinema. Siamo sempre stati abituati alla presenza scenica imponente di un uomo sicuro di sé, istrionico, per utilizzare l’aggettivo che ne ha sempre accompagnato la carriera. Ma Gassman è stato uomo dai grandi dubbi, fino alla fine. Da quando non c’è più lo associo istintivamente alla poesia (“A Dio”) che la figlia Paola lesse nel funerale, che ritagliai dal Corriere della Sera e che tutt’ora conservo, tanto mi colpì. Versi che appartengono all’uomo più che dell’artista. Un uomo combattuto dall’eterna contraddizione tra fede e ragione, che probabilmente al tramonto della sua vita era riuscito a risolvere. 
Comunque la si pensi in materia di fede, si tratta di versi toccanti e intimi dedicati ad una questione centrale nella storia dell’umanità.

A DIO

Eri, come “La lettera smarrita” di Poe,
nello spazio impensato perché
scontato.
Eri e Sei – forse ora ho capito –
fra le parole che ho tanto usato e
osato;
sempre ci sei stato, eri lì,
ci sei ancora e voglio decifrarti,
stanarti usando sì le parole ma in
modo
diverso e in diverso modo la follia,
il mestiere con cui la parola
mi diventa grafia, mania, nodo,
vuoto suono od effetto. E fola.
Solo quello so fare, solo lì
c’è speranza che Tu adesso compaia,
perfetto,
se vuoi in rima, rimando con te stesso,
in un metro o in un altro. Tu
puoi innalzare al cielo qualunque
prosodia;
purché Tu appaia, le fruste parole
si faranno Parola, e col mio io
sepolto finalmente parlerai,
che mai è stato quel che era forse
destinato
ad essere, un io mancato, strangolato.
Parlami a perdifiato, Ti cedo
ogni suono o silenzio; e già ti vedo
emergere da quella pila di parole
inutilmente sparse nel cassetto,
cancellarne rime e rumore,
facendone linguaggio perfetto.
Cancella anche me, cambiami,
conducimi,
ritraducimi, parla Tu per sempre,
Signore.

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Via Grande

Più di venti anni fa Nino Caserta, maestro elementare di generazioni di eufemiesi, in cinque puntate raccontò per la rivista “Incontri” (edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio dal 1988 al 2005) la storia del giornale murale “Via Grande”, realizzato dai suoi alunni sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso. “Un’occasione – spiegò – per fare il punto su un’epoca, su quel senso della famiglia e della vita, sui valori che hanno irrobustito quelle generazioni”.
Per ricostruire il “piccolo mondo antico” della Sant’Eufemia uscita dal dopoguerra e pronta ad offrire le braccia dei propri figli alle fabbriche del Nord o alle lontane terre d’Oltreoceano Caserta spulcia vecchie pagine ingiallite che riproducono poesie, favole, disegni, lettere, proverbi, spaccati di vita quotidiana. Il risultato finale è un affresco di gente semplice e laboriosa, dignitosa anche quando soffre il freddo e la fame, animata dalla speranza di un futuro migliore, confortata dal prevalere di sentimenti di condivisone, solidarietà. Rileggendo le parole scritte dai nonni di oggi rivediamo il paese di allora, i suoi costumi, la sua storia: San Bartolo con i vecchi muri del monastero, la chiesetta e la “Fontana dei Monaci”, la promessa di fidanzamento di una giovane coppia, il carnevale per le strade e nelle case, i giochi di piazza, il mercato settimanale con i prodotti della terra e il pesce fresco delle gerle che le bagnarote trasportavano sulla testa. Il duro lavoro dei campi e la consapevolezza del valore della fatica e delle rinunce: “Gesù fa che mio padre e mio fratello non si facciano male al lavoro”, supplica un bambino costretto a crescere in fretta, perché i bisogni materiali rendono maturi e responsabili sin da piccoli.
Il titolo del giornale non è casuale. Rimanda a una delle strade più antiche del paese, situata nell’attuale Vecchio Abitato (o Paese Vecchio), “grande” se confrontata con i vicoli caratteristici dell’originario assetto urbano di Sant’Eufemia, precedente ai terremoti del 1783 e del 1908. Su via Grande, larga un paio di metri, si innestavano stradine secondarie ancora più strette e corte, per tutto il tragitto che collegava la chiesa Matrice con piazza Mercato (oggi piazza Purgatorio). Una scelta identitaria, che sottintende la volontà di raccogliere “la memoria delle cose più lontane”, di riscoprire – annota Caserta – “costumi e valori, figure e usanze che poi ciascuno si porta dietro come corredo e ricchezza dell’essere figlio di una patria, quella piccola del paesino e quella grande col nome Italia, con la coscienza più o meno acquisita di essere egli stesso tessera dell’immenso mosaico che dalla singola persona può giungere all’armonica convivenza di una società”.
Scopriamo che nell’anno scolastico 1958-59 la scuola elementare “Don Bosco” fu sede provinciale della sperimentazione del C.R.E.S. (centro ricreativo educativo scolastico). Al termine dell’orario delle lezioni i bambini consumavano il pranzo nello stesso edificio scolastico, quindi venivano affidati a un’equipe di insegnanti che coordinava le attività formative del Centro (studio e ricerca; canto e danza; tecniche pittoriche e manuali; teatro e giochi): lavori di falegnameria, di carta e di creta, ma anche dipinti, lettura di libri, esecuzione di canzoni, giochi nel cortile.
Lorenzo fissa sulla carta bambini intenti a soffiare sui bracieri non sempre di ottone, che Felice rivela essere accesi prima di entrare nell’aula: “accendiamo i bracieri, poi li portiamo in classe e quando abbiamo le mani fredde andiamo a riscaldarcele, perché fa molto freddo”. D’altronde ha ragione Andrea quando osserva che con le mani fredde è impossibile scrivere bene. Fuori dalla scuola è diverso: “quando le mani si raffreddano, entriamo in una casa qualsiasi e ci riscaldiamo”, dichiara Diego. Mentre Giovanni racconta che, quando nevica, i bambini costruiscono una slitta con due tavolette di legno e si lanciano nelle discese del paese.
Sono fanciulli attenti alla natura che li circonda: il canto degli uccelli, la fioritura degli alberi e l’esplodere della primavera. Conoscono il mutare delle stagioni e il fenomeno della transumanza delle greggi e delle famiglie, raccontata con parole che sembrano prese in prestito da Corrado Alvaro. Giuseppe annota che “i pastori non ci sono più: sono andati in pianura, vicino al mare, dove fa più caldo”; e Stefano, di rimando: “sull’Aspromonte ci sono tanti greggi e tanti pastori. Proprio accanto a casa mia abitano sei pastori. Qualche volta essi portano le loro pecore al pascolo nelle mie terre e le portano perché c’è tanta erba e non si può falciare. Quando viene il mese di gennaio e fa freddo, essi se ne scendono con le pecore e le portano a Rosarno. Nel mese di marzo se ne tornano ancora sui monti perché laggiù comincia a fare caldo”.
Dal locale al globale, gli alunni del maestro Caserta si interessano anche della corsa allo spazio tra Unione Sovietica e Stati Uniti, una delle tante pagine della guerra fredda combattuta dalle due superpotenze mondiali. Dieci anni prima che Tito Stagno pronunciasse in diretta televisiva “ha toccato: l’uomo è sbarcato sulla Luna”, Lorenzo disegna Un razzo verso la Luna e commenta: “La Russia e l’America vogliono sapere cosa c’è sull’altra faccia della Luna. Siccome la Luna a noi fa vedere una sola faccia, essi mandano dei razzi e li fanno posare sopra la Luna. Ancora nessun razzo si è posato sulla Luna, ma gli scienziati prevedono che questo che c’è in volo forse si poserà”.
Il giornale si occupa anche di televisione, nuovissimo mezzo di comunicazione che in quegli anni cominciava ad entrare nelle case dei più benestanti, non in quella della maggior parte dei piccoli redattori di “Via Grande”. Nelle case dei pochi possessori di un televisore la gente delle rughe si radunava per assistere alle trasmissioni del tempo. A Gilberto piace “La TV per i ragazzi”, in particolare la serie televisiva Ivanoe, tratta dall’omonimo romanzo storico di Walter Scott, che fece conoscere al grande pubblico l’attore Roger Moore, il futuro James Bond.
Il programma del momento è però Il Musichiere, condotto da Mario Riva: “è un gioco divertente e ci sono concorrenti di ogni regione d’Italia”, spiega Sergio per descrivere la trasmissione diventata molto popolare tra il 1957 e il 1960. Non appena l’orchestra di Gorni Kramer accennava un motivetto, due concorrenti in scarpette da tennis saltavano dalla sedia a dondolo e scattavano per suonare la campana e poter così tentare di dare la risposta esatta.
A una puntata del Musichiere prese parte l’eufemiese Pippo Pecora, un portento nel riconoscere le canzoni che per la troppa foga, tuttavia, cadde sulla canzone September in the rain, celebre brano interpretato da molti artisti, tra i quali Frank Sinatra. La conosceva, ma invece di “settembre” pronunciò “novembre”, per la delusione delle centinaia di spettatori che in quel lontano sabato sera riempirono piazza Matteotti per vedere il proprio compaesano nel televisore issato sul muretto da Cosimo ’u cipuddaru, che li vendeva.

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Minita a Gerace Libro Aperto

La presentazione di “Minita” nella terza giornata di Gerace Libro Aperto, lo scorso 2 maggio, nello scenario incantevole della chiesa di San Francesco. Moderatrice Marisa Larosa, all’incontro sono intervenuti l’editore di Disoblio Salvatore Bellantone e il giornalista di Ciavula.it Giovanni Maiolo. Il servizio per FimminaTV è di Valentina Femia, il montaggio di Simona Schirripa.
 

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Perché Sanremo “era” Sanremo

Scrivo ora qualche riga sul festival di Sanremo perché penso che la conclusione della manifestazione sia ininfluente ai fini della mia valutazione. D’altronde, su tre serate, avrò visto non più di mezzora di spettacolo, per cui il mio commento è, in realtà, una considerazione sull’evento. Da tempo, nella kermesse canora, la canzone ha smesso di essere protagonista. Tanto da risultare effimeri il successo e la notorietà dati dalla vittoria. Chi è in grado di ricordare nomi e volti di tantissimi tra i vincitori più recenti? Nel giro di un anno, fenomeni musicali lanciati dai talent show e catapultati sul palcoscenico dell’Ariston scompaiono con una regolarità ormai inquietante: Marco Carta, chi era costui?
Sanremo è attesa, gossip, polemica cercata e montata ad arte perché se ne parli. Perché per una settimana non si discuta d’altro. Sanremo è una zona franca, capace di ascolti alti perché la controprogrammazione, in quei giorni, non esiste. Sanremo è l’ipocrisia di chi invita Celentano, alle condizioni imposte dal Molleggiato, e poi innesca la polemica perché nel suo monologo ne ha avute per tutti. Come se non fosse quello il vero motivo della sua presenza. Non ho ascoltato il suo pippone, ma ho letto le reazioni. La migliore è stata la battuta di Rocco Papaleo: “Adriano è stato geniale ad ospitare Sanremo nel suo show”. Il punto è questo: può un ospite monopolizzare l’intera serata e ridurre gli ospiti a contorno del suo personalissimo show? No, non può. Non potrebbe. Ma è un gioco delle parti. Prima, il tormentone “Celentano sì/ Celentano no”, poi la carta bianca chiesta e ottenuta, infine le lacrime da coccodrillo e l’incazzatura dei vertici Rai. Asciugate con i bigliettoni degli introiti pubblicitari. Nel merito, non è il massimo dell’eleganza chiedere la chiusura di due giornali perché non se ne condivide la linea. Basta non comprarli. E anche se c’era molto da sottoscrivere (la parole su don Gallo, per esempio), il teatro Ariston non è il pulpito ideale per simili comizi.
Boccio in toto il turpiloquio dell’intervento iniziale di Luca e Paolo e, nella seconda serata, la volgarità di due comici a me sconosciuti (I soliti idioti), che ho ascoltato giusto un paio di minuti senza riuscire per niente a ridere. Sorvoliamo sulla farfalla di Belen e sulle mutande che c’erano-non c’erano-e se c’erano non si sono viste. Ma si può sacrificare tutto sull’altare degli ascolti e degli incassi? Domanda retorica, alla quale si può rispondere riproponendo la terza serata, dedicata finalmente alla musica, con ospiti di livello mondiale. Su tutti, Brian May e l’immensa Patti Smith. Ma è già tempo di tornare alla normalità distorta di Sanremo. E allora, che spettacolo (penoso) sia.

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Il tweet è mio e me lo gestisco io

Da martedì sera, non si cinguetta (quasi) d’altro. Sulla copertina di Ballarò era da poco calato il sipario e già le tricoteuses avevano preso posto nella piazza più affollata del mondo per assistere all’esecuzione di Maurizio Crozza, reo di avere pescato dal social network più trendy del momento le battute per il suo monologo. Al grido di #crozzaeincolla e #copiaeincrozza, “il popolo della rete” è immediatamente partito all’attacco del popolare comico genovese, accusato dal deputato del Pd Andrea Sarubbi di avere “fatto spesa proletaria su twitter”. A ruota, l’indignazione è montata, raggiungendo vette inimmaginabili. Si è capita soltanto una cosa: il sogno recondito di gran parte degli utenti di twitter è quello di diventare autore. Altrimenti risulta difficile comprendere una reazione talmente sproporzionata. Uno soffia all’amico sui capelli, quello si gira e lo atterra con un diretto in pieno viso.
Delle battute “incriminate”, quella sulle Olimpiadi invernali a Roma e l’altra sulla neve nella capitale “ogni morte di Papa”, la seconda è più vecchia di Matusalemme. Il quesito sollevato dai pasdaran del web è: può un comico utilizzare una battuta twittata da altri, senza citare la casa originale? Dalla notte dei tempi, i comici hanno sempre tratto ispirazione e, evidentemente, anche altro dalle persone della strada. Poi è l’arte che fa sì che la stessa frase, detta da me o pronunciata dal grande Totò, sortisca effetti differenti. È facile capire come la vita del battutista sarebbe impossibile se dovesse citare le sue fonti. Non siamo di fronte a un giornalista o a uno storico. Forse non sarebbe male se tutti ci prendessimo meno sul serio. Il fatto di twittare qualsiasi cosa ci passi per la testa non fa di ciascuno di noi un maître à penser, un editorialista, un ghost writer o un autore.
Meglio quelli che sul social network l’hanno presa con filosofia, come Antonio De Leo (prevedibile): “Crozza copia per risparmiare, da buon genovese”; o come Mino Tarantino: “Sono davvero depresso. Crozza copia. E non da me”. Che nasconde dietro l’ironia un’amara verità, svelata dal caustico Fabrizio Carosella: “gente che si venderebbe mamma per un RT punta il dito contro Crozza. Ridicoli”.
Nella replica apparsa su Corriere.it, il comico l’ha messa sul ridere: “è tutto vero. Sono trent’anni che io lavoro copiando dalla rete. Anche quando la rete non esisteva, io la copiavo”; ma non ha risparmiato una velenosa frecciatina al parlamentare democratico: “mi ha sgamato. Io confesso. Anzi, trattandosi di Sarubbi: io con fesso”.
E torniamo alla questione centrale. Non c’è giorno in cui, spesso a ragione, non si metta in guardia dai tentativi di imbavagliare la rete attraverso restrizioni alla libertà della circolazione delle idee e del pensiero, anche se spesso il fine è quello di potere accedere gratuitamente a tutti i contenuti presenti sul web (libri, canzoni, film). E il problema sarebbe Crozza? È una polemica pretestuosa, puerile, lievemente rosicona. Una permalosità irritante, da gente con il ditino sempre alzato, inflessibile nel censurare il prossimo e indulgente verso se stessa. La pagliuzza e la trave.

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