Nella sua lunga attività di cronista curioso del mondo e dell’infinita varietà umana, Totò Ligato ha regalato ai lettori della “Gazzetta del Sud” ritratti indimenticabili di personaggi di paese, protagonisti di vicende paradigmatiche di un’epoca ricordata con la nostalgia che naturalmente si prova per gli anni che furono. Il periodo storico più setacciato da Ligato, che da qualche anno ci ha lasciato, va dai Quaranta ai Sessanta del Novecento, anni vissuti in un paese piccolo ma vivace come poteva essere in quel tempo Melicuccà, prima che l’emigrazione lo svuotasse della meglio gioventù.
A quelle storie paesane Ligato ha dedicato anche un romanzo breve: Sabbia, uno scritto introvabile che ho avuto la fortuna di recuperare in formato pdf.
Nell’immaginaria ma facilmente identificabile Bagolaro prendono vita i personaggi mitici del ricordo e le care figure dell’infanzia. Come in una pellicola proiettata nel leggendario cinema di don Saro, che per una volta non vede protagonista l’affascinante Amedeo Nazzari, davanti agli occhi del lettore scorrono fatti e volti di un secolo passato in fretta e ormai dimenticato.
La saga familiare si intreccia con gli avvenimenti della storia grande; tutto sembra muoversi con un unico, grande respiro. Tra le pagine di Sabbia fa addirittura capolino il generale Garibaldi, del quale era stato compagno d’arme Gianni, padre di Rosa “a piririca” che – come spesso capitava – aveva dato da sola alla luce Francesco, futuro padre dell’autore del libro. Ancora, le baracche del dopo terremoto e la Grande Guerra, il Ventennio ed il secondo conflitto mondiale, con il ferimento di Francesco in terra libica ed il racconto del suo rocambolesco ritorno in paese, dove sarà assunto come guardia municipale in quanto mutilato di guerra e sposerà la maestra elementare Teresa.
Bagolaro è la metafora di un sud povero ma vitale, che nutre la speranza del proprio riscatto. Quella speranza che oggi sembra latitare, nel clima di generale rassegnazione che attanaglia i piccoli centri aspromontani, condannati al destino di un inesorabile spopolamento. Ligato diventa il testimone di una civiltà scomparsa, quella del sapone fatto in casa e del bucato nel torrente, due operazioni descritte con una maniacale attenzione per i dettagli. Una società dignitosa nelle sue ristrettezze e capace di divertirsi con poco: la musica del grammofono, il cinema di don Saro, la littorina, le trasferte a piedi per disputare una partita di calcio, le esilaranti burle che qua e là puntellano il racconto.
Sarebbe bello se l’amministrazione comunale di Melicuccà, le associazioni culturali e gli amici di Totò Ligato ne onorassero il ricordo e l’opera facendosi promotori della pubblicazione di una selezione dei “ritratti” più significativi apparsi sulle colonne della “Gazzetta del Sud” e della ristampa di Sabbia, l’affresco di una stagione che sopravvive in pagine significative sotto il profilo letterario e storico.
Vent’anni fa l’omicidio D’Antona
Vent’anni fa le “Nuove Brigate Rosse” assassinavano in via Salaria, a Roma, il giuslavorista Massimo D’Antona, docente universitario presso “La Sapienza” e consulente del ministro del Lavoro Antonio Bassolino nel primo governo D’Alema.
Pochi giorni dopo, con i pochissimi elementi che si avevano su quell’omicidio eccellente, il primo dopo undici anni di silenzio della galassia post-brigatista, scrissi per il settimanale messinese “Centonove” un articolo che fu pubblicato sul numero del 28 maggio 1999.
Il ricordo degli alpini eufemiesi della grande guerra nel centenario della costituzione dell’ANA
Sull’epopea degli alpini in guerra sono stati versati fiumi d’inchiostro. Emblematico il titolo dato da Paolo Monelli al suo libro di memorie sulla grande guerra (Le scarpe al sole. Cronache di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino), con l’accostamento tra muli e soldati che fa riecheggiare il “tasi e tira” legge del dovere di ogni alpino. E poi Mario Rigoni Stern, con la sua vasta produzione di racconti ed il capolavoro Il sergente nella neve, autobiografica narrazione della tragica ritirata di Russia nella seconda guerra mondiale, tema affrontato – tra gli altri – anche da Giulio Bedeschi in Centomila gavette di ghiaccio: «Gli alpini arrivano a piedi/ là dove giunge soltanto/ la fede alata», i versi che il “poeta” Pilòn dedica alla conclusione dell’odissea dei soldati italiani sul Don.
Ma la leggenda degli alpini continua ad alimentarsi nel servizio di protezione civile svolto in occasione di calamità naturali, come è accaduto nei sismi e nelle tragedie ambientali più recenti.
Essi rappresentano uno dei simboli identitari più forti della nazione italiana, come ha sottolineato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio inviato all’Associazione Nazionale Alpini, che oggi concludeva a Milano la tre giorni di “Adunata del Centenario”: «Le Penne nere identificano una lunga e nobile tradizione di coraggio, sacrificio e dedizione incondizionata a servizio della nostra comunità, nel segno di una profonda e convinta affermazione della indivisibile identità nazionale e della solidarietà che affratella ovunque le genti di montagna».
Tra le genti di montagna con il cappello dalla penna nera, chiamate a difendere i confini della patria nella grande guerra, più di trenta furono valorosi soldati di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Anche per loro vale “La canzone alpina” del capitano Barbier, della quale qui si riportano le prime due strofe:
D’Italia siamo i forti e valorosi Alpin
nel cuore abbiam l’ardor di sana gioventù
Nostro è l’onor di vigilare sui confin
e tal dover compiam con fede e con virtù.
Dove il nemico dall’Alpi tenta di guardar
pronto è l’accorrer nostro sempre forte in massa
«Di qui non si passa, di qui non si passa!»
da noi sente gridar!
Sul totale di 88 eufemiesi caduti, quattro appartenevano a reparti alpini: di Giuseppe Amuso (classe 1897), che morì nella disfatta di Caporetto, non fu mai trovato il corpo. In ospedale, per malattia, morirono invece i due ragazzi del ’99 Sebastiano Denaro e Agostino Fava, rispettivamente a Messina e ad Aosta. Mentre Francesco Larizza (1885) “versò il suo sangue per la grandezza della Patria” sul Monte Fior (Asiago), dove “rimase ucciso da proiettile nemico”.
Cinque i feriti in combattimento: Francesco Caruso nel 1916; Gaetano Cammarere, diciannove anni non ancora compiuti quando prese parte ai combattimenti fra la Val Brenta e il Piave di dicembre 1917; Rosario Panuccio e Vincenzo Conte sul Monte Vodice, nel corso della Decima battaglia dell’Isonzo; Rocco Fedele sull’altopiano di Asiago.
Quattro caddero prigionieri del nemico: Vincenzo Conte nella Seconda battaglia delle “Melette”, Cosmo Luppino a Monte Fior, Cosmo Viviani sull’Ortigara, Vincenzo Larizza nella ritirata di Caporetto.
Tutti patirono la rigidità degli inverni di guerra sulle montagne: febbri, bronchiti, polmoniti ed altre patologie legate al freddo erano all’ordine del giorno; ma Antonino Carlo sull’altopiano di Asiago e Francesco Villari, sul Monte Pasubio, subirono anche il congelamento dei piedi.
Due penne nere eufemiesi furono infine decorate per meriti speciali. A Giuseppe Criaco (1896) fu assegnata la medaglia di bronzo al valor militare: «Sia durante la postazione di perforatrice in zona battutissima dal nemico, sia durante il recupero di abbondante materiale di perforazione rimasto sotto il violento e preciso fuoco dell’artiglieria e fucileria avversaria dava prova di sangue freddo e valida cooperazione dei dipendenti (Costone Bocche-Pederobba, aprile-novembre 1917)». Antonino Tripodi (1899) fu invece insignito della medaglia di bronzo al valore civile: «In occasione di una inondazione provocata dalla piena dell’Isonzo avventuravasi con altri animosi militari tra le acque turbinanti e profonde per recare soccorso a 7 persone in procinto di affogare, dopo faticosi sforzi riusciva a trarre in salvo 5 dei pericolanti».
*Foto tratta dal sito dell’Associazione Nazionale Alpini: www.ana.it
«Ora e sempre Resistenza». Ecco perché è sempre attuale.
Nell’edizione odierna del Quotidiano del Sud, un mio intervento sul significato del 25 aprile e la risposta di Annarosa Macrì.
Cara dottoressa Macrì,
manca qualcosa a questo Paese, se gli eventi che dovrebbero essere occasione di unità provocano invece così aspre contrapposizioni. Manca la capacità di tenere insieme ragioni e torti, soprattutto quando ci si scontra con le contrapposizioni territoriali scaturite dal processo di unità nazionale o dall’irriducibile antinomia fascismo/antifascismo. In questo preciso momento storico, l’incapacità politica e culturale di cui sopra si salda pericolosamente con la tendenza a rimettere tutto in discussione, finanche i valori fondanti della democrazia affermatasi in Italia con la Resistenza.
La Resistenza è stata tutta rose e fiori? No, lo sappiamo. Ci sono stati eccessi e crimini storicamente accertati, regolamenti di conto che poco avevano a che fare con la conquista della libertà dopo il ventennio di dittatura fascista. Male ha fatto una certa storiografia a tentare di nascondere questa pagina nera. Ma il revisionismo storico non va confuso con quello pataccaro che infesta le cloache del web, apodittico in quanto decontestualizzato e decontestualizzante, oltre che tendenziosamente strumentale ad una narrazione politica falsa e pericolosa.
Ha ancora senso celebrare il 25 aprile? Certamente sì. Ha senso proprio perché non si tratta di un “derby” tra fascisti e comunisti. Chi sostiene questo evidentemente non ha idea del contributo fornito alla causa da personalità quali Alfredo Pizzoni, Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Edgardo Sogno. Si tratta, e dovrebbe essere chiaro anche a chi non è dotato di particolari strumenti culturali, di interiorizzare la replica di Vittorio Foa a Giorgio Pisanò: «Abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore, avessi vinto tu io sarei ancora in carcere». Sta tutta qua la differenza tra fascismo e antifascismo. Ed è una differenza dirimente.
Non si possono mettere sullo stesso piano coloro che lottavano per la libertà e i seguaci del nazifascismo. Claudio Magris sostiene che “è triste dovere difendere la Resistenza”: non dovrebbe essercene bisogno. La vittoria dei partigiani ha portato in Italia la democrazia, quella dei repubblichini di Salò l’avrebbe trasformata in un campo di concentramento nazista. Insomma, c’erano una parte giusta e una sbagliata: chi non accetta questo compie un’operazione storicamente disonesta e moralmente indecente.
Il 25 aprile non segna soltanto la fine di una sanguinosa e fratricida guerra civile. È l’atto fondante della Repubblica italiana, la rinascita della nazione dopo la seconda guerra mondiale, la riconquista di quell’onore che il fascismo aveva oltraggiato con la dittatura, con la soppressione di tutte le libertà, con le leggi razziali e con l’ingresso in guerra al fianco della Germania nazista.
Ecco perché suona ancora attuale la chiusura dell’epigrafe composta da Piero Calamandrei per la celebre lapide “ad ignominia” dedicata al criminale di guerra Albert Kesserling: «Ora e sempre Resistenza».
Domenico Forgione – Sant’Eufemia d’Aspromonte
RISPOSTA
Sì, è triste dover difendere chi siamo, chi sono i nostri padri, qual è il Paese in cui siamo nati.
E’ come se qualcuno strappasse la nostra carta d’identità, di persone e di cittadini, ci costringesse a declinare le nostre generalità, noi le recitassimo e non fossimo creduti.
E’ triste perché se è vero che la libertà non è un concetto finito e definito, è un’acqua di cui si ha sete perenne e che non disseta mai fino in fondo, e, di generazione in generazione, apre nuove praterie da percorrere e nuovi diritti da conquistare, la liberazione dal Fascismo, quella, non può essere messa in discussione, perché i fatti storici sono fatti, e, al di là delle interpretazioni, sono stati, e sono, causa ed effetto, di altri fatti: anelli di una catena che è pericolosissimo spezzare.
E’ triste perché il revisionismo becero che spira in questo Paese è un furto. Non dei valori in cui crediamo, che non sono, vivaddio, merce negoziabile, ma di tempo. Sì, di tempo. Io provo fastidio, un grande fastidio a dover partecipare a dibattiti, o solo ascoltarli, che mettono in discussione storia e storie acquisite, perché sento di essere governata da gente non solo ignorante o in malafede, ma di perditempo, che cerca di disfare, inutilmente, quell’arazzo faticosamente e dolorosamente tessuto da tutti gli Italiani, che si chiama “Novecento”, ed è lo sfondo “naturale” della nostra contemporaneità.
Ma la festa, quelli là, non riescono a rovinarcela. Semplicemente perché è impossibile, e perché Liberazione fa rima con Costituzione, e la Costituzione è lo scudo della Storia e della libertà.
Ieri ho ricevuto tanti auguri laici e tanti ne ho dati, e i giardini pubblici di Roma – dove in questo momento mi trovo –, al centro e in periferia, erano pieni di gente, moltissimi i giovani!, che cantavano e brindavano e ridevano.
Enzo Biagi, durante i momenti più bui del berlusconismo, diceva: “vedrete, “loro” se ne andranno e noi, invece, rimarremo”; beh, in fondo aveva ragione.
Anche se altri “loro” sono arrivati, peggiori di quelli di prima, noi siamo qua. E finché ce la raccontiamo e siamo capaci di far festa, viva la Libertà e viva la Liberazione!
Palazzo Capoferro
La maggior parte della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte è rimasta sepolta sotto le macerie delle scosse telluriche che nel corso dei secoli ne hanno più volte distrutto le abitazioni. In particolare, il terremoto del 1783 e quello del 1908 hanno pressoché cancellato le vestigia del suo passato. Sono ben poche le strutture architettoniche (o parti di esse) del XVIII e XIX secolo giunte ai nostri giorni, anche perché, laddove la natura non aveva completamente raso al suolo, l’uomo ha distrutto quel che era rimasto in piedi.
Palazzo Capoferro è tra i pochi ruderi in qualche modo sopravvissuti. “In qualche modo”, appunto. Un portale bellissimo ma interamente ricoperto dai rovi, che ha richiesto l’intervento della falce per scoprirlo fino al frontone. I muri esterni e le pareti interne rimasti in piedi, anch’essi conquistati dalle erbacce; i pavimenti inesistenti; le scale interne completamente coperte dalla terra; la scalinata esterna che conduceva all’ingresso principale e che in origine era ampia almeno il doppio, diroccata; nelle stanze dalle finestre con le inferriate adibite a deposito, ovunque cocci di giare; quasi inaccessibile il giardino interno.
Non è facile notare il rudere, i cui piani superiori sono crollati. Si trova infatti ubicato più o meno a metà della salita del “Calvario” (via Roma), la strada che collegava (e collega) il “Vecchio Abitato” con il “Petto del Principe”, un pianoro che si estendeva verso l’area, interamente edificata dopo il terremoto del 1908, degli ampi e fecondi terreni agricoli della “Pezzagrande”. Nascosto dalle abitazioni costruite nell’area nel corso del XX secolo, oggi si presenta agli occhi del visitatore all’improvviso: una sorta di apparizione in fondo a uno dei vicoli del “Calvario”.
Palazzo Capoferro è una costruzione ottocentesca situata in una posizione simbolicamente significativa: in alto, rispetto al centro urbano dell’epoca. In alto, da dove le famiglie facoltose (gli gnuri) dominavano sul popolino sovrastandone anche fisicamente i miseri tuguri. Accanto ai Capoferro abitavano i Fimmanò e i De Angelis Grimaldi, poco più distanti i Visalli.
Nel XIX secolo fu la dimora dell’avvocato e ricco proprietario terriero Paolo Capoferro (cl. 1823), che aveva sposato Maria Rosa Fimmanò (cl. 1827), sorella del commendatore Michele (cl. 1830), il deus ex machina della politica locale per sessant’anni a partire dalla seconda metà dell’800. Le famiglie Capoferro-Fimmanò, già protagoniste in epoca pre-liberale (entrambi i cognati, Paolo e Michele, erano stati membri del Decurionato e avevano ricoperto la carica di sindaco sotto i Borboni), continuarono a dominare la scena anche dopo l’unità d’Italia. Paolo Capoferro fu consigliere comunale, assessore, prosindaco e, per due trienni consecutivi (1870-72 e 1873-75), sindaco. Michele Fimmanò, più volte sindaco o prosindaco, fu inoltre consigliere provinciale ininterrottamente dal 1868 al 1913, anno della sua morte.
Palazzo Capoferro fu ereditato da Rosaria (cl. 1863) e portato in dote al medico chirurgo Saverio Greco di Delianuova (cl. 1857), dopo il matrimonio celebrato a Sant’Eufemia il 18 luglio 1889. Quindi passò al figlio Domenico (cl. 1891). E proprio nei pressi del palazzo (conosciuto per tale ragione anche come Palazzo Greco), Domenico, all’epoca podestà di Delianuova, fu assassinato il 12 settembre 1936.
Su un terreno posto più in alto rispetto al palazzo, anch’esso di proprietà dei Capoferro-Greco, sorge infine una costruzione che nella prima metà del Novecento ospitò una scuola elementare. Dotata di cucina, nell’immediato secondo dopoguerra funzionò da mensa non soltanto per gli alunni della scuola, ma anche per i tanti bambini poveri del paese.
La chiesa delle Anime del Purgatorio a Sant’Eufemia d’Aspromonte
La chiesa delle Anime del Purgatorio (o “del Purgatorio”) di Sant’Eufemia è uno scrigno di tesori, purtroppo inaccessibile per la maggior parte dell’anno. La costruzione attuale risale agli anni Venti-Trenta del secolo scorso, ma le sue origini risalgono più indietro nel tempo. Viene infatti menzionata per la prima volta negli atti della visita pastorale che il vescovo di Mileto fece a Sant’Eufemia nel 1706. Ma va sottolineato che la documentazione vescovile presenta un vuoto di 120 anni, risalendo al 1586 la precedente visita pastorale registrata. In quella circostanza il vescovo Marco Antonio del Tufo aveva censito quattro chiese, dedicate rispettivamente a Sant’Eufemia, Santa Maria delle Grazie, San Rocco e San Giovanni. Per cui è ragionevole collocare la data dell’edificazione della chiesa del Purgatorio in un arco temporale che va dal 1586 al 1706.
Secondo lo studioso Vincenzo Francesco Luzzi, nel Settecento la chiesa delle Anime del Purgatorio era la più attiva. La congregazione omonima era aggregata alla chiesa di Sancta Maria de Suffragiis (Roma) per i suffragi e per le indulgenze: «I fratelli indossavano sacco e scapolare nero con pileo e bacolo “ad morem peregrinorum”; facevano la processione di San Tommaso Apostolo e intervenivano alle processioni generali; facevano il I° Lunedì con esposizione del Santissimo; avevano le funzioni delle XL Ore, che nel 1728 si celebravano “pro circulo”, cioè erano circolari nelle chiese di Sant’Eufemia».
Negli atti delle visite pastorali effettuate nel XVIII secolo, relativamente alla chiesa del Purgatorio vengono annotati gli altari di San Tommaso Apostolo, di Maria SS. del Suffragio, di San Francesco Saverio, di San Filippo Neri, del Crocifisso, di San Luigi Gonzaga e di San Carlo Borromeo; la confraternita di San Francesco Saverio e quella della Beata Vergine dei Sette Dolori, entrambe composte da soli ecclesiastici.
La chiesa fu rasa al suolo dal terremoto del 1783, quindi ricostruita e nuovamente crollata dopo il sisma del 1908; fu infine riedificata tra gli anni Venti e Trenta del Novecento.
Tra le opere d’arte che custodisce, oltre ad oggetti di arte sacra realizzati artigianalmente e di rara bellezza (ostensorio, paramenti della omonima confraternita, croci), un posto particolare nel sentimento popolare è occupato dai lavori di due grandi pittori eufemiesi: Rocco Visalli (deceduto a soli 23 anni, nel 1845) e Carmelo Tripodi, artista poliedrico e fecondo. Del primo è possibile ammirare “San Francesco” e “Santa Filomena”; del secondo, la “Deposizione dalla croce” e “San Rocco tra gli appestati”. Di particolare interesse è anche la statua della “Madonna del Suffragio” (1832) di Raffaele Reggio, artista proveniente da Serra San Bruno; così come il dipinto posto alle spalle dell’altare maggiore, raffigurante la “Madonna delle anime del Purgatorio”: una pala ottocentesca restaurata circa trent’anni fa da un altro grande artista eufemiese, Graziadei Tripodi (il “restauratore al servizio di Dio”), che ha riportato alla luce diversi soggetti incredibilmente coperti al termine di un precedente restauro.
Deposizione dalla Croce – Carmelo Tripodi |
San Rocco tra gli appestati – Carmelo Tripodi |
San Francesco – Rocco Visalli |
Santa Filomena – Rocco Visalli |
*Fonti:
– Carmela Cutrì – Eufemia Tripodi, Cosma e Damiano. Medici-Martiri-Santi nella storia del culto in S. Eufemia d’Aspromonte, Virgilio editore (1998).
– Luzzi, Vincenzo Francesco, La Comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna, in: Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, Rubbettino editore (1997).
Le medaglie di Giuseppe Silvani
Medaglia di bronzo al valore militare |
Due anni fa scrissi di Giuseppe Silvani, soldato eufemiese nella prima guerra mondiale che alla fine del conflitto fa sostanzialmente perdere le proprie tracce negli Stati Uniti, da dove era rientrato in Italia per essere arruolato nell’esercito. Lo stesso foglio matricolare, conservato presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria, si conclude con l’annotazione “non è stato possibile completarlo risultando l’interessato irreperibile”.
L’articolo ha navigato sulle onde del web fino ad arrivare, qualche giorno fa, davanti agli occhi di Margie Silvani, nipote dello “sconosciuto eroe di Sant’Eufemia”. Grazie a Margie, che vive a Cedar Knolls (New Jersey), possiamo aggiungere nuovi tasselli alla biografia del trovatello eufemiese medaglia di bronzo al valore militare e raccontare una piccola storia di emigrazione che si inserisce nella grande storia dell’emigrazione italiana nel secolo scorso.
Qualche vuoto rimane: ad esempio non sappiamo chi adottò il piccolo Giuseppe Silvani, che tra le altre cose ha lasciato in eredità a figli e nipoti le due fototessere che Pasquale e Domenico (il cognome non è specificato) gli spediscono da Sant’Eufemia nel luglio del 1962 firmandole sul retro, entrambi, “il tuo caro fratello”.
I due probabili fratelli di Silvani, da sinistra: Pasquale e Domenico |
Apprendiamo invece che nel 1912 Silvani aveva sposato Giuseppa Carzo (nata a Sinopoli), poco tempo prima del suo primo viaggio negli Stati Uniti a bordo della nave “Madonna”, che sbarca a Ellis Island il 15 marzo 1913.
Le medaglie e gli attestati delle onorificenze custoditi da Margie confermano il dato della lacunosità delle fonti documentarie sulla grande guerra e completano l’elenco che era stato possibile stilare sulla base delle informazioni riportate sul foglio matricolare. L’onorificenza più prestigiosa conferita a Silvani è la medaglia di bronzo al valore militare, guadagnata in un’azione di guerra sul Monte San Marco il 23 maggio 1917, che gli vale anche l’assegnazione (“per le ferite di shrapnel riportate alla gamba destra”) del distintivo d’onore, un galloncino d’argento che i soldati feriti in combattimento applicavano alla divisa, sul braccio destro. Seguono le altre decorazioni: la medaglia commemorativa della guerra 1915-1918; la medaglia a ricordo della guerra europea (meglio conosciuta come medaglia interalleata della vittoria o medaglia della vittoria); la croce al merito di guerra.
Croce al merito di guerra |
Distintivo d’onore |
Medaglia interalleata della vittoria |
Medaglia commemorativa della vittoria |
Infine, l’attestato rilasciato dal ministero della guerra agli italiani rientrati dall’estero per servire l’esercito, che riporta la formula: «All’appello della Patria in armi, accorse sollecito da Oltre Oceano, sfidando le insidie delle navi e dei sommergibili nemici. Partecipò lodevolmente alla lotta per la difesa e il compimento dell’Unità nazionale, meritando la gratitudine della Patria».
Attestato ministero della guerra |
A guerra finita Silvani parte nuovamente per gli Stati Uniti e, il 20 aprile 1920, sbarca dalla “Pannonia”. La moglie Giuseppa lo raggiunge con la nave “Taormina” più di un anno dopo, il 27 settembre 1921. In tutto saranno sei i figli nati dal matrimonio di Giuseppe e Giuseppa. I quattro maschi partecipano alla seconda guerra mondiale con l’esercito statunitense, quindi troveranno occupazioni dignitose: Rocco presso il dipartimento dei lavori pubblici, come il padre; Pasquale nei vigili del fuoco; James “Jimmy” Vincenzo nel porto di New York; Michael nella polizia.
Foto del matrimonio di Michael Silvani con Margaret. Da sinistra: Pasquale Silvani, Michael e Margaret, Giuseppa Carzo, Giuseppe Silvani, Rocco Silvani, James Silvani |
Delle figlie, Grace e Mildred “Millie”, la prima muore giovanissima in un incidente d’auto, nel 1949.
Grace Silvani |
Michael, James e Millie Silvani |
Giuseppe Silvani si stabilisce a Pittsburgh (Pennsylvania) e lavora per circa nove anni nelle miniere di carbone. Naturalizzato il 7 gennaio 1926, tre anni dopo si trasferisce a West Orange (New Jersey), città nella quale risiederà per tutto il resto della sua vita (muore nel 1967), impiegato presso il dipartimento dei lavori pubblici, come operaio addetto alla manutenzione delle strade. Ed è proprio grazie al responsabile del dipartimento, Louis Falcone, che nel 1957 la comunità di West Orange viene a conoscenza degli atti di eroismo di Silvani durante la guerra dalle colonne del “West Orange Chronicle”: i tre giorni trascorsi senza mangiare per trarsi in salvo dopo un’incursione in territorio nemico; il ferimento alla coscia nella Decima battaglia dell’Isonzo e i 37 giorni di ricovero in ospedale; la cattura di diversi prigionieri nell’azione premiata con il conferimento della medaglia di bronzo al valore militare. Vicende incredibili commentate da Silvani con semplicità e umiltà disarmanti: «Ho fatto semplicemente il mio dovere, come tutti gli altri soldati».
West Orange Chronicle, 15 luglio 1957 |
5 febbraio 1783: ’u fracellu a Sant’Eufemia d’Aspromonte
Sono quasi le 13 di un giorno come tanti, il ritmo della vita dei contadini e dei pastori scandito dai consueti lavori di un’economia di sussistenza. Molti sono ancora a tavola, intenti a consumare il pranzo frugale della povera gente. Ma il 5 febbraio 1783 non sarà un mercoledì come gli altri: è il giorno del “fracellu”, una terrificante ondata sismica che provoca nella Calabria meridionale 30.000 vittime e 31.250.000 ducati di danni.
Secondo il geologo Dolomieu, bastò la prima scossa (magnitudo 7.1) “per rovesciar tutto”: «I paesi e tutte le case di campagna furono smantellati nel medesimo istante. I fondamenti parvero come vomitati dalla terra che li rinchiudeva. Le pietre furono attrite e triturate con violenza le une contro le altre, e la malta che le riuniva fu ridotta in polvere».
Uno scenario apocalittico descritto da diversi contemporanei, tra i quali Andrea Gallo (professore nel Collegio di Messina): «Cominciò a sentirsi tremare la terra da prima leggermente, indi con forza tale, con tal muggito e con scotimenti così varj ed irregolari che il suolo videsi ondeggiare, le muraglie muoversi da ogni lato, urtarsi insieme negli angoli, triturarsi e crollare, saltare i tetti per aria, slogarsi i pavimenti delle stanze, infrangersi le volte, rompersi gli archi più forti, e, senza punto cessare il terribile movimento, con tre o quattro continuate scosse, che si succedettero l’una all’altra, rovinarono le case, caddero i superbi palazzi, precipitarono le chiese ed i campanili, si aperse con lunghe fenditure il terreno».
I sussulti della terra proseguono fino al 28 marzo, quando si verifica l’ultima violentissima scossa, di magnitudo 7.0 (altre di poco inferiori vengono registrate nei giorni 6, 7 febbraio e 1 marzo, oltre a un migliaio di minore entità). Il letterario diplomatico Michele Torchia annota: «Se ne sono contate fino al giorno 3 del corrente Marzo in sì gran numero tra forti e leggiere, che cogli avvisi posteriori parlasi di un tremuoto continuo […]. Il loro movimento è stato di ogni genere, di sussulto, ondulatorio, di trepidazione. Non è stato moto della terra, ma un rovescio totale della sua superficie».
Lo sconvolgimento del sistema idrogeologico produce effetti devastanti: liquefazione delle sabbie, frane che ostruiscono il corso dei torrenti deviandone il corso o dando origine a paludi e laghi. Intere montagne spariscono o vengono squarciate, ovunque si aprono voragini che ingoiano “tutto ciò che si è presentato al loro abisso”: «gli alberi vi sono stati svelti dalle loro radici, le Città rovesciate dalle loro fondamenta; le acque sorgive vi hanno perduto o nascosto il loro corso; il fiume Petrace assai profondo vi ha lasciato il suo letto per tre giorni; quello di Rosarno ha straripato sulle campagne; e quello di Sitizano ha formato un lago tra i monti congiunti».
Molti centri della costa tirrenica reggina, della piana di Gioia Tauro e dell’entroterra aspromontano (così come del Vibonese) vengono letteralmente rasi al suolo: Terranova, Polistena, Oppido, Santa Cristina, Palmi, Scilla, Bagnara. I superstiti vagano per le campagne laceri e affamati, senza neppure un po’ di fuoco per riscaldarsi. Ovunque vi sono cadaveri, che vengono infine sepolti in qualche modo, dove capita: «La mortalità – conclude Torchia – è stata grande; quivi anche par che il flagello abbia fissato il teatro della Carneficina».
Sant’Eufemia d’Aspromonte non viene risparmiata. Su una popolazione di 3.160 abitanti, il terremoto miete 945 vittime (302 uomini, 414 donne, 216 bambini, 13 monaci); i danni stimati ammontano a 300.000 ducati. Il paese per tre quarti è situato sul versante e lungo le rive del torrente “Peras” (o “Marino”), mentre il rimanente quarto occupa un piano elevato, denominato “Petto del Principe” e al quale si giunge “per una via assai erta e lunga più che quattrocento metri, che sale rapidamente verso una difficile altura che chiamasi “Calvario”: viene quasi completamente distrutto.
In una relazione (databile tra il 1792 e il 1824) sottoscritta da 55 cittadini davanti al notaio Giuseppe Rechichi, si legge: “La cittadinanza alla vista spaventevole della rovina di tutti gli edificij del paese, d’innumerabili cadaveri degli estinti concittadini, fra le grida de’ semivivi e feriti, in mezzo insomma della confusione e del timore, che ingombrava i sensi di ogn’uno, non seppe altrove ritrovarsi un asilo che nei contigui giardini del Petto e Pezzagrande, provedendosi a proporzione del bisogno di malconcie baracchelle di tavole, una delle quali fu destinata al divin culto ed alla conservazione de’ Sagramenti”.
Tuttavia, nel volgere di poco tempo la popolazione ritorna nelle proprie case ricostruite, “sol colà rimanendovi un avanzo della gente bassa, vile, ed inosservante de’ generali e comunali principij di ben vivere”. La baracca utilizzata come chiesa viene distrutta e i sacramenti trasferiti nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, riedificata ed elevata a “chiesa Parrocchiale e Madre”, preferita alla vecchia chiesa Matrice anche perché situata al centro del paese: “per commodo di quell’avanzo del popolo rimasto al Petto si [costruì] una Chiesa filiale [dedicata alla protettrice Sant’Eufemia], ed altra consimile nell’antico suolo della diruta Chiesa Matre [già sotto il titolo di Sant’Eufemia, assunse il nuovo titolo del Rosario], per commodo di coloro che nel convicinio della stessa abitassero, l’una e l’altra a spese della C.[assa] S.[acra]”.
Tra gli effetti del terremoto va infatti sottolineato il trasferimento della parrocchia dalla chiesa “Matrice” a quella di Santa Maria delle Grazie. Il monastero di San Bartolomeo, invece, non verrà mai più ricostruito. I sette monaci (su venti) superstiti si trasferiscono nella “grangia” del “Belvedere”, dove dalla seconda metà del 1700 dispongono di un baraccone dotato di quattro camere, cucina, refettorio e cappella; mentre attorno cominciano a ergersi sparse abitazioni di contadini, in direzione della feconda pianura della “Pezzagrande”.
Proprio in quest’area (“Petto del Principe, Pezzagrande e Vigna di Belvedere”), secondo il governo borbonico, va ricostruito il paese. Il piano redatto dall’architetto Giuseppe Oliverio e rettificato dall’ingegnere Vincenzo Ferraresi consta di tre rettangoli: “Uno stretto e allungato con le vie ortogonali disposte in senso SSW-NNE e NNW-SSE; un altro, maggiore di forma, all’incirca quadrato con le vie pure tagliatisi ad angolo retto, ed infine il terzo doveva sorgere nelle adiacenze del Calvario, cioè della piccola cappella che ancora oggi si scorge nella parte alta di via Roma”.
Ma non tutti concordano sulla necessità di abbandonare il “Vecchio Abitato”. Più di un secolo dopo, quando il terremoto del 1908 avrebbe riproposto più o meno negli stessi termini la questione dell’edificazione della “Pezzagrande”, i fautori del trasferimento nel nuovo sito rispolverano quel precedente: «Si era già con gran fervore, da tutto il popolo, dato principio alla buona opera della riedificazione del paese in “Pezzagrande” e “Petto del Principe”, quando un prete mestierante, premuroso di secondare e favorire gl’interessi del principe di Scilla, allora feudatario delle terre della “Pezzagrande”, cinse la stola, buon mezzo qualche volta di lucrose ciurmerie, si ammantò di piviale, inalberò la croce e nel nome del Signore predicò alla folla superstiziosa la necessità e il dovere della riedificazione nella vecchia area del paese distrutto; perché ivi erano le afflitte anime dei morti, preganti pietà dai memori congiunti, ivi i simulacri dei santi e delle madonne, invocanti dal popolo il ritorno nei vecchi santuari da ricostruire. E il prete coi suoi pochi proseliti, cointeressati con lui, la ebbe vinta, e l’unità, la bellezza, la igiene, il commercio, la civiltà soggiacquero; la “Pezzagrande” fu abbandonata ed il paese fu, disordinatamente e con ristrette viuzze, riammassato sulla vecchia rea angusta, malferma, minacciata dalle frane, antigienica e fatalmente soggetta a disastri futuri, inevitabili».
Il progetto Oliverio-Ferraresi non viene quindi realizzato, se non in minima parte nel “Petto”. Diverso, invece, sarà l’esito dopo il 1908, quando la resistenza di numerosi eufemiesi verrà superata grazie ad una soluzione di compromesso che consentirà l’edificazione del nuovo sito, ma anche la permanenza della popolazione in quello vecchio.
*Nella foto, la pianta del progetto Oliverio-Ferraresi
**Fonti
– Carbone-Grio, Domenico: I terremoti di Calabria e di Sicilia nel secolo XVIII (ristampa edizione 1884), Barbaro editore 1999
– Iero, Caterina: Sancta Euphemia. Cenni storici, vita civile e costume di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Laruffa editore 1997
– Luzzi, Vincenzo Francesco: La Comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna, in: Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, Rubbettino editore 1997
– Pentimalli, Pietro (e altri): Per la riedificazione di Santeufemia d’Aspromonte, 14 ottobre 1911
– Principe, Ilario: Città nuove in Calabria nel tardo Settecento, Frama Sud 1976
– Rao, Anna Maria: La Calabria nel Settecento, in: Storia della Calabria moderna e contemporanea (a cura di Augusto Placanica), Gangemi editore 1992
– Torchia, Michele: Tremuoto accaduto nella Calabria e a Messina alli 5 febbraio 1783 descritto da Michele Torcia Archiviario di S.M. Siciliana e Membro della Accademia Regia (a cura di Giovanni Russo), Nuove edizioni Barbaro 2003
– Tripodi, Vincenzo: Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte (ristampa edizione 1945, a cura di Antonino Fedele), Vannini editrice 1999
La rivista “Incontri” nella storia culturale di Sant’Eufemia d’Aspromonte
Tra il 1988 e il 2005 la rivista “Incontri” e l’Associazione culturale “Sant’Ambrogio” svolsero un ruolo centrale nelle dinamiche culturali e sociali della società eufemiese. Merito principale del presidente della “Sant’Ambrogio” Vincenzino Fedele e dei collaboratori della rivista fu l’avere dato avvio ad una stagione di studi sulla storia di Sant’Eufemia culminata con l’importantissimo convegno per il bicentenario dell’autonomia (1990), i cui atti furono successivamente pubblicati (1997), a cura di Sandro Leanza, in un prezioso volume edito da Rubbettino per l’Istituto di Studi su Cassiodoro e sul Medioevo in Calabria. Quasi contemporaneamente (1999), l’Associazione ristampò inoltre la Breve biografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte di Vincenzo Tripodi (arricchita dalla nota introduttiva di Antonino Fedele), la cui prima edizione, pressoché introvabile, risaliva al 1945. Due eventi culturali significativi, che in un certo senso segnano uno spartiacque decisivo. Fino a quel momento, la storia di Sant’Eufemia era materia semioscura e in ogni caso priva di un carattere organico. Era possibile recuperare pezzi di storia eufemiese attingendo a volumetti biografici, ma nulla di più. A cavallo del XX secolo Vittorio Visalli aveva scritto del contributo eufemiese alla causa risorgimentale, all’interno di due volumi di ampio respiro che tutt’oggi costituiscono punto di riferimento imprescindibile per lo studio del Risorgimento calabrese: I Calabresi nel Risorgimento italiano (1893) e Lotta e martirio del popolo calabrese (1928). Successivamente (1935), Luigi Visalli compendiò in Vitaliano Visalli ed i suoi figli. 1790-1860 il contributo della sua famiglia alla causa risorgimentale. Mentre informazioni sparse andavano ricercate nelle commemorazioni dei personaggi illustri di Sant’Eufemia: il discorso tenuto da Michele Fimmanò nel 1900 per il centenario della morte di Carlo Muscari, martire della rivoluzione napoletana del 1799; la commemorazione dello stesso Michele Fimmanò, tenuta dal sindaco Pietro Pentimalli nel 1913, e quella del maggiore Luigi Cutrì, medaglia d’argento nella prima guerra mondiale, ad opera di Bruno Gioffrè nel 1916. Sulla storia del paese in generale, bisognava poi quasi esclusivamente affidarsi all’opuscolo inviato al governo nazionale nel 1911 dalla giunta comunale guidata da Pietro Pentimalli, in occasione delle polemiche sulla ricostruzione dopo il devastante sisma del 1908 (Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte). Infine, per la ricostruzione di alcuni aspetti della società eufemiese, i ricordi di Bruno Gioffrè pubblicati nel 1941 (Quarant’anni in condotta), i racconti e le poesie di Nino Zucco, don Luigi Forgione, Domenico Cutrì.
La rivista “Incontri” approfondì il filone degli studi sulla storia, il costume e le tradizioni di Sant’Eufemia, grazie alla passione di collaboratori qualificati: Peppino Pentimalli (che si alternò nella direzione della rivista con Nino Giunta), Isabella Loschiavo, Luigi Crea, Nino Caserta, Pino Fedele, Carmelita Tripodi, Bruno Rugolino, Antonino Luppino, Rosalba Arcuri, Daniele Cassone, Pino Pirrotta.
Fu un impulso decisivo, che aprì la strada a pregevoli lavori. Sul finire degli anni Novanta, Caterina Iero diede alle stampe Sancta Euphemia, Cenni storici, vita civile e costume di Sant’Eufemia d’Aspromonte (1997), mentre Carmela Cutrì ed Eufemia Tripodi pubblicarono Cosma e Damiano. Medici – Martiri – Santi nella storia del culto in S. Eufemia d’Aspromonte (1998). Il resto è cronaca dell’ultimo decennio, nel corso del quale diversi sono stati i lavori dedicati alla storia di Sant’Eufemia da Peppino Pentimalli e da chi scrive.
“Incontri” fu anche una vetrina importante per il territorio, poiché riuscì a dare visibilità al fermento culturale e sociale delle associazioni locali, ad ognuna delle quali fu riservato uno spazio da riempire con il resoconto delle attività svolte o con la presentazione di quelle in programma. Da ultimo, ma non certo per importanza, l’aspetto di filo ideale tra la comunità e i tanti eufemiesi sparsi in Italia e nel mondo prima che l’avvento dei social network annullasse le distanze. Moltissimi erano infatti gli emigrati abbonati alla rivista e seguitissime le rubriche sulle nascite, le morti, i matrimoni o altri eventi particolari (lauree, battesimi). Né mancavano le lettere dall’estero, con la pronta risposta della redazione: puntualissime, in particolare, le corrispondenze dal Messico di Peppino Ortuso.
Sono molto affezionato a quella stagione. Nel lontano 1992 scrissi per “Incontri” il primo articolo della mia vita e, successivamente, vi collaborai più o meno regolarmente fino alla sua chiusura.
Il blog “Messaggi nella bottiglia” è lo spazio che nel 2010 mi sono dato per continuare a scrivere, dopo che avevo tentato senza successo di fare rivivere l’esperienza di “Incontri” con il sito “santeufemiaonline”. Negli anni ho cambiato qualcosa, anche sulla scorta delle reazioni dei lettori: in particolare, rispetto agli esordi, ora cerco di dare più spazio alla storia, agli avvenimenti apparentemente secondari, ai personaggi più o meno illustri di Sant’Eufemia. L’apprezzamento per questo genere di articoli sta a significare che i lettori avvertono il bisogno di sentirsi raccontare, di conoscere le proprie radici, di sentirsi parte di una storia comune. Di riscoprire e di valorizzare la propria identità eufemiese. Da questo punto di vista, la rivista “Incontri” costituisce una fonte inesauribile di ispirazione per gran parte degli scritti da me dedicati a Sant’Eufemia, sul blog o nei libri.
Incontri di ieri e di oggi
Nel dicembre del 1988 usciva in edicola il primo numero della rivista “Incontri”, edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio. Per 18 anni “Incontri” ha raccontato la cronaca e la storia di Sant’Eufemia, divenendo uno strumento culturale importante per diversi motivi: è stato il filo rosso che ha tenuto in contatto la comunità locale con i molti eufemiesi sparsi in Italia e nel mondo, prima dell’avvento dei social; ha offerto spunti significativi a chi come me ha avuto voglia di approfondire la storia di Sant’Eufemia.
Mi fa pertanto particolarmente piacere che l’Amministrazione comunale e la Consulta cittadina abbiano voluto raccogliere la mia proposta di dedicare un incontro-dibattito per onorare questa ricorrenza. Sarà l’occasione per parlare della nostra storia e per cercare di capire che direzione sta prendendo l’informazione oggi, quali le opportunità e quali i rischi prodotti dai nuovi strumenti di comunicazione.
L’incontro, moderato da Maria Luppino in rappresentanza della Consulta comunale, mi vedrà tra i relatori insieme al Giuseppe Pentimalli, scrittore e per diversi anni direttore di “Incontri”; Giuseppe Fedele, corrispondente storico per il quotidiano “Gazzetta del Sud”; Monia Sangermano, giornalista ed esperta di informazione e comunicazione on-line; Francesco Martino, curatore del blog “Pont’iCarta”. Concluderà il sindaco Domenico Creazzo.
Appuntamento a domani, 4 gennaio, a partire dalle ore 17.00 presso il palazzo municipale.