Il primo consiglio comunale di Sant’Eufemia dopo l’Unità d’Italia

Gli storici hanno definito “Italia dei notabili” o “Stato monoclasse” il Regno d’Italia proclamato il 17 marzo 1861. Nello stato unitario il voto è appannaggio esclusivo di coloro che sono considerati i “migliori” per capacità professionale e patrimonio personale: in linea di massima, l’aristocrazia e la borghesia terriera. Tale diritto appartiene all’1,9% della popolazione e si fonda sui criteri del sesso, del censo e della capacità: possono votare i maschi venticinquenni (per essere eletti ne occorrono invece trenta) che pagano 40 lire di imposte dirette e che sono in grado di leggere e scrivere. In assenza del requisito del censo, il voto viene tuttavia concesso a diverse categorie professionali: laureati, professori, funzionari, magistrati, farmacisti, notai, ragionieri, geometri, veterinari, ecc.
Su 5852 abitanti (censimento del 1861), nel 1863 a Sant’Eufemia d’Aspromonte gli aventi diritto al voto politico sono 69. Leggermente meglio vanno le cose per il diritto di voto amministrativo. In questo caso il corpo elettorale è composto dai cittadini che, al compimento del ventunesimo anno di età, godono dei diritti civili e sono contribuenti comunali per una cifra che varia in base alla dimensione del comune: 10 lire a Sant’Eufemia, comune compreso tra 3.000 e 10.000 abitanti. Nel 1868, primo anno del quale sono disponibili i dati, gli aventi diritto sono 187 (115 i votanti).
Il consiglio comunale, composto da venti membri, dura in carica cinque anni e viene annualmente rinnovato per un quinto. Si procede alla sua elezione con “lista maggioritaria”: in pratica non vi sono liste contrapposte, ma è l’elettore a comporre una lista di nomi pari al numero di consiglieri da eleggere. La giunta municipale (quattro componenti titolari e due supplenti) viene invece rinnovata ogni anno al 50%. Il sindaco, nominato dal re su proposta del ministro dell’Interno, dura in carica tre anni ed è rieleggibile al termine del mandato: di fatto, viene scelto dal prefetto fra i consiglieri comunali eletti.
Con regio decreto del 30 luglio 1861, il proprietario Antonino Occhiuto (fu Nicola) diventa il primo sindaco di Sant’Eufemia dopo l’Unità, entrando così di diritto nella storia amministrativa del comune insieme ai consiglieri comunali eletti: Agostino Chirico, Antonino Condina (proprietario), Luigi Condina (proprietario), Giovanni Cutrì (farmacista), Michele Fimmanò (avvocato), Gaetano Gioffré (farmacista), Giuseppe Gioffré (proprietario), Domenicantonio Ietto (avvocato), Raffaele Monterosso (macellaio), Antonino Occhiuto di Luigi (proprietario), Luigi Oliverio (geometra), Giuseppe Papalia, Vincenzo Papalia (ramaio), Francesco Pentimalli (avvocato), Antonio Pietropaolo (negoziante), Annibale Rechichi (sacerdote), Giuseppe Versace (farmacista), Vincenzo Visalli (proprietario), Giacinto Zangari (proprietario).

*FONTI:
ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 136 (“Sindaci, amministrazione comunale, elezioni amministrative. 1861-1875”), f. 6381
ASRC, Fondo Prefettura, inventario 17, busta 247 (“Sant’Eufemia d’Aspromonte”), f. 6

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Per non dimenticare

La forma più nobile di omaggio alle vittime di ieri è il ricordo di oggi: è questo il senso del “Giorno della memoria”, riconosciuto dalle Nazioni Unite e celebrato in Italia a partire dal 2001.
La data (27 gennaio) ricorda l’arrivo, nel 1945, delle truppe sovietiche nel campo di Auschwitz e la fine di un incubo. La commemorazione delle vittime del nazismo non deve però essere una mera ritualità: il rischio, altrimenti, è quello di provocare addirittura una sorta di assuefazione nei confronti della Shoah.
L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia si chiede: «Quando resteremo soli, quando anche l’ultimo testimone della Shoah non sarà in vita, saremo capaci di continuare a trasmettere la memoria della Shoah alle nuove generazioni?». Con il trascorrere degli anni inevitabilmente scompaiono, uno ad uno, i testimoni diretti di quella tragedia immane. Da qui il dovere di continuare a fare memoria, ripetendo con forza le parole di Primo Levi: «Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?».
Cos’è un lager? Se lo chiede Francesco Guccini in una canzone (“Lager”) meno famosa della citatissima “Auschwitz”, che ricorda l’orrore delle vittime gassate con il famigerato Zyklon B e “passate” per il camino dei forni crematori («Son morto con altri cento/ son morto ch’ero bambino/ passato per il camino/ e adesso sono nel vento»). La risposta del cantautore modenese interroga le nostre coscienze su quanto possa essere pericoloso pensare al lager come a un qualcosa confinato nel passato, accaduto per colpa di altri, non più riproponibile: «È una cosa come un monumento/ e il ricordo assieme agli anni è spento/ non ce n’è mai stati/ solo in quel momento:/ l’uomo in fondo è buono/ meno il nazi infame». Che un po’ richiama Hannah Arendt e la “banalità del male”: «Il male non è fuori, ma dentro ognuno di noi».
Eccolo, il rischio concreto: convincersi che quel periodo storico è ormai morto e sepolto, che tragedie simili non possano più accadere. Purtroppo non è così: nel mondo di oggi sono milioni gli uomini e le donne che subiscono soprusi e vessazioni, che pagano con la morte l’appartenenza a una razza o a una confessione religiosa.
Le politiche di sterminio nel Novecento non sono un’esclusiva nazista, anche se la pianificazione di quell’orrore è inarrivabile: il genocidio degli armeni, le vittime dei gulag sovietici e quelle di Pol Pot e dei Khmer rossi in Cambogia, la pulizia etnica nella ex-Jugoslavia e in Ruanda, i gas di Saddam Hussein contro il popolo curdo. E ancora, ai nostri giorni, la persecuzione dei Rohingya in Myanmar, degli Uiguri nella Cina comunista, dei popoli del Centroafrica in fuga da guerre e carestie. Popoli ai quali vengono sistematicamente negati i più elementari diritti umani.
Il ricordo della Shoah come antidoto contro ogni fanatismo. Studiare il passato per evitare di commettere gli stessi errori, in una fase storica caratterizzata da un drammatico disagio sociale ed economico che genera odio e intolleranza, mentre il vento del razzismo soffia forte e minaccia le ragioni stesse della civile convivenza.
La memoria come dovere morale, quel dovere morale che spinse Shlomo Venezia ad andare su e giù per le scuole di tutta Italia a raccontare l’Olocausto, l’orrore dal quale si era salvato, anche se – ripeteva – “qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto… Non si esce mai, per davvero, dal crematorio”. Shlomo Venezia, scomparso qualche anno fa, ebreo di Salonicco ma di nazionalità italiana: uno dei pochi sopravvissuti del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, la squadra speciale selezionata tra i deportati che faceva “funzionare” alla perfezione la macchina di sterminio nazista: erano loro ad accompagnare i prigionieri alle camere a gas, li aiutavano a svestirsi, tagliavano i capelli ai cadaveri ed estraevano dalle loro bocche i denti d’oro, infine li trasportavano nei forni. Un’organizzazione del lavoro geometrica nell’inferno che trasformò in non-uomini gli uomini.
Ricordare è necessario per smontare le fandonie scellerate dei negazionisti, ma anche per controbattere alla cinica considerazione che “una morte è una tragedia, milioni di morti sono una statistica”. Dietro a ogni numero ci sono un volto, una storia, una vita spezzata. Bambini che non hanno avuto la fortuna di giocare, di diventare adulti, di avere dei figli. Anziani ai quali non è stato concesso di morire in maniera dignitosa. Adulti che ebbero la “colpa” di credere nel Dio della Torah o di essere omosessuali, prigionieri di guerra, oppositori politici, zingari, disabili.
Se ancora c’è gente che pensa che le camere a gas siano un’invenzione, che non vi sia stata la volontà criminale e preordinata di cancellare dalla faccia della terra gli ebrei e tutte le categorie considerate inferiori vuol dire che il “Giorno della Memoria” è più che mai indispensabile per mantenere vivo il ricordo di ciò che è accaduto e per esorcizzare il male di cui l’uomo è capace.

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’A pulicia rizza

Aveva il passo lento ma deciso di chi sapeva come affrontare le salite e le discese senza fare cadere il peso che portava sulla testa. Ma non era una bagnarota e dentro il cuverchiu che sistemava con cura sopra la corona di stracci, perché non pendesse a destra o a sinistra, in avanti o indietro, non c’erano alici né palamiti dello Stretto. Non si sentiva volare una mosca, tutto era silenzio e solitudine. Lei e quel corpicino sistemato alla meglio sotto qualche coperta caritatevole. Bambini appena nati e subito volati in cielo, morti pochi giorni dopo il parto o nello spazio di qualche mese, il tempo di una selezione naturale che era feroce ma accettata dalla società con rassegnato fatalismo.
Ogni famiglia aveva le sue piccole vittime, da ricordare – chi ne aveva la possibilità – tirando ogni tanto fuori dal cassetto la classica fotografia post-mortem: sembravano dormire con quegli occhi chiusi. Stroncati da infezioni aggravate dalla malnutrizione, dal morbillo o dalla pertosse, dalla bronchite o dalla polmonite, dalla difterite o da un imprecisato ’ngagghiu letale nei primi anni di vita. Neonati battezzati “in acqua” dall’ostetrica o dal medico, affidati poi alla pietà di questa pulce di donna dalla zazzera fitta e riccia per il tragitto di una dolente via crucis. Oppure piccoli che facevano in tempo ad arrivare davanti al sacerdote, ad avere padrini e madrine “scelti” tra chi era presente. Era questa la ragione del primato dei sangiovanni tra i frequentatori più assidui della chiesa, loro che consideravano la sagrestia una seconda casa.
Aveva il passo sicuro ’a pulicia rizza. Le campane che suonavano “a gloria”, non “a morto”, annunciavano l’arrivo in Paradiso di un angioletto, l’arrivo di un’anima soffiata via da un corpo che non aveva conosciuto il peccato.
Un’andatura costante che non aveva niente da invidiare alla cadenza regolare dei portantini dei funerali delle congregazioni, quattro spazzini con la tunica bianca addetti al trasporto della piccola bara sistemata sopra una lettiga. Più che il ritratto manzoniano dei monatti, la rievocazione delle varette della Processione dei Misteri. D’altronde, proprio gli spazzini del paese, nella rappresentazione sacra, portavano a spalla il corpo del Cristo morto: l’Innocente.
Innocente come i bambini spostati dalla bara messa a disposizione dalla congregazione per il funerale alla cassettina di tavole inchiodate dal falegname sul posto e calata in uno degli angoli dell’ampia area del cimitero a loro destinata.
Una stradina, “vico Innocenti”, con la strage dei bambini voluta da Erode ricordava anche questi piccoli fiori recisi. Ma oggi “vico Innocenti” non esiste più e la pulicia rizza, con la sua storia di pietà, è un ricordo lontanissimo e di pochi.

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La condanna di Mladic chiude un’epoca

Se gli accordi di Dayton del novembre 1995 chiusero sul piano formale le guerre jugoslave, la condanna all’ergastolo del “boia di Srebrenica” (oltre 8.000 civili massacrati) Ratzo Mladic da parte del Tribunale penale internazionale mette oggi la parola fine alla pagina buia della pulizia etnica e delle atrocità sui civili: colpevole di crimini di guerra e contro l’umanità, di persecuzioni e sterminio. Il suo degno compare Radovan Karadzic era già stato condannato l’anno scorso a 40 anni di carcere per genocidio, mentre Slobodan Milosevic è morto in prigione prima della pronuncia del Tribunale dell’Aia. Per certi versi si chiude il Novecento con le sue guerre sanguinose sul suolo europeo, che proprio nella polveriera balcanica hanno trovato fertile grazie al concime fornito dal mito della “Grande Serbia”.
I serbi sono forse gli unici al mondo a celebrare una sconfitta, quella subita il 28 giugno 1389 dai turchi nella Piana dei Merli (“Kosovo Polje”), come mito fondante della nazione. Una data, quella in cui si festeggia San Vito (28 giugno), che ricorre di continuo, tanto che lo storico Joze Pirievec ha intitolato Il giorno di San Vito il suo fondamentale studio sulla storia della ex Jugoslavia: l’assassinio a Sarajevo dell’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, per mano del nazionalista serbo Gavrilo Princip, che causò lo scoppio della prima guerra mondiale (1914); l’approvazione della Costituzione (detta, appunto, “di San Vito”) del regno SHS – “Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni” (dal 1931, “Jugoslavia”); l’espulsione della Jugoslavia comunista dal Cominform (1948); la manifestazione organizzata da Slobodan Milosevic per il seicentesimo anniversario della battaglia della Piana dei Merli (1989), che preannunciò l’imminente guerra civile.
La storia dell’ex Jugoslavia è una storia di popoli diversi per etnie, lingue, culture, religioni. Un vero e proprio ginepraio. Croati e sloveni più europei per via del retaggio austro-ungarico e cattolico; serbi e montenegrini storicamente legati alla Russia per il comune slavismo e la religione ortodossa; macedoni più “orientali” in virtù della storica sudditanza alla Sublime Porta. Ancora, serbo-bosniaci, croato-bosniaci, ungheresi della Vojvodina, albanesi del Kosovo, considerato sin dal 1389 culla della civiltà serba. E, nel cuore stesso dello stato ex Jugoslavo, la compresenza di tutti i fattori di diversità in un unico stato, la Bosnia-Erzegovina, dove l’elemento turco s’incontra (e si scontra) con quello serbo e croato. Il ponte sulla Drina, del premio Nobel per la letteratura Ivo Andric, è la metafora perfetta della Bosnia (e della stessa ex Jugoslavia): una terra in bilico tra occidente ed oriente, tra cristianesimo ed islam, come la cittadina bosniaca del romanzo, Visegrad, divisa in due dal fiume Drina e unita dal ponte che collega due sponde (e due mondi).
Come stato unitario la Jugoslavia (ancora regno SHS) comincia ad esistere con l’assetto europeo stabilito a Versailles dopo la prima guerra mondiale. Una creatura fortemente voluta da Francia e Inghilterra in funzione anti-imperi centrali inizialmente, quindi per contrastare le mire espansionistiche di Italia e Ungheria. Tra le due guerre mondiali vive di fatto “sotto tutela”, grazie agli aiuti finanziari anglo-francesi, che ne determinano tutte le decisioni politiche, compreso – nel 1929 – il colpo di stato di Alessandro I contro le opposizioni.
All’interno del Paese si afferma l’ideale grande-serbo: i serbi occupano i gangli dell’amministrazione burocratica e militare, mentre il sistema economico si fonda sul costante drenaggio delle risorse economiche dalle regioni ricche (Croazia e Slovenia) verso Belgrado. Questo modello viene poi adottato dal maresciallo Tito, che dopo la seconda guerra mondiale stabilisce la dittatura al termine di un periodo convulso che registra, accanto alla guerra contro l’invasore nazista, quella tra le truppe cetniche di Mihailovic e i partigiani comunisti.
Il regime titoista attraversa diverse fasi: dalla fedeltà al modello sovietico all’eresia sanzionata dalla scomunica stalinista nel 1948, fino all’elaborazione dottrinaria di Kardelj e Dijlas che costituisce la base teorica del socialismo jugoslavo. Pilastri del nuovo corso sono l’autogestione in politica interna, il non-allineamento e il terzomondismo nel campo estero (una sorta di “pendolo” tra i due blocchi creati a Yalta).
I conflitti interni diventano però sempre più aspri e, inevitabilmente, esplodono con la morte di Tito (1980), quando i vincoli federali si allentano e la disastrosa congiuntura economica esaspera quelle spinte secessionistiche che diventano incontrollabili dopo la caduta del muro di Berlino. Una deriva che viene mirabilmente evocata da Emir Kusturica nella sequenza finale di Underground, capolavoro cinematografico che ripercorre cinquant’anni di storia nazionale, dalla seconda guerra mondiale alla disgregazione dello stato unitario negli anni Novanta.

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Carmelo Tripodi

Nel 1906 il contesto socio-economico di Sant’Eufemia è quello tipico dell’entroterra aspromontano, caratterizzato da una bassa scolarizzazione, da un indice elevato di mortalità infantile e dal dominio di pochissime famiglie benestanti alle quali si contrappone una massa di contadini e pastori. Accanto ad essi, vi è la presenza significativa di un diffuso e apprezzato artigianato, al quale però corrisponde una scarsa gratificazione economica in un regime che ancora conserva per lo più i caratteri del baratto. Il sistema di trasporto più diffuso è quello a dorso di mulo, anche se da poco una corriera consente di arrivare a Bagnara, mentre per la Littorina bisognerà aspettare ancora vent’anni.
Sant’Eufemia d’Aspromonte si sta leccando le ferite del terremoto che l’8 settembre dell’anno precedente, pur non causando vittime, aveva semidistrutto il paese: 41 case erano state infatti dichiarate inabitabili e subito demolite, mentre 383 erano state gravemente danneggiate (altre 181 avrebbero subito danni nel successivo sisma del 23 ottobre 1907), preparando così il terreno per la tragedia del 28 dicembre 1908, quando fu annientato l’85% del patrimonio edilizio e rimasero sotto le macerie 537 eufemiesi (oltre 2.000 i feriti).
Perché questa premessa? Perché è da questa realtà che, proprio nel 1906, partono verso Palermo due quadri destinati all’Esposizione Campionaria Internazionale: “Galileo Galileo” e “Sant’Antonio abate”. L’autore delle opere si chiama Carmelo Tripodi e i due lavori gli avrebbero procurato le più alte onorificenze: Premio Concorso Universale Gran Corona d’oro con medaglia al valore artistico; Premio dell’Esposizione Gran Premio e Croce Insigne; Premio Concorso Nazionale Targa della Città di Padova. L’anno successivo Tripodi si sarebbe inoltre imposto nel Premio Concorso Internazionale “Gran Coppa d’Italia” e, nel 1912-1913 sarebbe stato eletto membro della Giuria d’Onore all’Esposizione Internazionale di Parigi.
Insomma, da uno dei posti più sperduti e sconosciuti d’Italia salta fuori un talento artistico che riesce ad imporsi in campo nazionale e internazionale. Basterebbero soltanto queste brevi informazioni per illustrare la caratura del personaggio. Un artista a tutto tondo, versatile e dal “multiforme ingegno”, che ha dato lustro alla nostra comunità e del quale occorre perpetuare la memoria.
Carmelo Tripodi nasce infatti a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 28 aprile del 1874 (e vi muore il 31 marzo 1950), figlio di Giuseppe e di Teresa Filardi, originaria di Melicuccà. Da ragazzo frequenta la bottega di un pittore del luogo (Versace) che gli trasmette l’amore per il disegno e per la pittura; quindi, nel 1895, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Messina e, completati gli studi, apre nel paese natio un proprio studio di pittura e scultura. Purtroppo il terremoto del 1908 distrugge gran parte delle opere fino ad allora realizzate, tra queste il monumentale altare per la chiesa di S. Maria delle Grazie, con il bassorilievo rettangolare sopra la nicchia della Madonna e le statue di San Pietro e di San Paolo poste ai due lati, ma il suo lascito rimane comunque di valore assoluto.
Tra le opere giunte ai giorni nostri, oltre ai due lavori già menzionati, hanno riscosso l’apprezzamento dei critici l’olio giovanile “San Rocco e gli appestati” e i dipinti della maturità: “Marie al sepolcro”, “Deposizione”, “Gesù che cammina sulle acque”, “Monaco in meditazione”, “Testa di Gesù”, “Mosè e il roveto ardente”, “Padre dell’artista”, “Suonatore sulla neve”, “Testa di frate”, “Testa di vecchia”.
Carmelo Tripodi sviluppa anche una sua personalissima arte nella lavorazione di stucchi, creta e soprattutto cartapesta: il “Sacro Cuore di Gesù”, che è possibile ammirare all’interno della chiesa di Sant’Eufemia, o il “Cristo alla Colonna” e il “Cristo morto” della Processione dei Misteri ne confermano la grandezza. Altre sue opere sono conservate ad Acquaro di Cosoleto (chiesa di San Rocco), Gioiosa Ionica (chiesa della Pietà), San Procopio (chiesa dell’Addolorata), Palmi (chiesa del Soccorso), in diverse altre chiese e palazzi nobili della Calabria e della Sicilia.
L’eclettismo di Tripodi abbraccia anche il campo della fotografia, che ai primi del Novecento comincia a diffondersi anche nei comuni più periferici. Il figlio Domenico Antonio Tripodi, artista di fama mondiale che, con i fratelli Agostino e Graziadei (“il restauratore al servizio di Dio”), ha ereditato il genio creativo del padre, ricorda l’emozione e lo stupore per quell’esperienza così “nuova” agli occhi di un bambino: «Tante volte, da piccolo, mi sono infilato nella “camera oscura” e sono stato testimone del suo paziente operare; timoroso, mi bastava toccare il suo pantalone per sentirmi rassicurato in quell’oscurità, che sapeva di mistero e di tempo infinito».
Carmelo Tripodi, che ha “prevalentemente immortalato il mondo eufemiese”, ci fa vedere com’era Sant’Eufemia in quegli anni, conoscere i volti degli anziani scavati dalle rughe o la “figura di cacciatore”, infine comprendere nella sua drammatica realtà l’immane tragedia del terremoto del 1908, grazie a scatti che consegnano all’eternità la sofferenza del popolo eufemiese.

*Per ulteriori approfondimenti si veda la pubblicazione “Carmelo Tripodi a cinquant’anni dalla morte”, a cura dei figli e dei nipoti, con il patrocinio del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Tipografia ABILGRAPH, Roma, ottobre 2000.

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Giovanni Lupini

La ricerca storica può a volte trasformarsi in una sorta di caccia al tesoro. Non tutte le fonti locali sono ordinate, per cui bisogna procedere a tentativi e affidarsi al proprio fiuto. Un’intuizione diventa una traccia da seguire, l’eccitazione della ricerca, il livello di autostima alle stelle quando ci si accorge di averci visto giusto, di avere fatto centro: eureka!
È andata proprio così per capire dove e quando morì Giovanni Lupini, concittadino al quale gli eufemiesi hanno dedicato una delle vie centrali del paese nell’area edificata dopo il terremoto del 1908, conosciuta durante il Ventennio con la denominazione “via XXIII Marzo”, la data di nascita del fascismo che emetteva i primi vagiti nell’adunata di piazza San Sepolcro a Milano (1919).
Ma chi era Giovanni Lupini? Luigi Visalli, fratello del più celebre Vittorio, in un volumetto del 1935 (Vitaliano Visalli e i suoi figli: 1790-1860) racconta le vicende della propria famiglia, che si intrecciano con la storia di Sant’Eufemia nel periodo pre-unitario. Una di queste, dieci anni dopo narrata anche da Vincenzo Tripodi (Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte), vide suo malgrado coinvolto Antonino Lupini, padre di Giovanni, che all’epoca era sindaco di Sant’Eufemia.
Il 13 maggio 1848 il paese fu infatti teatro di una rivolta contro le istituzioni municipali e gli gnuri del luogo, che portò all’occupazione del municipio e al saccheggio delle abitazioni dei notabili: finalità del tumulto erano la distruzione dei registri della fondiaria, la cancellazione delle “prove” delle ricchezze immobili dei proprietari terrieri e la spartizione delle terre comunali tra gli insorti. La sommossa fu sedata in soli due giorni, grazie all’intervento della guardia nazionale comandata da Ferdinando De Angelis Grimaldi.
Il mio primo “incontro” con Giovanni Lupini fu effetto della ricerca sulla storia politica ed amministrativa di Sant’Eufemia nel sessantennio post-unitario, in virtù del reperimento dei documenti relativi alle elezioni amministrative e dei verbali dei consigli comunali, i quali contengono anche alcuni dati personali degli eletti (età, professione), mentre altre notizie fu possibile estrapolarle dai rapporti della prefettura sull’ordine pubblico della provincia.
Avvocato penalista come il padre, ne seguì le orme anche in politica, risultando eletto consigliere comunale già nel 1866, a ventisei anni. Le carte registrano poi un vuoto di quindici anni, ma nel 1881 Lupini riappare sulla scena come presidente della società operaia di mutuo soccorso da lui costituita e tra i promotori delle manifestazioni popolari contro l’applicazione della tassa sul focatico, culminate il 21 novembre con un doppio corteo di protesta. Il primo, composto da circa 500 dimostranti e capeggiato dal calzolaio Antonino Tripodi, fu infatti sciolto dalle forze dell’ordine. Ma la repressione non fece altro che peggiorare la situazione, visto che qualche ora più tardi circa 2.000 persone si riunirono nuovamente e andarono a gridare ancora più forte sotto la casa del sindaco Michele Fimmanò, costretto a cedere ad alcune richieste e a dimettersi insieme alla giunta municipale.
La contrapposizione tra Lupini e Fimmanò aveva avuto in realtà un precedente nelle elezioni politiche del 1880, con il primo schierato al fianco del ricco possidente di Bagnara Carmelo Patamia, mentre il secondo aveva sostenuto il reggino Saverio Vollaro, poi eletto.
Della biografia di Giovanni Lupini, che in seguito (1882 e 1889) fu nuovamente eletto consigliere comunale, non si conosce molto altro. Anzi, fino a pochi anni fa non erano noti neanche la data e il luogo del suo decesso, indispensabili per la stesura del suo medaglione biografico. Fu proprio in tale circostanza, per riallacciarmi alle prime righe di questo articolo, che la ricerca mi portò… nel cimitero di Palmi!
L’età riportata sui verbali delle elezioni comunali consentiva di risalire all’anno di nascita e dava quindi la possibilità di consultare il relativo registro, dal quale si evinceva che Giovanni Lupini (figlio di Antonino e di Domenica Varda) era nato a Sant’Eufemia l’11 aprile 1840. Unica ulteriore annotazione presente era la data del matrimonio con Teresa Passino, celebrato a Palmi il 3 giugno 1878. Niente da fare, invece, per la data della morte che, non risultando nei registri del comune di Sant’Eufemia, “poteva” – forse: chissà! – essere recuperata a Palmi. Valeva la pena fare un tentativo, presto mortificato dalla laconica risposta dell’impiegato comunale: «Negli anni Venti un incendio ha distrutto molti registri dello Stato civile, mi dispiace non potere esserle di aiuto».
Non rimaneva altro da fare che incrociare le dita e fare un giretto all’interno del cimitero di Palmi. Se Giovanni Lupini, come sospettavo, era deceduto a Palmi, potevo ancora sperare di trovare la sua tomba e, con essa, la data del suo decesso. E così fu: la sua morte avvenne il 17 luglio 1891 e il suo corpo riposa oggi nel cimitero di Palmi, all’interno della cappella di famiglia che, per la verità, versa in condizioni di completo abbandono.
Al di là di questo ricordo personale, ritengo che la biografia di Giovanni Lupini meriterebbe di essere approfondita. Magari cercando di recuperare i documenti della società di mutuo soccorso, per verificare quanto egli sia stato influenzato in quell’attività dalla frequentazione di Palmi, città che già nel 1876 contava una S.O.M.S. con la quale, molto probabilmente, egli era entrato in contatto e coltivava rapporti.

*Fonti:
– Luigi Visalli: Vitaliano Visalli e i suoi figli: 1790-1860, Tipografia Genovesi, Palmi 1935.
– Vincenzo Tripodi: Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte, 1945 (seconda edizione con presentazione e note a cura di Antonino Fedele), Vannini editrice, Brescia 1999.
– Domenico Forgione: Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922, La città del sole, Reggio Calabria 2008 [in particolare, per la ricostruzione della manifestazione di protesta del 1881, si vedano le pp. 129-151].
– Domenico Forgione: Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova 2013 [Via Lupini, pp. 93-96].

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L’eccidio di Fantina

Un episodio poco noto del Risorgimento italiano riguarda la tragica sorte toccata ai sette garibaldini giustiziati dall’esercito italiano il 4 settembre 1862 a Fantina, piccolo centro del messinese all’epoca frazione del comune di Novara di Sicilia e oggi comune autonomo di Fondachelli Fantina.
Una pagina dolorosa, a lungo tenuta nascosta perché imbarazzante per i cantori della vulgata edulcorata e romantica delle vicende che portarono all’unificazione. D’altronde, l’inchiesta avviata dal governo sotto la spinta delle proteste dei giornali repubblicani e garibaldini si era presto conclusa con un nulla di fatto: era stato sufficiente mettere il bavaglio alla stampa e sostituire il magistrato di Messina, deciso a vederci chiaro, con un collega più sensibile alla logica della ragion di stato. Agli inizi del Novecento il sempre combattivo Napoleone Colajanni aveva nuovamente sollevato la questione del crimine commesso da militari “regolari” nei confronti di propri connazionali. Ma Colajanni era una voce nel deserto: i fatti di Fantina andavano cancellati dalla memoria storica nazionale.
A squarciare il velo dell’oblio, centoventi anni dopo, ha provveduto Antonio Ghirelli con L’eccidio di Fantina (Sellerio, 1986), un prezioso volumetto che ha ristabilito la verità storica e restituito la dignità alle vittime in camicia rossa.
Il contesto in cui matura il misfatto è quello della seconda sfortunata spedizione garibaldina, che al grido di «O Roma, o morte!» si prefiggeva di consegnare all’Italia la sua capitale naturale, liberandola dal giogo papale. Non tutti i volontari erano riusciti a raggiungere la Calabria: tra questi vi erano i volontari della “colonna Trasselli”, circa 800-900 uomini che, dopo il ferimento di Garibaldi in Aspromonte (29 agosto 1862), cominciarono a vagare nelle campagne tra Catania e Messina, quindi cercarono di raggiungere Novara di Sicilia per consegnare le armi al sindaco ed evitare così l’umiliazione di una resa alle truppe sabaude. Circa cinquantina volontari persero contatto dal resto del gruppo e, distrutti dalla fatica, cercarono un posto dove trascorrere la notte. Alcuni si addormentarono sui letti asciugati dei torrenti, altri furono ospitati in qualche casa di contadini, altri ancora si rifugiarono nella chiesetta di Fantina. Qui furono sorpresi nel sonno dai soldati del 47° battaglione di fanteria dell’esercito, guidato dal maggiore De Villata e composto in prevalenza da soldati che erano già stati in forza nell’esercito borbonico, prima di venire inquadrati in quello sabaudo. Una sorta di rivincita, quindi, compendiata dalla frase rivolta ai volontari: «Al Sessanta tu ed al Sessantadue noi!».
Subito dopo, un ufficiale comunicò l’ordine giunto dal comando: «Se in mezzo a voi si celano dei disertori, si facciano innanzi. Il Re li perdona e li lascerà immediatamente raggiungere i loro corpi». Ma si trattava di un inganno. I sette che si dichiararono disertori furono portati nel quartier generale al cospetto del maggiore De Villata, il quale li gelò: «Voi siete spergiuri verso la patria ed il Re. In nome della legge militare vigente, voi siete condannati alla pena di morte da eseguirsi all’istante». Per arrestare l’avanzata di Garibaldi, in Sicilia era stato infatti proclamato lo stato d’assedio e, agli occhi del governo, tra briganti e disertori non c’era alcuna differenza.
La pietà dei contadini di Fantina permise di dare degna sepoltura ai fucilati, i cui corpi erano stati abbandonati sulla fiumara. All’alba del 5 settembre furono infatti trasportati in una vicina chiesetta e inumati sotto il pavimento.
Di “martiri dimenticati” parlò l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi nel discorso tenuto il 24 novembre 1984 proprio sotto la lapide murata all’esterno della chiesa, che riporta le parole dettate nel 1890 dal patriota Raffaele Villari: «In quest’albo di marmo/ stanno incisi i nomi/ di eroi trucidati/ sulla contesa marcia di Roma/nel settembre 1862/ ma dalla istoriata pietra/ un torrente di luce si sprigiona/ che ricorda i morti/ che mantengono viva/ e sempiterna l’Italia».
Un’iscrizione in realtà ben diversa dalla formulazione iniziale: «Su quest’albo di marmo/ stanno incisi i nomi/ dei sette eroi assassinati vilmente/ sulla contesa marcia su Roma/ ma dalla istoriata pietra/ si sprigiona/ un grido di vendetta/ all’Italia e a Dio/ contro il carnefice impunito».
Il vile assassinio e il grido di vendetta contro il carnefice impunito non potevano mai essere accettati da un establishment impegnato a cancellare le pagine più buie e controverse della storia nazionale.

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La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908

Il terremoto del 1908 costituisce l’evento più sconvolgente della storia di Sant’Eufemia e il suo snodo cruciale: c’è un “prima” e un “dopo” che va oltre la cronaca di quegli avvenimenti, perché la ricostruzione consegnò ai sopravvissuti un paese radicalmente diverso, a partire dalla sua disposizione geografica. Un tema – la ricostruzione in un nuovo sito di un paese distrutto – ancora attuale e non di facile soluzione, che si scontra con la caparbia di chi non vuole allontanarsi dai posti in cui ha sempre vissuto per una questione affettiva, ma anche di identità. Siamo tutti il prodotto della vita vissuta da altri prima di noi nelle nostre stesse strade, piazze e campagne, per cui la perdita dei “propri” luoghi disorienta e provoca una sensazione di sradicamento che sgomenta.
La Sant’Eufemia rasa al suolo all’alba del 28 dicembre 1908 – che coincideva per lo più con i rioni Paese Vecchio e Petto – era già un paese ferito, le sue abitazioni rese precarie da sismi più o meno recenti. Il terremoto del 16 novembre 1894 aveva infatti provocato sette morti, il crollo totale di 212 abitazioni e quello parziale di 326 (oltre a danni gravi in 432 case e lievi in 188); dopo quello dell’8 settembre 1905 erano state gravemente danneggiate 383 costruzioni, 41 dichiarate inagibili e demolite; 181 infine, gli edifici lesionati il 23 ottobre 1907. Anche per questo la scossa del 1908 ebbe effetti catastrofici: 530 le vittime dell’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato (ma i documenti prodotti dalla giunta comunale fanno salire la cifra a circa 700), più di 2.000 feriti e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio. L’area circostante la fontana Nucarabella riportò i danni minori, con il macello comunale che rimase quasi intatto. Le poche case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894 nell’area denominata “Piazzetta”. Le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie; nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate in alto (piazza Vittorio Emanuele II). Un dato anch’esso significativo: su circa cinquanta lampioni della pubblica illuminazione, ne restarono in piedi nove.
Le autorità militari stabilirono di fare sorgere un nuovo baraccamento nell’area denominata “Pezza Grande”, che già ospitava quello sorto dopo il terremoto del 1894 e che contava anche alcune casette costruite dopo il 1907, ora distrutte. Furono espropriate diciotto proprietà, costruite strade, realizzati un ospedale, una chiesa, l’acquedotto e 1.300 baracche capaci di dare alloggio a circa 5.000 persone.
Un regio decreto del 15 luglio 1909 proibì la costruzione nelle aree distrutte dal terremoto, ad eccezione delle zone pianeggianti del rione Petto, ma il provvedimento governativo non fu accolto favorevolmente da tutta la popolazione e scatenò reazioni violentissime.
L’amministrazione comunale eletta il 22 maggio e guidata dal notaio Pietro Pentimalli era però favorevole al trasferimento nella nuova area, così come il vecchio ma ancora molto influente Michele Fimmanò; di avviso contrario, invece, un consistente numero di famiglie storiche: Capoferro, Gioffré, Condina-Occhiuto. Un fronte agguerritissimo, che non si diede per vinto neanche a lavori ultimati (fine 1910) e che promosse una raccolta di firme da allegare al parere del geografo Mario Baratta, specializzato in sismologia storica, il quale – nell’opuscolo Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 1908 – sostenne che, in realtà, il suolo sottostante alla Pezza Grande era “il peggiore di tutti” e quello del Paese Vecchio “relativamente migliore” in rapporto alla stabilità sismica delle costruzioni.
La giunta e il sindaco risposero indirizzando al presidente del consiglio Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Sacchi un memorandum (Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte) sottoscritto da oltre duemila firmatari: in premessa venivano avanzati pesanti dubbi sull’onestà intellettuale di Baratta; nel merito della polemica si sosteneva invece che, poiché non era possibile riunire tutta la popolazione nella vecchia area, sarebbe stato più saggio farlo nell’area nuova, che era “separata” e “lontana” dal vecchio abitato: mantenerle entrambe rischiava di innescare un pericoloso dualismo. Nonostante il governo avesse dato ragione all’amministrazione comunale (maggio 1912), non cessarono le pressioni per modificare il provvedimento legislativo che aveva dichiarato inedificabile l’area del vecchio abitato, per la quale comunque il sindaco Pentimalli aveva accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore.
Le deroghe concesse, in realtà, rappresentavano la quadratura del cerchio e aprirono le porte alla soluzione definitiva della vicenda, che fu concordata in occasione delle elezioni comunali del 1914 nel salotto dell’avvocato Gabriele Fimmanò (figlio di Michele, da un anno passato a miglior vita). Grazie al sostegno del deputato reggino De Nava, Fimmanò riuscì a fare sedere attorno allo stesso tavolo “i migliori elementi delle due parti”, i quali siglarono un accordo elettorale che poneva fine alle ostilità in cambio – su questo punto garantiva De Nava – della revisione della legge che demandava al Genio civile di Reggio l’ultima parola sulla definizione delle zone edificabili: in concreto, ciò significava l’abolizione del divieto di costruire nelle aree maggiormente colpite dal terremoto, che fu di fatto decretata dal governo il 3 settembre 1916. Il volto di Sant’Eufemia cambiava definitivamente e assumeva quello attuale caratterizzato dalla suddivisione nei tre popolosi rioni di Paese Vecchio, Petto e Pezza Grande.

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Don Pepè Chirico, il medico che aveva una parola di conforto per tutti

«Eccolo, è arrivato don Pepè». Poche parole che riuscivano a infondere speranza, non appena il medico condotto Giuseppe Chirico metteva piede dentro la casa di un ammalato a Sant’Eufemia. Lo ricorda il professore Giuseppe Calarco nella testimonianza rilasciata per un documentario biografico realizzato dalla Pro Loco nel 2001: «Aveva sempre una parola di conforto e la sua presenza al capezzale dell’ammalato trasmetteva serenità, tanto incideva la sua personalità. Don Pepè non era “un” medico, ma “il” medico: sempre pronto ad ascoltare, consigliare, infondere fiducia. Eravamo soliti fare la passeggiata serale. Ricordo che capitava che venisse chiamato per soccorrere qualcuno: senza scomporsi, salutava e col sorriso di sempre si allontanava per fare, come diceva lui, il suo dovere. Questo era il dottore Chirico».
La stima dei suoi concittadini è totale: a lui vengono confidate anche le preoccupazioni di chi, nel secondo dopoguerra, spesso fatica a guadagnare un pranzo dignitoso. Braccianti agricoli, pastori, gente in cerca di una jornata, piccoli artigiani che vivono dell’essenziale: un’umanità a volte dolente, piegata dagli stenti e dalla fatica del duro lavoro, dalle cattive condizioni igieniche delle proprie misere abitazioni, dal dolore causato in quasi tutte le famiglie dall’elevatissimo indice di mortalità infantile. Don Pepè ascolta, consola, consiglia. Una lezione di vita appresa nel negozio di cereali all’ingrosso che i genitori – Gaetano e Maria Domenica Barilà – gestivano nel rione Paese Vecchio, dove Giuseppe Chirico nasce il 16 ottobre 1915, primo di cinque fratelli (quattro maschi e una femmina).
Conclusi gli studi ginnasiali a Palmi e conseguito il diploma di maturità classica presso l’Istituto “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, si iscrive alla Regia Università di Messina e si laurea in Medicina nel giugno del 1940. È destinato a raccogliere il testimone dello zio Stefano, medico condotto del paese sin dalla fine dell’Ottocento, ma con l’entrata in guerra dell’Italia viene inviato in Croazia, dove trascorre gli anni del conflitto prima come tenente, successivamente come capitano medico. Un’esperienza forte e dolorosa, che ne segna il carattere.
Alla fine della guerra rientra a Sant’Eufemia e finalmente può incominciare a dedicarsi alla cura dei propri concittadini. Lo fa a qualsiasi ora del giorno e della notte, con un senso di umanità fuori dal comune. Per quarant’anni la sua è una missione al servizio di tutti: non c’è porta che non sia stata varcata dalla sua esile figura, nella destra l’inseparabile borsa in pelle. Professionista serio e preparato, uomo onesto e dalla profonda rettitudine morale, per il dottore Chirico l’affetto e il rispetto degli eufemiesi assumono le caratteristiche della devozione.
Proprio per questo l’intera comunità rimane sconvolta quando, il 21 febbraio 1976, don Pepè viene rapito mentre sta rientrando dalla visita a un suo paziente. Sant’Eufemia vive settantasette lunghissimi giorni di angoscia, stretta attorno alla moglie ed ai tre figli del “suo” medico. Ma la rabbia e la preoccupazione della popolazione si sciolgono infine in un’esplosione di gioia collettiva, alla notizia del rilascio. Un fiume di persone si riversa nelle strade e accorre commossa sotto la sua abitazione, fino a quando Chirico non si affaccia dal balcone per ricambiare il calore di una folla immensa e per assicurare a tutti che “la nottata è passata”: «È stato un brutto sogno», dichiara al giornalista che ne raccoglie la prima dichiarazione.
La sua missione al servizio del paese riprende con maggiore slancio. Una missione che prosegue anche dopo il pensionamento, per i tanti concittadini che chiedono ugualmente di essere visitati da don Pepè. Dal 3 maggio 1995 – data della sua morte – sono trascorsi oltre vent’anni, ma tra la gente che lo ha così tanto amato è ancora vivo il ricordo dell’uomo e del medico Giuseppe Chirico, uno dei figli migliori di Sant’Eufemia.

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Piazza Aid Committee, o della memoria cancellata

Da ragazzino mi è capitato spesso di giocare a calcio con altri miei coetanei in uno spiazzo denominato “piazza Aid Committee”. Per noi che trascorrevamo ore ed ore nella “nostra” piazza, quella intitolata a Giacomo Matteotti, era una soluzione di ripiego da adottare quando l’altra ci veniva preclusa, per i più svariati motivi. Finivamo così per arrangiarci un isolato più in alto, nell’area sottostante la chiesa di Sant’Ambrogio.
Ogni tanto qualcuno di noi si chiedeva il perché di quel nome, senza mai riuscire a risolvere il mistero di quelle due parole straniere.
Oggi piazza Aid Committee non esiste più: una ventina d’anni fa venne ristrutturata e ribattezzata “piazza maresciallo Azzolina”, in ricordo del servitore della patria e buon padre di famiglia ucciso nei pressi della fontana “Pirina” il 17 giugno 1996. Una decisione saggia, quella dell’amministrazione comunale del tempo, che così intese onorare il sacrificio del comandante della stazione dei carabinieri di Sant’Eufemia.
Ma la memoria non si coltiva seppellendo altra memoria. Su questo punto la Deputazione di Storia Patria per la Calabria ha una posizione chiara, purtroppo ignorata da chi si occupa della toponomastica delle città. Ogni toponimo ha una sua “storia”, racconta un’emozione, testimonia valori condivisi che fanno di una massa di persone una comunità. Per queste ragioni, la Deputazione è contraria alla sostituzione dei vecchi toponimi.
Un accorgimento di buon senso sarebbe il mantenimento dell’antica denominazione accanto alla nuova (nel caso specifico: piazza maresciallo Azzolina, già piazza Aid Committee), come pure da qualche parte accade. Non è il caso nostro.
In genere la sostituzione di un toponimo è frutto dell’emozione del momento o dell’esito di un processo storico, che sempre annovera vinti e vincitori. Tutta la toponomastica fascista, alla caduta del regime, è stata infatti cancellata e sostituita con quella democratica.
Io, che considero l’antifascismo il valore fondante della Repubblica italiana, non sono tuttavia convinto della bontà di questa scelta. Non ne sono convinto perché il Ventennio, con i suoi drammi e con i suoi crimini, fa parte della storia di questo Paese ed è illusorio pensare di poterlo cancellare o fare finta che non sia esistito.
Due esempi. Il gerarca fascista Maurizio Maraviglia nel 1926 aveva presenziato ad uno dei momenti più alti della storia di Sant’Eufemia: l’inaugurazione del palazzo comunale costruito dopo il terremoto del 1908 e l’apertura del nuovo acquedotto. La via dedicatagli – successivamente intitolata a Giovanni Amendola – ricordava quindi l’opera di ricostruzione attuata dal governo nazionale, ma anche ciò che quest’opera simboleggiava: il riscatto di un popolo che letteralmente si risollevava dalle macerie.
Il genovese Giacomo Chiuminatto era stato invece titolare della ditta che realizzò la galleria e il ponte in ferro della linea taurense (la vecchia “littorina”). Perché cancellarne il nome, tra l’altro sopravvissuto nel sentire comune grazie alla locuzione “poti quantu o cavaddu i Chiuminatto” (riferito a persona forte, come lo erano i cavalli da tiro utilizzati dalla ditta per il trasporto del materiale da costruzione)?
Analoga sorte è toccata a piazza Aid Committee, che onorava la storia di straordinaria generosità degli emigrati eufemiesi negli Stati Uniti costituitisi in comitato di aiuti a beneficio della propria terra di origine, nel 1966. Presidente del comitato era il commendatore Vincenzo Ascrizzi, il quale a ventitré anni (nel 1927) era giunto a Brooklyn con un diploma di ragioniere in tasca. Qui aveva lavorato alle dipendenze della Bank of America e della National City Bank, era stato manager della Sunland Beverage Company e infine (1947) aveva aperto un’agenzia di viaggi che negli anni ’60 contava circa venti dipendenti. Ascrizzi, che fu membro di diverse organizzazioni benefiche (tra queste, la Boys Town of Italy), ricevette numerosi riconoscimenti per la sua attività filantropica: nel 1963, il presidente della Repubblica Antonio Segni gli conferì la “Stella della solidarietà di seconda classe” e il titolo di commendatore; nel 1965 fu nominato cavaliere dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; nel 1968 il Vaticano lo elevò al grado di cavaliere di Gran Croce.
L’elenco delle opere benefiche realizzate a Sant’Eufemia grazie alla raccolta di fondi del comitato è imponente: ristrutturazione delle chiese di Santa Maria delle Grazie, Sant’Eufemia, Purgatorio e Sant’Ambrogio (alla quale fu anche donato un terreno); fondi destinati alla scuola media, alla realizzazione di un “primo lotto di strade interne” e del “primo lotto della rete idrica esterna”; l’acquisto di un’autoambulanza Fiat; aiuti annuali all’Orfanotrofio antoniano femminile.
L’Aid Committee ha rappresentato per anni il volto migliore della nostra emigrazione. Un filo ideale tiene unite persone distanti migliaia di chilometri e le fa sentire comunità, protagonisti di una storia condivisa e di un destino comune. Piazza Aid Committee ricordava una bella pagina di solidarietà tra fratelli lontani, che non andava assolutamente cancellata.

*In foto, le insegne dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana (oggi denominato “Ordine della Stella d’Italia”)

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