Strade, storia e storie di Sant’Eufemia

Ora ne posso parlare. Dalla primavera scorsa la tentazione c’è stata più volte, ma mi ha sempre frenato il timore di sbilanciarmi troppo quando ancora, in effetti, non sapevo come sarebbe andata a finire. Il progetto aveva cominciato a frullarmi in testa dopo il convegno organizzato dal Terzo Millennio e dal liceo scientifico per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (marzo 2011). In quella circostanza, mi resi conto che, per la maggior parte degli eufemiesi, i protagonisti della storia locale non sono nient’altro che un nome stampato agli incroci delle strade. Pensai che sarebbe stato utile saperne di più.

Certo, perché un progetto diventi realtà, occorre una buona molla, che è arrivata un anno dopo. Fino ad ora avevo scritto libri per passione, per “dovere”, per lenire un dolore. Questo l’ho scritto per rabbia e perché lo scrivere, per me, ha sempre rappresentato una formidabile valvola di sfogo.

Mi sono divertito tantissimo. Dal 1861 ad oggi i nomi di alcune strade sono cambiati, nuove vie si sono aggiunte, di altre denominazioni addirittura non si ha più notizia. Scomparsi i nomi, cancellate – fisicamente – anche le vie. Allarga di qua, allarga di là, un corpo avanzato, una recinzione e addio strada.

In tutto, ho redatto 106 voci. Ovviamente, su personaggi come Dante o Cavour c’era poco da aggiungere a quanto già non sia noto. Un buon ripasso, comunque, dà sempre giovamento.
Recuperare le notizie riguardanti i personaggi eufemiesi è stata invece una caccia al tesoro, a volte spassosissima, altre irritante. Ho chiesto delle informazioni all’anagrafe di Genova e all’archivio storico della banca commerciale italiana e mi sono state fornite dopo ventiquattro ore. Mi sono rivolto allo stato civile del comune di Palmi e ho fatto prima a girarmi tutto il cimitero alla ricerca di una tomba (soprattutto, di una data che in nessun archivio avevo trovato) che sospettavo si trovasse là e che alla fine è saltata fuori: eureka!

A distanza di venti anni, mi sono cimentato nuovamente con il latino per decifrare un registro di battezzati del Settecento e ho esultato (in italiano) quando, finalmente, ho scovato l’informazione che cercavo da mesi. E poi le risate, che non ce l’ho fatta a non condividere con qualcuno, davanti alla scoperta degli strafalcioni che campeggiano in bella vista su alcune tabelle toponomastiche.

Strade, storie e storia di Sant’Eufemia, dato che il libro è anche il pretesto per scrivere di storia locale e per portare alla luce aneddoti legati ai personaggi o a alle strade che a quei personaggi sono dedicate.

* Per la pubblicazione se ne parlerà nel 2013. No, il titolo non lo rivelo neanche sotto tortura.

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Il giornalismo copia-incolla

Sostengo da tempo che tutti i giornali locali dovrebbero fare uno sforzo economico per assumere in redazione un giornalista che si occupi esclusivamente della supervisione dei contributi di giornalisti e collaboratori vari. Figura professionale che tra l’altro esiste e la cui importanza nell’economia di un giornale non va assolutamente sminuita. Sono innumerevoli i casi di giornalisti famosi che hanno iniziato come correttori di bozze. Partendo dal gradino più basso, Eugenio Balzan arrivò addirittura alla direzione amministrativa e alla comproprietà del “Corriere della Sera”, negli anni in cui il giornale di via Solferino era diretto da Luigi Albertini.

Ciò eviterebbe lo spettacolo che si presenta agli occhi dei lettori con la pubblicazione di strafalcioni ortografici e sintattici raccapriccianti e, francamente, inammissibili. Se poi il correttore di bozze fosse anche un discreto lettore di libri (dotato di un minimo di cultura generale) e un fruitore attento alle dinamiche e alle modalità della comunicazione sul web, il giornale farebbe bingo.

Quanto meno non incapperebbe nella figuraccia occorsa a Calabria Ora. Il giornale diretto da Piero Sansonetti, nell’edizione di oggi, ha infatti dedicato uno speciale di tre pagine (I Quaderni di Calabria Ora) ai novant’anni della “marcia su Roma”. A pagina 14, Quel che resta a 90 anni da quella marcia, articolo di Giuseppe Cantarano. A pagina 15, due interviste: la prima, di Marco Cribari, al presidente de “La Destra” Francesco Storace (“Negarla? È antistorico”); la seconda, di Camillo Giuliani, allo storico Giovanni De Luna (Fu vera rivolta solo nel ’25). Il capolavoro (si fa per dire) è però a pagina 16, interamente riservata alla ricostruzione della “marcia” (La capitale sotto tiro). Insospettito dalla mancanza della firma dell’autore in calce all’articolo, ho voluto prendermi la briga di fare una veloce verifica. Come sospettavo, l’articolo è tagliato/ copiato/ incollato dalla voce “marcia su Roma” presente su Wikipedia, “l’enciclopedia libera e collaborativa”, redatta sostanzialmente dagli internauti e cliccatissima sul web. Pezzi interi sono copiati e incollati, altri modificati soltanto nel raccordo tra un taglio e l’altro (l’articolo online è infatti più lungo di quello del quotidiano calabrese).

La deontologia, in questi casi, prevede la citazione della fonte e il virgolettato, ma per ragioni facilmente intuibili non “fa figo” citare Wikipedia, molto utilizzata (ahinoi) dagli studenti per le loro ricerche, ma sulla cui autorevolezza è bene non mettere la mano sul fuoco.

Il giornalismo copia-incolla è la metafora di un’epoca che ha messo sull’altare l’approssimazione, la superficialità e la strafottenza. Tempi tristi.

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Un nuovo genere cinematografico: la fantastoria all’italiana

E ora? Ora che il tribunale di Milano ha stabilito che la tesi della doppia bomba a piazza Fontana è una panzana alla quale non occorre dare alcun credito, come la mettiamo?
Ma come può essersi imbarcato in un’operazione così azzardata e discutibile il regista che ha diretto I cento passi? Il film di Marco Tullio Giordana sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura non era ancora uscito nelle sale che già era volato qualche fischio di disapprovazione. E non in nome dell’italica usanza a criticare un film “senza prima di vederlo”, bensì per la bocciatura che in precedenza aveva ricevuto il libro dal quale Romanzo di una strage è liberamente tratto: Il segreto di piazza Fontana, scritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli.

Sulla vicenda di piazza Fontana, come su quella, più complessiva, della strategia della tensione, delle stragi di Stato e degli anni di piombo, la verità storica presenta pochissimi aloni di mistero. Già nel 1974 (“Cos’è un golpe?”, articolo pubblicato sul Corriere della Sera e l’anno successivo inserito tra gli Scritti corsari proprio con il titolo utilizzato da Giordana per il suo film), Pier Paolo Pasolini aveva fatto vibrare alto il suo “io so”, nonostante l’impotenza dell’intellettuale “che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”, ma che in definitiva deve ammettere: “io so, ma non ho le prove”.
È sulla verità giudiziaria che lo Stato ha puntualmente fallito, nel solco di una tradizione avviata con la nascita stessa della democrazia in Italia, un filo rosso che lega Portella della Ginestra ai misteri dei nostri giorni.
Responsabili della strage del 12 dicembre 1969 (il giorno della “perdita dell’innocenza”) sono i neofascisti di Ordine Nuovo, i servizi segreti deviati e apparati dello Stato che intendevano alzare la tensione per provocare una svolta autoritaria nel Paese. C’è poco da aggiungere a quanto, oltre venti anni fa, Sergio Zavoli aveva fatto emergere nella trasmissione Rai La notte della Repubblica. Il ruolo di Franco Freda e Giovanni Ventura, il gruppo dei fascisti padovani, i servizi segreti e i depistaggi delle indagini, che determinarono la condanna di esponenti apicali del SID.

La tesi della doppia bomba finisce così nella spazzatura, accompagnata da un giudizio lapidario: “assoluta inverosimiglianza”. D’altronde, una teoria che prevedeva la presenza di due bombe (una dimostrativa, che doveva esplodere a banca chiusa; l’altra “vera”, piazzata invece proprio per fare morti) ha qualcosa di incredibile, illogico, per nulla convincente già d’istinto.
Difficilmente sarà fatta giustizia per 17 vittime, 88 feriti e centinaia di parenti che ancora convivono con quel ricordo doloroso. All’amarezza e alla rabbia per il trattamento disinvolto e leggero riservato alla verità, si aggiunge anche il senso di beffa per un film che ha avuto un clamoroso battage pubblicitario, che è stato distribuito a tappeto nelle sale di tutta Italia e che approderà sugli schermi televisivi. Una seria riflessione su cinema ed etica dovrebbe chiarire fin dove ci si può spingere quando si ricostruisce “liberamente” una vicenda storica che è una ferita ancora aperta. Alla luce delle parole della procura milanese, sarebbe forse il caso di trasmettere il film con il sottopancia “la tesi della doppia bomba è stata giudicata inverosimile”.

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25 aprile, per non dimenticare

La Resistenza e la Liberazione sono nella dignità delle parole con cui Sandro Pertini, il 23 febbraio 1933, si dissocia dalla domanda di grazia presentata dalla madre al Tribunale Speciale:

La comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente.

Non mi associo dunque a simile domanda, perché sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni cosa, della mia stessa vita, mi preme.

Il recluso politico

Sandro Pertini

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Giù le mani da Guccini

Roma è stata imbrattata con manifesti dedicati “Ai ragazzi di Salò” che riportano le parole della canzone con la quale Francesco Guccini, da quarant’anni, chiude ogni suo concerto, La locomotiva (album: Radici, 1972): “gli eroi son tutti giovani e belli”.
Il cantautore di Pavana, giustamente, non l’ha presa bene: “non solo la mia canzone La locomotiva non è stata compresa, direi che è stata davvero maltrattata”. La storia, ormai celebre, è quella di un anarchico bolognese vissuto alla fine dell’Ottocento.
Associare quella vicenda alla Repubblica di Salò è una bestemmia storica e un’operazione culturalmente disonesta. Non bisogna mai stancarsi di alcune puntualizzazioni, che diventano doverose per non correre il rischio che il trascorrere degli anni appanni una verità che va custodita e tramandata intatta, in tutta la sua grandezza.

Va bene la pietas per i morti, per tutti coloro che hanno perso la vita nel corso della guerra civile. Ma bisogna ribadire con forza che tra il 1943 e il 1945 c’erano italiani che lottavano per la libertà e italiani che difendevano il nazifascismo.
La vittoria del fronte della Resistenza ha portato la democrazia. Quella dei repubblichini avrebbe trasformato l’Italia in un immenso campo di concentramento.
L’equazione partigiani = repubblichini, brillante trovata di Luciano Violante ripresa e rilanciata da Giampaolo Pansa, è soltanto un’inaccettabile mistificazione storica.

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Da “mastru” Nino Spanto

C’è stata un’epoca in cui gli adolescenti non “andavano” a danza, a musica, a scuola calcio, a pallavolo, a inglese e a chi più ne ha più ne metta. Tutte quelle attività che assorbono quasi interamente le ore pomeridiane dei ragazzi, fino a non molto tempo fa, erano pressoché sconosciute. Tutt’al più, giocavano a calcio, ma nelle strade e nelle piazze. Pagare per giocare è un costume in voga soltanto da un decennio a questa parte. Un tempo, si andava dal “mastru”, che era “un artigiano esperto e abile” (Giuseppe Pentimalli, Vocabolario ragionato del dialetto femijotu). Falegname, sarto, calzolaio, barbiere, panettiere, imbianchino, impagliatore di sedie (“seggiaru”), fabbro, fabbricante di basti (“vardaru”), cestaio, stagnino, tornitore erano le professioni che contavano più “discipuli” (apprendisti). Le botteghe degli artigiani erano una seconda scuola e anche chi, alla fine, non imparava l’arte, ne usciva in qualche modo “formato”. La maggior parte dei ragazzi “girava” due, tre, anche quattro mestieri, fino all’età del servizio militare. Famiglia, scuola, luogo di lavoro e infine la caserma, di fatto, hanno contribuito all’educazione di intere generazioni.

La bottega del “mastro scarparo” Nino Spanto si trovava in via Carusa, l’ex “calata” del cinema, in un tempo in cui (1957) il cinema ancora non esisteva. Era però in costruzione e da lì a poco sarebbe stato aperto al pubblico, gestito dai fratelli Domenico e Vincenzo (“u vichingu”) Luppino, rientrati in paese dall’Eritrea alla fine della seconda guerra mondiale. Dal calzolaio, i ragazzini imparavano a fare una scarpa dal nulla. Appena presa confidenza con trincetti e lesine, tagliavano il cuoio, cucivano la tomaia e i “petti” (le suole) con lo spago incerato e alla fine estraevano dalle forme inchiodate il prodotto finito. Il primo impatto con il lavoro consisteva in mansioni semplici: i più piccoli dovevano infatti raccogliere con una calamita “simiggi” e “zippe”, i chiodini che restavano per terra a fine giornata e che dovevano poi raddrizzare in modo da renderli riutilizzabili. Non era previsto alcun compenso. Erano anzi i ragazzi a omaggiare il “mastro” (feste comandate, onomastico e compleanno), il quale si sostituiva all’autorità paterna, grazie alla delega conferitagli (“se faci u malu, minati”) ed esercitata con schiaffi e nerbate generosamente distribuiti.

A partire da sinistra, in alto: Cosimo Surace (“u Patru”), ’Ntoni Saccà (“u Casettotu”), “mastro” Nino Spanto, Vincenzo Gabrotti, Nino Villari (“u Zoppareddu”, “Ngaiò”). In basso: Rocco Polimeni, Gaetano Comandè (“u Gattu”), Diego Forgione (“Mario”, “u Tornaru”), Franco Tripodi, Carmelo Pentimalli.

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Autopsia di un falso

Che il fascismo sia un prodotto commerciale capace ancora di “tirare”, è fuori di dubbio. Basti considerare il florido mercato di calendari e gadget dedicati al Ventennio. La simpatia per il duce attraversa come un fiume carsico la storia repubblicana italiana, riaffiorando ora sotto forma di proposta (sic) politica: nonostante il divieto di ricostituzione del partito fascista e il reato di apologia del fascismo, alcune manifestazioni, più o meno folcloristiche, sono eloquenti; ora come nostalgico e malinteso senso di orgoglio nazionale (“quando c’era lui”). Contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia liberale, sono convinto che il fascismo non costituisca una “parentesi” nel corso della storia italiana (il che avrebbe dovuto comportare, dopo la sua caduta, la naturale conseguenza di un ritorno all’Italia liberale). Il movimento fondato da Benito Mussolini appartiene in toto alla biografia italiana, è la conseguenza della presenza, per tutto il sessantennio post-unitario, di “germi patogeni” nella società e nelle istituzioni (teoria a cavallo tra quella liberale e quella ispirata al determinismo marxista, che ebbe fortuna negli ambienti azionisti). Non è azzardato ipotizzare che senza il 10 giugno 1940 e il disastroso esito del conflitto mondiale, il duce avrebbe probabilmente finito i suoi giorni nel proprio letto (come Francisco Franco in Spagna). La storia insegna che l’Italia è un Paese che periodicamente si lascia affascinare da uomini della Provvidenza ai quali affida acriticamente il destino della Nazione.
Non credo sia casuale l’ondata revisionista degli ultimi venti anni, tesa a presentare un dittatore dal volto “umano”, un pacifista vittima dell’alleanza “obbligata” con Hitler, amico degli ebrei e dotato di una sensibilità che gli consentiva, al massimo, di mandare gli oppositori politici “in villeggiatura al confino”.
L’operazione editoriale portata a termine da Elisabetta Sgarbi e Marcello Dell’Utri per conto della Bompiani va collocata in questo clima culturale. Pubblicare i “Diari” di Mussolini negli anni compresi tra il 1935 e il 1939, non può avere altre giustificazioni, se non quelle nostalgico-commerciale e revisionista. Perché i diari sono apocrifi, talmente falsi che lo stesso editore ha dovuto cautelativamente titolare l’opera I Diari di Mussolini [veri o presunti]. Il primo volume (1939), pubblicato nel 2010, è stato già smontato dallo storico Mimmo Franzinelli, il quale ha svelato la “bufala colossale” in Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (Bollati Boringhieri, 2011). Un’indagine rigorosa e certosina che stabilisce chi ha scritto materialmente i diari e dimostra in che modo essi sono pervenuti nelle mani del senatore Dell’Utri. Una storia giudiziaria nota e terminata nel 1962 con la condanna per truffa e falso delle due autrici (le vercellesi Rosetta e Mimì Panvini, mamma e figlia), dopo il bidone rifilato ad Arnaldo Mondadori. Da allora, le famose cinque agende della Croce Rossa sono state periodicamente proposte a editori italiani e europei, inutilmente, sino alla “scoperta” fatta da Dell’Utri in Svizzera.
Gli errori e le incongruenze storiche, puntualmente evidenziati da Franzinelli, si contano a iosa. I più eclatanti: alcuni eventi posticipati di ventiquattro ore, a dimostrazione che spesso la fonte è il resoconto pubblicato da qualche quotidiano il giorno successivo all’effettivo svolgimento dei fatti; i carri armati tedeschi “Tigre” citati con tre anni d’anticipo rispetto alla loro effettiva comparsa (1942); la data del compleanno del duce sbagliata; l’assenza dalle carte di alcuni personaggi del regime di primo piano (quelli che, evidentemente, all’epoca dell’estensione dei diari, non avevano ancora pubblicato memorie scritte). Franzinelli dimostra che il diario del 1939 è stato “costruito” utilizzando come fonti i giornali d’epoca, gli Scritti e discorsi di Benito Mussolini, pubblicati da Hoepli, il Diario di Galeazzo Ciano. Agli strafalcioni sintattici e agli anacronismi si aggiungono altre prove: l’analisi chimica dell’inchiostro, “incompatibile con quello in commercio prima della seconda guerra mondiale” (perizia del 1989); la perizia calligrafica del 1993 che ne dichiara “l’inattendibilità”; la scrittura troppo ordinata e lineare, come di chi stia copiando un testo; l’agenda stessa, che non è un’agenda “originale” della Croce Rossa.
La giustificazione dei fautori dell’autenticità degli scritti è indimostrabile. Sarebbero stati sì copiati, ma dagli originali. Quel che è certo, anche lo storico americano Brian Sullivan, per quasi trent’anni sostenitore della tesi dell’autenticità “postuma” del diario del 1939 (sarebbe stato cioè scritto negli anni della Repubblica di Salò per essere eventualmente utilizzato come memoria difensiva nel caso di un processo da parte degli Alleati), di fronte alle argomentazioni di Franzinelli ha cambiato opinione, allineandosi così con quanto sostenuto da tempo da tutti gli storici italiani.
Rimane l’irritazione per il degrado di alcuni settori della cultura italiana, disposti ad avallare un clamoroso tentativo di falsificazione della storia, un caso editoriale che diventa “anche” questione politica. La pubblicità ingannevole su LIBERO, che aveva anticipato l’uscita in fascicoli dei diari, promuovendoli con lo slogan “la storia scritta di suo pugno” o la recensione su IL GIORNALE (“ognuno potrà farsi un’idea, più o meno approfondita a seconda dei propri interessi, della autenticità delle carte”), si inseriscono nel solco della cronaca attuale, quella in cui fiction e realtà si mischiano al punto che risulta difficile separare il grano dal loglio.
La storia è però una cosa seria. Il libro di Franzinelli raccoglie la lezione che lo storico francese Marc Bloch, giustiziato dai nazisti nel 1944, ha scolpito in Apologia della storia (o mestiere di storico), laddove sostiene che compito dello storico è “difendere la storia dai suoi negatori, vecchi e nuovi”, attraverso la ricerca dell’impostore che si nasconde dietro l’impostura.

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La Giornata della Memoria

La memoria è un dovere e il modo migliore per commemorare l’Olocausto è affidarsi alle parole di chi c’era.
Perché non accada mai più.

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile.
Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità.

[Primo Levi, Se questo è un uomo, p. 23]

Di seguito, la testimonianza di Primo Levi raccolta da Enzo Biagi e riproposta ne Il Fatto, trasmissione di successo andata in onda sulla Rai dal 1995 al 2002, quando fu soppressa dall’“editto bulgaro”.

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Cultura, qualche proposta per i prossimi amministratori

Dopo la recensione al libro di Vittorio Visalli sui fatti d’Aspromonte, mi è stato chiesto dove sia possibile reperire l’opera dello storico eufemiese. Posso dire dove l’acquistai io. Al centro commerciale “La Perla” di Villa San Giovanni, quattro anni fa. Si trovava dentro un grande cesto di libri economici, lo notai per caso e fui attratto dal nome dell’autore. Del libro, non conoscevo l’esistenza. Ad essere sincero, neanche della casa editrice. Che nel frattempo ha cambiato denominazione e sede. Ora si chiama “Nuove edizioni Barbaro”, si trova a Delianuova ed è gestita da Caterina Di Pietro e Raffaele Leuzzi. Sul catalogo online, Aspromonte risulta esaurito, ma con un colpo di fortuna se ne potrebbe trovare copia in qualche libreria o edicola della provincia.
Visalli non è l’unico autore del quale la stragrande maggioranza dei suoi compaesani ignora le opere e financo l’esistenza. Ecco perché occorrerebbe un’operazione di recupero della memoria e della tradizione storico-culturale eufemiese. Personalmente, qualche volta ne ho parlato. Anche pubblicamente, come in occasione del convegno sul centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia organizzato dall’associazione “Terzo Millennio”. Così come ho più volte espresso un mio desiderio particolare, il rilancio del periodico “Incontri”, edito per tre lustri dall’associazione culturale “Sant’Ambrogio”. L’apprezzamento ricevuto non ha però finora prodotto iniziative concrete. La questione delle risorse economiche sembra insormontabile. Eppure non credo – tanto per fare un esempio – che la realizzazione di un’antologia eufemiese richieda una spesa insostenibile. Nella biblioteca comunale si trovano libri scritti da eufemiesi (non tanti, per la verità); altri sono facilmente consultabili presso la biblioteca “Topa” di Palmi; altri ancora sono in possesso di privati cittadini. La raccolta degli scritti più significativi di questi autori riporterebbe alla luce un patrimonio che molti ignorano e potrebbe inoltre rivelarsi un’operazione dall’alto contenuto sociale. Il rafforzamento delle ragioni stesse dello stare insieme di questa comunità.
Senza l’aiuto e la collaborazione di coloro che hanno a cuore le sorti di Sant’Eufemia, diventa però tutto più complicato. In primavera ci sarà il rinnovo del consiglio comunale. Non sarebbe male se nei programmi che verranno presentati agli elettori si parlasse anche di cultura. Negli scantinati del palazzo municipale c’è tutta la storia del comune, in documenti privi di alcuna catalogazione, non consultabili, esposti all’umidità e alla polvere. L’istituzione dell’archivio storico comunale potrebbe essere un punto qualificante per la futura amministrazione municipale.

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Garibaldi fu ferito. I fatti d’Aspromonte nella ricostruzione di Vittorio Visalli

Vittorio Visalli, lo storico nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e morto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931, è conosciuto principalmente per le opere I calabresi nel Risorgimento italiano e Lotta e martirio del popolo calabrese (1847-1848). Meno noto è invece il lavoro dedicato al ferimento di Giuseppe Garibaldi sull’Aspromonte, il 29 agosto 1862. Aspromonte, stampato per i “Tipi F. Nicastro” a Messina (1907), è un agile libretto di 74 pagine, suddiviso in nove capitoletti e un’appendice documentaria, che ripercorre il tentativo dell’Eroe dei Due Mondi di marciare su Roma per porre fine al potere temporale dei Papi e consegnare all’Italia la capitale naturale, interrotto tra i pini della località “Forestali” dalle truppe piemontesi del colonnello Emilio Pallavicini.
La particolare circostanza in cui il libro vide la luce induce al sospetto sulla sua reale diffusione e, di conseguenza, notorietà anche tra gli addetti ai lavori. “Una semplice e veritiera narrazione popolare del tentativo garibaldino su Roma” per “aiutare un’opera di alta beneficienza, la costruzione di un Sanatorio per tubercolosi” nel luogo del ferimento: così Visalli presenta il volume. Che non deve avere avuto molta fortuna, se non viene citato neppure dal massimo storico reggino, Gaetano Cingari, a differenza delle altre due pubblicazioni. A recuperare il volume dall’oblio ha però provveduto, nel 1995, l’editore Barbaro di Oppido Mamertina, che ne ha curato la ristampa anastatica. I piccoli editori sono perennemente con l’acqua alla gola, pronti a chiudere da un momento all’altro, né hanno la possibilità di sostenere un elevato battage pubblicitario. Più appassionati di storia e di storie che imprenditori, cercano l’equilibrio tra la quadratura dei conti e l’offerta di un prodotto apprezzabile. Nel caso di Aspromonte, è stata compiuta un’operazione di recupero del patrimonio culturale locale davvero encomiabile.
L’autore segue passo dopo passo Garibaldi e i suoi volontari nella sfortunata impresa, che inizia – è noto – con il consueto giallo all’italiana. C’era, come due anni prima (spedizione dei Mille), un tacito accordo tra il Generale e il governo piemontese? Di certo, nessuno dei protagonisti fece molto per fugare l’ambiguità. Visalli condanna senza appello la “pusillanimità” del presidente del consiglio Urbano Rattazzi, ma dà anche conto dei tentativi bonari di arrestare la marcia delle camicie rosse, portati avanti da deputati della Sinistra parlamentare, amici e commilitoni di Garibaldi (Nicola Fabrizi, Antonio Mordini, Salvatore Calvino, Giovanni Cadolini). Per la ricostruzione degli avvenimenti, lo storico eufemiese non solo si affida a diverse fonti (biografie e autobiografiche, orali, documentarie), ma le mette anche a confronto, operando un controllo incrociato necessario per distinguere l’agiografia e la retorica risorgimentale dalla verità storica. Viene così sconfessata la tesi di Alberto Mario sul presunto tradimento del sindaco di Melito, accusato ingiustamente di avere indotto Garibaldi a dirigersi sull’Aspromonte perché lì attendevano “patriotti in arme fremebondi e vettovaglia copiosa”. Un falso smentito peraltro dallo stesso Garibaldi, quando ammette di avere egli peccato di “irresoluzione”.
Francesco Guardione, Giulio Adamoli, Piero Mattigana, Giuseppe Guerzoni, Francesco Bideschini, Giacomo Durando, Jessie White Mario, Francesco Bertolini, Celestino Bianchi, Enrico Albanese, Salvatore Calvino, Giuseppe Romano Catania, Alberto Mario: testimoni che hanno tramandato nelle rispettive memorie l’epopea garibaldina (non solo i fatti d’Aspromonte), essendone stati protagonisti diretti. E poi lettere e documenti ufficiali, riportati in appendice, ma anche testimonianze orali, come quella di Francesco Melari, ufficiale medico garibaldino. Il libro si chiude con la caduta del gabinetto Rattazzi e l’amnistia concessa da Vittorio Emanuele II in occasione delle nozze tra la principessa Maria Pia e Luigi I di Braganza, re del Portogallo. Sullo sfondo, un Garibaldi eroe romantico, al quale va la simpatia dell’autore, che si sta ristabilendo dalla ferita e, seppure sconfitto, “riconsacra nel sangue” l’ineluttabilità e “la necessità di Roma italiana”.

Le spoglie di Visalli riposano al cimitero di Gioia Tauro. Sul marmo, l’epigrafe scritta dal fratello Luigi: “Qui fra i suoi riposa/ Vittorio Visalli/ figlio e nepote di Patriotti/ educatore degli educatori/ di varie generazioni/ che il glorioso passato/ di fede di azione e di martirio/ del popolo calabrese/ sottrasse a le ombre dell’oblio/ affidandolo a luce dei secoli MDCCCLIX–MCMXXXI”.

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