Scusate il ritardo

Finalmente ci siamo: nei prossimi giorni sarà in vendita il mio nuovo libro. Avevo iniziato a lavorarci nel 2019, ma non avevo fatto i conti con l’imponderabile, per cui la sua pubblicazione è slittata di un anno. Ci tenevo a riprendere un discorso interrotto, a ricominciare dal mio personale “dove eravamo rimasti?”. Questi ultimi due anni non sono acqua passata, ma sono utili per ricordarmi che la vita, nel bene e nel male, riserva sorprese con le quali tutti siamo chiamati a fare i conti. Ora mi sento sollevato.
Non voglio aggiungere altro, se non ringraziare Katia Colica e Antonio Aprile (Il Rifugio Editore), per avermi supportato con affetto e professionalità, e Gresy Luppino, che ha realizzato graficamente una splendida copertina.
Un ultimo pensiero desidero rivolgerlo a due personaggi straordinari che purtroppo non ci sono più, ma che mi hanno donato la testimonianza di un secolo di vita vissuta a Sant’Eufemia: Carmela Cutrì e Nino Condina.

Dalla quarta di copertina:
Sant’Eufemia nell’età contemporanea presenta il risultato delle ricerche condotte dall’autore negli ultimi quindici anni. Le tre parti che compongono il volume affrontano per “quadri” gli eventi significativi della storia eufemiese dalla fine del 1700 ai giorni nostri. La storia “piccola” si intreccia con quella “grande”, nel contesto generale si inseriscono gli episodi particolari e le biografie dei protagonisti. Una cavalcata nei secoli che dà voce all’alto e al basso, al nobile e al popolano, facendo ricorso a fonti scritte, orali e bibliografiche: documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria, preziose testimonianze raccolte con le interviste, sconosciute pubblicazioni sepolte nelle biblioteche pubbliche o in possesso di privati. L’affresco di un’epoca affida così alle mani del lettore il filo rosso che, unendo il passato al presente, riscopre vicende personali e collettive paradigmatiche dello sviluppo storico e dell’evoluzione sociale di un paese dell’Aspromonte.
[Domenico Forgione: Sant’Eufemia nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore, 2021, pp. 336]

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Santa Eufemia, di Biagio Marin

Biagio Marin, nato a Grado (Gorizia) il 29 giugno 1891, è stato il poeta del mare, che ha cantato nella lingua della sua città natìa: «Nel suo dialetto veneto gradese – pieno di luce, cielo, mare – il mare è un mare senza nome, senza confini, disfatto in pura luce. In esso, lui, il poeta, si dissolve come poeta, cantando i luoghi della sua vita, della sua terra. In tutta la poesia dialettale ed italiana, nessun altro ha toccato il mare come Biagio Marin» (Claudio Marabini).
Il cuore della poetica di Marin pulsa dei luoghi della città “figlia di Aquileia e madre di Venezia”, in epoca romana porto di Aquileia e nota come “la Prima Venezia”, per il primato lagunare mantenuto fino all’affermazione della Serenissima. Per Marin, Grado è il piccolo nido al quale ritornare: e proprio El picolo nio è il titolo di una sua raccolta di versi.
La basilica di Sant’Eufemia di Grado, chiesa cattedrale fino alla soppressione del patriarcato e al trasferimento del titolo a Venezia (1451), è uno dei luoghi di Marin anche perché il padre, oste, ne fu il sagrestano. Risalente al VI secolo, sorge sopra una costruzione preesistente (“basilichetta di Petrus”, IV secolo) ed è affiancata da un campanile eretto nel XV secolo, in cima al quale svetta una statua segnavento in rame raffigurante l’Arcangelo San Raffaele. Delle tre navate divise da due file di dieci colonne sormontate da capitelli romani e bizantini, quella centrale termina nell’abside, mentre caratteristici e pregiati sono i mosaici in stile bizantino che ricoprono l’intera superficie del pavimento. Edificata per volontà del vescovo Elia, l’intitolazione a Sant’Eufemia confermava la fedeltà della chiesa aquileiese-gradese alle deliberazioni antiariane del concilio di Calcedonia (451), città della Bitinia nella quale la santa era nata e dove, il 16 settembre 303, “giunse con strenuo combattimento alla corona di gloria”.
Alla basilica di Sant’Eufemia Marin ha dedicato la seguente poesia:

Santa Eufemia
Me amo la to ciesa granda, Elia,
pel so silensio e per la so frescura;
là drento quele mura
colone ad archi dilata l’unbría.
Me piase intrâ cô Elo xe piú solo,
e Lo respiro in quel so svodo grando
e verso d’Elo mando
el cuor in svolo.
Lo vardo fermo, drento, ’l cuor me bate,
e ’i digo el ben che ’i vogio
e son fiamela d’ogio
ne l’onbra granda de le tre navate.
Picola luse xe la mia
a iluminâ quel’onbra profumagia
de tanta umanità passagia
comò una longa dolse litania.

Traduzione:
«Sant’Eufemia. Amo la tua chiesa grande, Elia,/ pel suo silenzio e per la sua frescura;/ là dentro quelle mura/ colonne ed archi dilatano l’ombra./ Mi piace entrare quando Lui è più solo,/ e Lo respiro in quel suo vuoto grande,/ e verso di Lui mando/ il mio cuore in volo./ Lo guardo fermo; dentro, il cuore mi batte,/ e Gli dico il bene che Gli voglio/ e sono fiammella d’olio/ nell’ombra grande delle tre navate./ Piccola luce è la mia/ per illuminare quell’ombra profumata/ di tanta umanità passata/ come una lunga dolce litania».

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Francesco e Pasquale, morti per la patria a 18 anni

La propaganda e la letteratura patriottica definirono “ragazzi del ’99” i soldati italiani chiamati alle armi non ancora diciottenni, a partire dai primi mesi del 1917, e inviati al fronte dopo un addestramento approssimativo nei giorni successivi alla disfatta di Caporetto. Furono i più giovani combattenti della Grande Guerra ed il loro contributo fu decisivo per la tenuta della linea difensiva del Piave nella battaglia del Solstizio e per la successiva controffensiva che portò al trionfo di Vittorio Veneto.
Non furono tuttavia i più giovani eroi di guerra. In previsione di un’eventuale offensiva nella primavera del 1919, nel corso del 1918 fu infatti chiamata la classe 1900, che non partecipò ad azioni di guerra, essendo ancora nella fase di addestramento, ma “ufficialmente” fu impiegata soltanto nei servizi territoriali e nelle retrovie. Ma poiché in guerra le vittime non si raccolgono soltanto sui campi di battaglia, anche la classe 1900 diede il suo contributo di eroi.
D’altronde, per circoscrivere le statistiche a Sant’Eufemia d’Aspromonte, degli 88 caduti (il monumento ai caduti riporta erroneamente 92 nominativi) su circa 600 chiamati alle armi, 39 morirono in combattimento, 15 in seguito alle ferite riportate e 5 per gli effetti dei gas asfissianti; mentre 6 perirono nei campi di prigionia, 21 per malattia e 2 per infortunio.
Si calcola che nell’esercito italiano furono circa 100.000 i decessi per malattia: patologie dovute alla cattiva alimentazione, che avveniva in ambienti sporchi e con cibo conservato male, o causate dalle aberranti condizioni igieniche delle trincee, che facilitavano la diffusione di malattie infettive. Si moriva di colera, tubercolosi, tifo, malaria, meningite, “spagnola”, dissenteria. Si moriva per il freddo, causa principale delle malattie respiratorie e del congelamento degli arti.
Anche Sant’Eufemia pianse due giovanissime vite strappate agli affetti familiari. Il contadino Francesco Luppino (di Domenico e Condina Maria Eufemia), arruolato nel 6° reggimento fanteria, morì il 12 ottobre 1918 presso l’ospedale militare di riserva “Vittorio Emanuele” di Palermo, a causa di una non meglio specificata malattia.
Il pastore Pasquale Saccà (di Giuseppe e Morabito Nunziata), arruolato nel 4° reggimento alpino, spirò invece il 31 ottobre 1918 presso l’ospedaletto militare di Aosta, stroncato da una polmonite da influenza.
I loro nomi sono incisi a futura memoria nel monumento ai caduti al quale un gruppo di volontari, con grande senso civico, ha deciso di dare dignità e decoro in vista del 4 novembre, dandosi appuntamento il giorno prima per ripulire l’area.

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Una data per l’autonomia di Sant’Eufemia d’Aspromonte

Il riconoscimento del contributo dato agli studi storici locali dal convegno organizzato nel 1990 dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio” per il bicentenario dell’autonomia di Sant’Eufemia, i cui atti furono pubblicati nel 1997 da Rubbettino, non impedisce di mettere in discussione l’indicazione generica del 1790 (senza giorno e mese) come anno in cui il casale di Sant’Eufemia avrebbe conquistato l’autonomia dalla Contea di Sinopoli. Vincenzo Tripodi è stato il primo a sostenere che «nel 1790 l’Università, oggi Municipio di S. Eufemia, sotto il sindacato di tal Vincenzo Panuccio, intentò e vinse una causa per liberarsi dalla soggezione del Conte di Sinopoli e Principe di Scilla che aveva usurpato il dominio del territorio di essa. In seguito a ciò, essendo il Comune per l’innanzi denominato S. Eufemia di Sinopoli, mutò tal nome, assumendo quello di S. Eufemia d’Aspromonte» (Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte, 1945).
La tesi di Tripodi non è però supportata da alcun documento ufficiale ed appare inoltre avulsa dal contesto storico generale. Più verosimile è invece supporre che l’affrancazione del comune sia stata conseguente all’eversione della feudalità (1806) realizzata nel periodo francese del regno di Napoli.
La “Legge per la circoscrizione dei governi del Regno” del 19 gennaio 1807, n. 14, al primo articolo stabiliva infatti che “ogni governo sarà chiamato col nome di quel luogo, ch’è il primo nel numero delle università, ch’esso comprende, e questo sarà la sede del giusdicente”: conseguentemente veniva istituito il governo di Sant’Eufemia di Sinopoli, del quale facevano parte i comuni di San Procopio, Sinopoli superiore, Sinopoli inferiore, Sinopoli vecchio, Acquaro, Cosoleto, Sitizano, Melicuccà.
Successivamente, il “Decreto per la nuova circoscrizione delle quattordici provincie del regno di Napoli”, n. 922 del 4 maggio 1811, che organizzava gli enti territoriali in province, distretti, circondari e comuni (art. 1), indicava Sinopoli capoluogo del circondario che comprendeva i comuni di Sinopoli superiore, Sinopoli inferiore, Sinopoli vecchio, Cosoleto, Sitizano, Acquaro, San Procopio, Sant’Eufemia, Paracorio, Pedavoli. Il 4 maggio 1811 veniva quindi istituito il comune di Sant’Eufemia, che perdeva la denominazione (“di Sinopoli”) mantenuta durante il periodo feudale.
Va infine sottolineato che uno studio di Gustavo Valente (Dizionario dei luoghi della Calabria, 1973), approvato anche dal Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche, fa riferimento proprio alla data tratta dal Bullettino delle leggi del Regno di Napoli.

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Ci siamo

Il mio prossimo libro è pronto e tra qualche settimana andrà in stampa. Vi anticipo il titolo: Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea. Storia, società, biografie (Il Rifugio Editore). Uscirà con un anno di ritardo, ma poco importa. Ci tenevo a dare organicità agli studi che nel tempo ho condotto sulla storia del mio paese: rivedere, approfondire, scavare ancora e trovare, concludere un ciclo di ricerche iniziato circa quindici anni fa. Da un punto di vista prettamente personale, era per me fondamentale portare a termine un lavoro iniziato a settembre 2019. Perché là, in fondo, ero rimasto.
Il libro si compone di tre parti e abbraccia un arco temporale che va dalla fine del 1700 ai nostri giorni: eventi rilevanti della storia di Sant’Eufemia, aspetti della società nel XX secolo, quattordici medaglioni biografici delle personalità più eminenti. E ancora: testimonianze orali (ad esempio, quelle significative di due centenari) e il recupero di fonti bibliografiche locali introvabili. Ho dedicato il libro alla memoria di Vincenzino Fedele, per quattro decenni presidente dell’associazione culturale “Sant’Ambrogio” (nella foto, insieme al cardinale di Milano Carlo Maria Martini): “infaticabile animatore sociale e culturale, per la sua preziosa attività di promozione delle tradizioni e della storia eufemiese”.

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La Varia di Sant’Eufemia d’Aspromonte

Un secolo fa anche Sant’Eufemia d’Aspromonte aveva la sua “Varia” o “Carro trionfale”, come si legge nella didascalia dell’unica immagine arrivata ai nostri giorni. La fotografia, che documenta il passaggio della Varia sul corso Umberto I il 4 agosto 1929, è stata pubblicata dal periodico “Incontri” (edito dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”) sul numero di gennaio-marzo 1995, a corredo della preziosissima ricostruzione storica del professore Luigi Crea.
Autore dell’opera e della sua messa in funzione fu, negli anni Venti e Trenta del 1900, Giuseppe Forgione, artigiano del legno noto con il soprannome “Sticchiarella”. Molto abile nella costruzione di macchine ad ingranaggi, tra le sue creazioni si ricordano inoltre un presepe con i pastori in movimento, una Varia più piccola, che veniva portata in processione in occasione della festa di San Giuseppe, e una costruzione meccanica con le statuette di San Giuseppe, la Madonna e Gesù adolescente.
La Varia era dedicata ai SS. Cosma e Damiano, il cui culto a Sant’Eufemia ha origini antiche ed è molto sentito: in particolare a partire dal 1837, quando i due santi ascoltarono le suppliche dei fedeli e il paese non fu toccato dall’epidemia di colera che stava seminando la morte nel circondario di Palmi. Un altro evento miracoloso risale invece al 7 ottobre 1843, giorno in cui coloro che si trovavano all’interno della chiesa si accorsero con stupore che le statue, realizzate nel 1816 dall’artista di Serra San Bruno Vincenzo Zaffiro, aprivano e chiudevano gli occhi, li alzavano al cielo e li abbassavano.
La costruzione meccanica era alta 12-13 metri ed era trainata da sei paia di buoi; un altro paio, posizionato nella parte posteriore, fungeva da freno. Sulla base della costruzione venivano disposte una ventina di ragazzine vestite di bianco, in genere provenienti da nuclei familiari poveri o orfane di guerra, insieme agli “ammalati” dei SS. Cosma e Damiano.
Posizionate sui lati della macchina, due coppie di angeli venivano fatte scorrere verso l’alto e verso il basso. Le colonne che si innalzavano dalla base si univano in cima, formando degli archi che sorreggevano la piattaforma sulla quale stavano sedute altre due file di bambine. Al di sopra vi era il globo terrestre, attraversato da un asse che faceva girare il sole e la luna. Infine, sopra le nuvole e i visi degli angeli, dominava la statua del Padre Eterno con una bambina al suo fianco.

Sull’argomento:

  • Luigi Crea, Il Carro Trionfale o Varia di S. Eufemia d’Aspromonte, “Incontri”, anno 7 – n. 1 (gennaio-marzo 1995).
  • Carmela Cutrì – Eufemia Tripodi, Cosma e Damiano. Medici-Martiri-Santi nella storia del culto in S. Eufemia d’Aspromonte, Virgiglio Editore, Rosarno (RC) 1998.
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Il terremoto del 28 dicembre 1908 nella testimonianza del medico Bruno Gioffrè

Chiesa di Sant’Eufemia V.M.

Alle prime ore del 28 dicembre 1908 Sant’Eufemia fu squassata da un terremoto di magnitudo 7,5: la scossa tellurica durò 46 lunghissimi secondi e, abbattendosi su abitazioni già colpite nel 1894, nel 1905 e nel 1907, causò una tragedia di enormi proporzioni. Il numero delle vittime non è mai stato accertato con esattezza, poiché sono discordanti le testimonianze dirette e i dati riportati dagli storici. Furono circa 700 per la giunta comunale, che il 14 ottobre 1911 inviò al governo il documento “Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte”. Secondo altre fonti, i morti potrebbero essere stati molti di più, un migliaio o anche oltre. L’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato, a sette mesi dalla tragedia, riporta invece i nominativi di 530 vittime, un dato molto vicino a quello di 537 fornito da Vincenzo Tripodi nella sua “Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte”. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%: le abitazioni crollate e quelle demolite in un secondo momento furono complessivamente 1.100; un centinaio quelle parzialmente distrutte.

Il medico condotto Bruno Gioffrè in una foto del 1906

Drammatica la testimonianza del medico condotto Bruno Gioffrè (1865-1931), riportata nel suo “Quarant’anni in condotta” (pp. 89-93): «Come trascorsi la nefasta giornata io non so dirlo. Quanti feriti soccorsi, e quali? E di quante sciagure fui spettatore? Non ne ho chiara memoria. Solo ricordo che vestito sommariamente, con camicia da notte, senza cappello, digiuno, vagai fino alla sera, tornando inebetito al lume di una lucerna all’antro ospitale che trovai pieno di rifugiati avviliti e taciturni. […] E si taceva tutti, mentre per l’aria gelida ed umida giungevano urli e sospiri e la terra era tutto un fremito per le scosse che si susseguivano senza tregua. Mi si apprestò un giaciglio con qualche straccio a terra, e nella quasi oscurità passarono non so quante ore. Ma più alte grida ci scossero. Uscimmo dalla baracca e vedemmo non lungi colonne di fiamme che rompevano la notte. Più case ardevano, sotto una delle quali era seppellita tutta una famiglia e sotto un’altra una vecchia signora inferma che avevo curato in quei giorni. Terrore e strazio! Così passò la spaventevole notte. E venne l’alba, funebre anch’essa, ed io ripresi il mio triste lavoro. […] Il più esasperato sconforto invase gli animi. Alcuni dei migliori cittadini si spinsero fino a Palmi, capoluogo del circondario, e informarono le poche autorità superstiti della immensa sciagura del paese […]. Ma nulla giunse nei quattro giorni finali dell’anno sciagurato: non un pane, non un farmaco. Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto».

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Partigiano, portami via da tutta questa ignoranza

Mi chiedo cosa dovrebbe esserci di così vergognoso nel cantare “Bella ciao”. Sono davvero tempi tristi se si cerca la polemica su un canto di liberazione. Stiamo perdendo i riferimenti storici, culturali ed etici del nostro stare insieme. La lotta partigiana è stata lotta di liberazione dal mostro nazifascista, partorito dai fantasmi e dalla follia del ventesimo secolo. Alla lotta partigiana prese parte la gioventù migliore di quel tempo: una generazione che sacrificò tutto, anche la propria vita, per consegnare all’Italia la democrazia.
In questo presente senza memoria non dicono niente i nomi di Edgardo Sogno, del martire delle Fosse Ardeatine Giuseppe Cordero di Montezemolo, di Alfredo Pizzoni, Alfonso Casati, Mario Argenton, Enrico Martini e tanti altri. Monarchici, liberali, autonomi che “fecero” la Resistenza. Accanto a socialisti, comunisti, democristiani, azionisti. Tutti uniti per scacciare i nazi-fascisti dal suolo italiano e per cancellare vent’anni di dittatura, di confino e di assassini politici, di parlamentari ridotti a marionette, di leggi liberticide, per riscattare la vergogna delle leggi razziali e dell’ingresso dell’Italia in guerra. Uniti, al di là delle diverse sensibilità politiche, per il fine nobile e superiore della conquista della libertà per tutti, non per una parte: «Abbiamo combattuto assieme – dichiarò Arrigo Boldrini – per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro».
Boldrini, il “comandante Bulow”, partigiano e comunista che “salì in montagna” con tanti altri compagni, dei quali oggi – sempre più spesso – si tenta di cancellare o di macchiare la storia.
Sta tutta qua la differenza tra chi lottava per la libertà e chi per la dittatura. Concetto ribadito dal partigiano Vittorio Foa in un celebre colloquio con il repubblichino Giorgio Pisanò: «Abbiamo vinto noi e sei diventato senatore; se aveste vinto voi io sarei morto o sarei finito in galera». Una frase che riassume la grandezza della Resistenza e che va ricordata, oggi che tutto viene messo in discussione in maniera ignobile e irresponsabile da chi dovrebbe rappresentare i valori della libertà al più alto grado. Dai troppi porci a cavallo che occupano le istituzioni senza averne né il senso, né il decoro: magari pretendendo – come minacciò il loro rimpianto predecessore – di poterne fare “un bivacco di manipoli”.
Mi chiedo di cosa ci si debba vergognare nel cantare “Bella ciao”, che tra l’altro – se proprio non bisogna turbare i nostri anticomunisti da fotoshop – non è neanche una canzone comunista, visto che non incita alla lotta di classe, ma a quella di liberazione dall’invasore. Sorge un dubbio: forse ci si dovrebbe vergognare di avere combattuto anche per la libertà degli ignoranti e dei cretini di oggi.

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Il terremoto del 1908 a Sant’Eufemia in tre scatti della Società fotografica italiana


Il terremoto del 28 dicembre 1908 fu il primo evento “mediatico” della storia italiana. In riva allo Stretto giunsero i giornalisti più famosi, tra i quali Luigi Barzini senior, il leggendario inviato del “Corriere della Sera”. Grazie al racconto dei quotidiani nazionali, l’Italia intera si sentì emotivamente coinvolta. Fiumi di inchiostro e, novità assoluta, numerose fotografie. I luoghi del disastro, morti e feriti, soccorritori, macerie e desolazione: anche le popolazioni delle province più lontane “videro” tutto. Le immagini diffuse avvicinarono gli italiani alla tragedia.
Nel 1889 era stata costituita a Firenze la Società fotografica italiana, sotto la presidenza dell’antropologo Paolo Mantegazza. Nel 1908 diversi fotografi giunsero a Reggio e a Messina per documentare fotograficamente gli effetti del terremoto e, neanche un anno dopo, i loro scatti trovarono sistemazione nel volume “Messina e Reggio prima e dopo il terremoto del 1908” (Firenze, 1909). L’opera, che l’editore Barbaro di Delianuova ha meritoriamente ristampato nel 2002, contiene centinaia di immagini e gli interventi di autorevoli personalità del mondo culturale e scientifico: Gabriele D’Annunzio, Pasquale Villari, Corrado Ricci, Vittorio Spinazzola, Guido Alfani, Ugo Ojetti. Il contenuto della pubblicazione (scritti e didascalie delle fotografie), che fu dedicata dalla Società fotografica italiana all’«Opera nazionale di Patronato “Regina Elena” per gli orfani del terremoto», ha la caratteristica di essere riportato in quattro lingue: italiano, francese, inglese e tedesco.
La maggior parte delle fotografie furono realizzate a Reggio e a Messina, ma i reporter visitarono anche i paesi della provincia reggina. Sant’Eufemia è presente con tre scatti, realizzati da Luigi Lodi-Focardi e Silvio Bernicoli: la prima ritrae un’abitazione diroccata in uno scorcio di corso Umberto e piazza Plebiscito (odierna piazza don Minzoni); la seconda, una fontana con due donne e un uomo che fanno approvvigionamento d’acqua; la terza, la chiesa di Sant’Eufemia nel rione Petto, puntellata nei giorni successivi al terremoto.

*Fotografie tratte da: Società fotografica italiana, “Messina e Reggio prima e dopo il terremoto del 1908”, ristampa a cura di Nuove Edizioni Barbaro, Delianuova 2002, pag. 303.

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4 novembre 1918

Quando iniziai la ricerca sui soldati di Sant’Eufemia che presero parte alla Prima guerra mondiale mi affascinava la possibilità di andare oltre le fredde statistiche, comunque inesistenti ad esclusione del totale delle vittime e dei relativi nominativi, desumibili dai nominativi riportati sul monumento dei caduti. Pochi dati, peraltro inesatti, a cominciare dal numero dei caduti. Ma non si trattava soltanto di questo. Ai numeri – noti o meno che fossero – volevo dare un nome, un cognome e un’età. Disegnarli sul foglio: altezza, colore dei capelli e degli occhi, colorito del viso, segni particolari. Conoscere la vita che avevano in paese. E poi fare uno sforzo in più: affiancarli mentre partivano per il fronte e stare con loro sul Carso o sull’altopiano di Asiago, sul fronte francese o su quello balcanico. Soffrire nel freddo delle trincee, affamato come loro quando i rifornimenti tardavano ad arrivare o non arrivavano per niente. Patire gli stenti dei campi di prigionia. Vivere anch’io il dramma e gli orrori di quella immane carneficina. I boati delle cannonate, la pioggia degli shrapnel, i gas asfissianti. La follia degli attacchi “in salita” per conquistare una cima, mentre dall’alto le mitragliatrici del nemico si esercitavano in un facilissimo tiro al bersaglio. Respirare il tanfo dei cadaveri in putrefazione, nei campi di battaglia ridotti a paesaggio lunare. Sentire con le mie orecchie i lamenti dei feriti e le urla disumane degli amputati (“sembrava che scannassero maiali”); poggiare la mia mano sulla fronte degli ammalati, nei lettini degli ospedali da campo. Trascorrere i miei anni migliori con la morte accanto, come era capitato in sorte a loro. Questo volevo.
Ricordare è un atto di giustizia, fare memoria significa riconoscere pari dignità alle piccole/grandi pagine di storia scritte dai nostri avi. Staccare dalle ragnatele del tempo le loro vite, tirare fuori dall’ombra dell’oblio quei 580 giovani di Sant’Eufemia spediti in posti a loro sconosciuti: contadini, pastori, calzolai, falegnami, mulattieri.
Quei fanti erano i nostri nonni e furono mandati al macello. Si beccarono polmoniti, malaria, infezioni intestinali, il congelamento degli arti. Furono fatti prigionieri (72), furono feriti (130) e in 88 morirono (più un fucilato per diserzione): 39 caddero sul campo di battaglia (11 dei quali dispersi), 15 in seguito alle ferite riportate in combattimento, 5 per gli effetti dei gas asfissianti, 6 nei campi di prigionia, 21 per malattia, 2 per infortunio.

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