Nei loro occhi, la nostra storia

Cosa resterà di queste giornate di dolore, rabbia e parole? Quando le luci si abbasseranno e il sipario calerà sul sangue di Lampedusa, cosa avremo imparato da questa immane tragedia? Che è una “vergogna”, come tutti – ma proprio tutti, anche quelli che forse avrebbero fatto meglio a tacere – si sono affannati a concordare con papa Francesco? E che sì, è una vergogna: un po’ di indignazione e lacrime che presto asciugheranno, il tanto che basta per salvare le nostre coscienze di occidentali distratti?

Certo, molto è stato detto. L’Europa che pensa di scaricare sull’Italia il dramma dei migranti, la Bossi-Fini, il reato di clandestinità, il diritto di asilo e le regole sull’accoglienza dei naufraghi. L’assurdità di norme che condannano per favoreggiamento i pescatori in soccorso ai barconi abbandonati al largo con il loro carico di disperazione. L’atroce beffa toccata ai sopravvissuti, denunciati (“atto dovuto”) per immigrazione clandestina. Le condizioni drammatiche dei centri di accoglienza a Lampedusa e altrove, sovraffollati e invivibili nonostante l’umanità di operatori, volontari, cittadinanza, forze dell’ordine.

Tutto vero, tutto giusto. Tutto inutile se la questione dei migranti, da emergenza sociale e culturale, sarà sempre derubricata a problema di ordine pubblico. Perché, in quel caso, basterà stringere un patto con i paesi da cui salpano i pescherecci e il problema sarà risolto a monte. E pazienza se le violazioni su migranti e rifugiati politici in alcuni paesi sono all’ordine del giorno. Pazienza se la soluzione trasforma in cimiteri le strade che dal centro-Africa portano al Mediterraneo, come documentò qualche anno fa il giornalista Fabrizio Gatti in un reportage sulla fine che facevano gli immigrati respinti e restituiti alla Libia sulla base dell’accordo stretto tra Berlusconi e Gheddafi nel 2008.
Lampedusa è la punta dell’iceberg. Il trailer di un dramma dalle proporzioni inimmaginabili, con protagonista un’umanità dolente e in fuga da guerre e carestie che muore mentre lotta per attraversare il deserto del Sahara, o mentre sfida le onde del mare su legni di fortuna. Stragi di cui niente si sa, fino a quando non accadono a poche centinaia di metri dalle nostre coste. Cifre di una macabra contabilità da aggiornare quotidianamente.

Numeri che hanno un volto. Lo stesso volto dei nostri nonni e bisnonni affondati sul “Sirio” nel 1906; morti di colera, febbre gialla o tubercolosi nel girone dantesco di Ellis Island; assiderati sul confine francese, mentre tentavano di valicare clandestinamente le Alpi: “quando gli albanesi eravamo noi”, per dirla con il sottotitolo di L’orda, il libro che nel 2002 Gian Antonio Stella dedicò al nonno “Toni ‘Cajo’, che mangiò pane e disprezzo in Prussia e in Ungheria e sarebbe schifato dagli smemorati che sputano oggi su quelli come lui”. Dagos da linciare e impiccare ai lampioni delle strade, come successe nel 1891 a undici siciliani ingiustamente accusati di avere ucciso un poliziotto a New Orleans.

Pagine che andrebbero distribuite nelle scuole, con invito ai ragazzi di portarle a casa e farle leggere a quei genitori che non ne possono più di “tutti questi stranieri che vengono in Italia a rubare, spacciare e stuprare”. Affinché negli occhi impauriti dei naufraghi sopravvissuti riescano finalmente a scorgere un volto familiare; nella loro odissea, la nostra storia; nella negazione dei loro diritti, le nostre lotte per avere riconosciuta dignità di uomini.

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L’epigrafe di Visalli, lo stupore di Mico

Lì per lì Mico non capì cos’era quello strano oggetto che si intravedeva tra i calcinacci depositati dalla benna della ruspa dentro al cassone del suo vecchio OM Leoncino. Spense il motore, saltò a terra e con uno scatto fu tra i resti ammucchiati di quello che era stato un bel palazzo municipale, in seguito rimpiazzato con l’attuale freddo, insignificante edificio.

Un tubo d’acciaio lungo non più di quaranta centimetri, chiuso con un tappo metallico a una delle estremità. Svitò con cura e appoggiò l’occhio destro sul foro, tenendo il sinistro chiuso come quando si punta un cannocchiale verso il cielo, per sbirciare dentro. Quindi estrasse un foglio arrotolato, che aprì con entrambe le mani e tenne davanti al viso per pochi lunghi, interminabili secondi. L’orgasmo era quello del cacciatore di tesori alle prese con la decodificazione di una mappa.

Quel foglio “era” un tesoro. Ma nessuno tra i suoi concittadini lo sapeva, né ricordava l’esistenza di quella miniatura. Amministratori comunali per primi. Erano passati più di settant’anni da quando (luglio 1914) il notaio Pietro Pentimalli, sindaco di Sant’Eufemia, aveva fatto murare nelle fondamenta del palazzo in costruzione l’epigrafe composta dall’illustre concittadino Vittorio Visalli, il maggiore storico del Risorgimento in Calabria:

Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire.

V Luglio MCMXIV

Al termine di una polemica durata cinque anni, il paese distrutto dal terremoto del 28 dicembre 1908 stava infatti riprendendo a vivere, un po’ più a ovest rispetto al “Vecchio Abitato”, nella zona denominata “Pezza Grande”. Conciliare la posizione dei nostalgici del “Paese Vecchio” con quella dei fautori del traslocamento nei nuovi terreni da edificare non fu facile, tanto che più volte rischiò di scapparci il morto. Ma alla fine una soluzione si trovò. Merito del deputato reggino Giuseppe De Nava, che riuscì a mettere tutti d’accordo facendo approvare dal Parlamento un provvedimento che di fatto comportò l’abolizione del divieto di ricostruire nelle aree devastate dal terremoto. E che pertanto si guadagnò il diritto di apporre la prima firma sull’epigrafe di Visalli, in cima a destra, alla quale seguirono quelle del vescovo di Mileto, monsignor Giuseppe Morabito, di personalità di primo piano e degli amministratori eufemiesi, sindaco in testa. Il municipio fu però costruito al centro della “Pezza Grande”, in quella piazza “Garibaldi” (oggi piazza “Libertà”) che ben presto, a celebrazione della “marcia” su Roma, assunse – e mantenne per tutta la durata del Ventennio fascista – la denominazione di piazza “XXVIII ottobre”.

Dodici anni più tardi sarebbe toccato al deputato di origine paolana Maurizio Maraviglia, eletto nel “listone” nazionale del 1924 per la circoscrizione Calabria-Lucania, inaugurare il palazzo costruito dalla locale società cooperativa di produzione e di lavoro, presieduta da Pasquale Pisano. Una giornata memorabile, iniziata con l’arrivo a Sant’Eufemia del corteo delle macchine al seguito del gerarca fascista, giunto in treno alla stazione di Villa San Giovanni alle 9.30 del 7 marzo 1926. In compagnia del prefetto di Reggio Calabria Francesco Benigni, Maraviglia – nominato cittadino onorario di Sant’Eufemia – brindò con “vermouth d’onore” all’inaugurazione del palazzo municipale e dell’acquedotto comunale, prima di fare visita, nel pomeriggio, al cantiere della ditta del commendatore Giacomo Chiuminatto, che stava allora ultimando i lavori per la realizzazione della galleria e del ponte sulla ferrovia nel tratto eufemiese della linea “taurense”.

Per il pranzo dell’illustre ospite e del suo nutrito seguito aveva provveduto il podestà Diego Fedele: antipasto assortito, “consumato” alla regina, manzo e pollo con contorno di patate lesse, pesce bollito con salsa alla maionese o salsa verde, dessert, caffè, liquori, champagne. Da bere, vino locale. Al momento del brindisi risuonò stentorea la voce di Bruno Gioffrè, medico condotto, ma anche poeta e brillante oratore in occasione di nozze, commemorazioni di defunti, celebrazioni storiche.

Una storia sopravvissuta in rare fotografie dell’epoca. E in quel tubo d’acciaio, sepolto sotto le rovine del vecchio palazzo municipale, da Mico salvato per caso.

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Quella volta che i pettoti “rubarono” la statua di Sant’Eufemia

“Sa rrobbaru. Sa tinniru e non cia tornaru”. Quante volte l’abbiamo ascoltata (credendoci o scherzandoci su) la storia della statua di Sant’Eufemia “sottratta” dagli abitanti del rione Petto ai “legittimi” proprietari del Vecchio Abitato (o Paese Vecchio)?

Una leggenda metropolitana che affonda le radici nella notte dei tempi, ma che – come tutte le leggende – ha un fondo di verità.

In tanti sosterranno che si tratta di realtà, non di leggenda. Come un mantra ripeteranno antichissimi racconti, tramandati da padre in figlio e giunti freschi ai nostri giorni, carburante ancora buono per alimentare il sacro fuoco dei campanilismi. Che sono almeno tre, coincidente ognuno con un momento cruciale della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Snodi storici che videro protagonista la furia degli elementi più che la volontà degli uomini. Perché spesso soltanto gli eventi naturali sono in grado di deviare il corso di una storia che altrimenti scivolerebbe su prevedibilissime rotaie.

Per ogni rione, una campana e un migliaio di campanari. Com’è giusto che sia nella patria di Guicciardini.

Il primo campanile lo troviamo al Paese Vecchio, che fino al diciannovesimo secolo costituì il centro abitato di Sant’Eufemia. Proprio nell’area occupata dall’attuale piazza Concordia, anticamente, sorgeva il monastero di Sant’Eufemia, sui cui resti in seguito fu edificata la chiesa di Sant’Eufemia o chiesa Matrice, che viene segnalata – insieme ad altre tre chiese: San Rocco, San Giovanni, Santa Maria delle Grazie – nel resoconto della visita pastorale del 1586, il più antico a noi pervenuto.

Il terremoto del 5 febbraio 1783 (“u fracellu”), che provocò un migliaio di vittime e la distruzione di gran parte del paese, rappresenta la prima cesura storica significativa. Il progetto di ricostruzione realizzò un nuovo insediamento urbano nel pianoro del “Petto del Principe”, posto più in alto rispetto al vecchio centro. E proprio nell’attigua “Vigna di Belvedere”, che era grangia (per semplificazione, azienda agricola) del monastero di San Bartolomeo di Trigona, si trovava il baraccone nel quale si ritirarono i monaci sopravvissuti al terribile sisma. Lì sorse una chiesa dedicata alla protettrice (mentre la vecchia chiesa Matrice assunse l’attuale denominazione di chiesa del SS. Rosario), che nel 1856 fu riconosciuta come seconda chiesa parrocchiale di Sant’Eufemia, la prima essendo quella dedicata a Santa Maria delle Grazie.

Ma una ulteriore “mutilazione” gli abitanti del Paese Vecchio l’avrebbero subita in seguito al terremoto del 28 dicembre 1908. Poco meno di seicento vittime e duemila persone costrette a trasferirsi nella Pezza Grande (o Pezzagrande), dopo che finalmente fu raggiunto un compromesso tra i fautori della riedificazione nel Paese Vecchio e i propugnatori di una ricostruzione nel nuovo sito, fino ad allora aperta campagna. Protagonista dell’accordo fu il deputato reggino Giuseppe De Nava, il quale si fece garante della revisione della legge sulla definizione delle aree edificabili: ciò comportò l’edificazione del paese nell’area della Pezzagrande, ma anche la deroga al divieto di ricostruire nell’area del Vecchio Abitato.

Sono i due terremoti a cambiare il volto di Sant’Eufemia. E con esso, lentamente, la sua stessa natura e ragione d’essere. Due nuovi rioni, due nuovi campanili. E rivalità che attraversano la storia cittadina come un fiume carsico, presentando – periodicamente – la caratteristica di una inutile e anacronistica contrapposizione: a volte simpatica, certo; ma il più delle volte insopportabile.

La storiella del “furto” della statua di Sant’Eufemia fa parte di questo armamentario campanilistico. Proprio per questo viene raccontata con “dovizia” di particolari: il 16 settembre di un anno imprecisato, la processione partita dal Paese Vecchio sarebbe stata interrotta da un violento temporale che costrinse i fedeli a trovare riparo all’interno della chiesa al Petto, la quale – trascorse ventiquattro ore e sulla base di una legge non meglio specificata – sarebbe diventata ipso facto la nuova dimora della sacra effigie.

Un racconto incredibile, eppure creduto. È evidente, invece, che il trasferimento del culto nella nuova chiesa, dopo il 1783, dovette comportare anche il traslocamento della statua. Come peraltro afferma Vincenzo Francesco Luzzi nel suo contribuito (La comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna) al convegno storico su Sant’Eufemia d’Aspromonte organizzato dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio” nel 1990, i cui atti furono pubblicati a cura di Sandro Leanza, sette anni dopo.

È evidente, dicevamo. Ma non per tutti, se ancora una quindicina d’anni fa non pochi “fedeli” avrebbero voluto custodire la statua di Sant’Eufemia in un’abitazione privata invece di trasferirla temporaneamente presso la chiesa di Sant’Ambrogio, nella Pezzagrande, per la durata dei lavori di restauro che interessarono la chiesa al Petto. Perché poi, passate le ventiquattro ore, poteva accadere di tutto.
E invece non successe nulla.

*Nella foto, tratta dal profilo Facebook di Antonio Saccà, la spettacolare “entrata” di Sant’Eufemia sotto un tunnel di fuochi pirotecnici

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Il cavallo di Chiuminatto – Errata corrige

Nel corso della presentazione del libro fatta qualche giorno fa mi è sorto il dubbio di avere commesso una svista relativamente alla voce “via sergente Crea”.
Sono andato a controllare e in effetti è così. Il tratto di via sergente Crea che oggi ricade all’interno della Pineta comunale è compreso tra via Fimmanò e via De Nava. A pagina 48 del libro ho invece scritto “tra via Fimmanò e via tenente Tropeano” (che è la parallela sopra via De Nava).

Come potete vedere dalla foto, io ho già corretto l’errore.
Se volete, passo casa per casa e provvedo di mio pugno!

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Il cavallo di Chiuminatto alla pineta comunale

La presentazione del 18 maggio presso la sala del consiglio comunale si era svolta appositamente di mattina, per privilegiare la partecipazione dei ragazzi del liceo scientifico “Enrico Fermi”.

Già in quella occasione avevamo però preannunciato una replica da tenere nel mese di agosto, per dare la possibilità di essere presente a chi per impegni di lavoro aveva dovuto rinunciare, ma soprattutto per offrire una serata all’insegna della memoria ai tanti eufemiesi emigrati, che in questi giorni sono rientrati per trascorrere in paese le vacanze estive.

L’appuntamento quindi è per le 19.00 di domenica 11 agosto, al fresco della pineta comunale.

Vi aspetto

D.F.

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Mussolini, penultimo atto

Ore 22.45 del 25 luglio 1943: “Attenzione, attenzione. Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro segretario di Stato, presentate da S.E. il cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato capo del governo, primo ministro segretario di Stato, S.E. il cavaliere maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”. Con queste parole Titta Arista, speaker ufficiale del Giornale Radio, annunciava la fine del Ventennio fascista. Da un paio d’ore Mussolini era stato scaricato in una caserma dei carabinieri di via Legnano, proveniente da Villa Savoia, dove alle 16.15 di quel pomeriggio aveva avuto un colloquio con Vittorio Emanuele III al termine del quale era stato fermato e fatto salire (per “motivi di sicurezza”) su un’autoambulanza della Croce Rossa.

Nel corso della precedente notte, alle 2.40, il gran consiglio del fascismo convocato alle 17 di giorno 24 nella sala del Pappagallo, dopo quasi dieci ore di riunione aveva approvato l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, con il quale si invitava “il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere, con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a lui attribuiscono, e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra augusta Dinastia di Savoia”.

Da tempo il re, con i vertici dell’esercito, spingeva per la soluzione traumatica. Un tentativo disperato di separare i destini dell’Italia (e della monarchia) da quelli politici e personali di Mussolini. L’esito della guerra era ormai compromesso. Nonostante l’eroismo dei militari italiani ad El-Alamein, il fronte nord-africano era in mano alleata da otto mesi; ai primi di luglio (dopo la “resa” di Pantelleria, 8-11 giugno), il successo dell’operazione “Husky” aveva prodotto lo sbarco dell’esercito anglo-americano in Sicilia; la crisi economica, la difficoltà dei trasporti e dei rifornimenti, la penuria dei generi razionati e i continui bombardamenti sulle città avevano ridotto allo stremo la popolazione, alimentandone il senso di sfiducia nei confronti del regime.
All’interno del partito nazionale fascista cominciava a tirare aria di fronda, anche se i gerarchi andavano in ordine sparso nei loro tentativi di agganciare personalità dell’esercito e membri della corte. L’iniziativa di Dino Grandi riuscì a mettere (quasi) tutti d’accordo, pochi giorni dopo il primo vero bombardamento di Roma, che creò notevole impressione tra i vertici del fascismo e i membri del governo. Tre gli ordini del giorno presentati alla riunione: quello di Grandi, quello di Roberto Farinacci (favorevole ad un rapporto ancora più stretto con la Germania nazista), quello del segretario del Pnf Carlo Scorza. Con 19 voti a favore, sette contrari e un astenuto, l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi costituiva finalmente il “mezzo costituzionale” che restituiva al sovrano le prerogative di capo politico supremo e di comandante delle forze armate e consentiva di ottenere “legalmente” le dimissioni di Mussolini.

In realtà, non mancò chi parlò di “colpo di Stato monarchico”. La legge del 9 novembre 1928 che costituzionalizzava il gran consiglio del fascismo, istituito sin dal dicembre del 1922 per fungere da “camera di compensazione” (Alberto Aquarone) necessaria a Mussolini per controllare il “rassismo” delle province e tracciare le linee guida riducendo a una le tendenze interne al partito, all’articolo 13 stabiliva infatti che la nomina del successore del duce spettava alla Corona, su proposta del gran consiglio: procedura che doveva così garantire la perpetuità del regime e che, in definitiva, incarnava la ratio stessa della costituzionalizzazione del gran consiglio.
D’altro canto, gli articoli 5 (“Al Re solo appartiene il potere esecutivo”) e 65 (“Il Re nomina e revoca i ministri”) dello Statuto albertino, di fatto, non erano mai stati abrogati, nonostante lo scempio delle prerogative costituzionali e delle libertà individuali e collettive. Così come l’intera Carta “concessa” ai piemontesi da Carlo Alberto il 4 marzo 1848 e adottata dallo Stato unitario il 17 marzo 1861.
Scempio consentito dal carattere “flessibile” della Carta costituzionale, che poteva essere modificata per via ordinaria, senza il ricorso cioè a un procedimento di revisione aggravato, quale quello previsto (non a caso) dall’art. 138 della Costituzione repubblicana. E che portò alla realizzazione del progetto di “abolizione delle garanzie statutarie, simulando il rispetto dello Statuto” (Piero Calamandrei). Ma anche a causa della prassi consolidatasi già in età liberale e alla base della teoria dei “germi patogeni”, elaborata negli ambienti azionisti e repubblicani, secondo la quale con il regime fascista ci fu un cambiamento nella quantità – non nella qualità – delle violazioni dei diritti sanciti dallo Statuto, che si erano verificati a partire dal 1848.
Per cui, se colpo di Stato vi fu, si trattò di un colpo di Stato tutto interno al regime fascista. “Signori, con questo voto avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta”, il lapidario commento finale del duce.

Si concludeva così l’esperienza storica del fascismo in Italia, che ebbe una coda dolorosa e tragica nei 600 giorni della Repubblica di Salò, Stato fantoccio a capo del quale Hitler collocò lo stesso Mussolini, ormai all’ultimo atto della sua esperienza politica e umana, dopo averne organizzato la fuga da Campo Imperatore, sul Gran Sasso.

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Il cavallo di Chiuminatto sulla Gazzetta del Sud

Grazie al bel lavoro pubblicato dallo studioso Domenico Forgione

Adesso S. Eufemia d’Aspromonte conosce per intero la sua storia

– di Giuseppe Fedele [Gazzetta del Sud, 23 giugno 2013]

La sala consiliare del palazzo municipale ha ospitato la presentazione dell’ultima opera di Domenico Forgione, “Il cavallo di Chiuminato” – Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, edito da Nuove Edizioni Barbaro di Caterina Di Pietro. Dottore di ricerca, giornalista pubblicista e blogger, con interessi per la storia e la letteratura, il volontariato, la politica e lo sport, già autore de “Il ’68 a Messina” (1999), “Fascismo e Prefetti a Catanzaro 1922-1943” (2005), e “Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922” (2008), Domenico Forgione ha dedicato la sua ultima opera al prof. Rosario Monterosso, che fu suo docente al liceo ma soprattutto suo maestro di vita, di recente scomparso, ed ai fratelli Mario, «che da queste strade è partito», e Luigi, che in questa cittadina è tornato.
Con la pubblicazione de “Il cavallo di Chiuminatto” – Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, il cui contenuto è costituito da vicende vere che messe insieme formano la storia vera della città, lo scrittore ha inteso mettere a disposizione dei propri concittadini il frutto delle sue ricerche stimolandoli, così, a recuperare ricordi, personaggi e memorie della loro comunità, spesso non conosciuti. Come nel caso del Chiuminatto riportato nel titolo del libro, che altri non è se non il nome del titolare della ditta che, in territorio di S. Eufemia d’Aspromonte, costruì il ponte in ferro e la galleria nel tratto ferroviario che collegava Gioia Tauro a Sinopoli.

L’opera di Forgione, sulle strade, i toponimi delle strade e le storie dei personaggi che naturalmente i toponimi sottintendono, è un affresco degli ultimi tre secoli di storia del paese. Naturalmente, accanto ai toponimi delle strade e alla storia dei personaggi, c’è anche un riferimento specifico a usi e costumi del paese, agli antichi mestieri che non ci sono più ed anche naturalmente al modo di vivere che si è evoluto nel tempo e che comunque è stato fotografato nel libro dall’autore. In definitiva, “Il cavallo di Chiuminatto” costituisce un complesso di storia nazionale mista a storia locale per cui, ad un certo punto, ci si imbatte in una panoramica sul Risorgimento e sull’apporto che ad esso è stato dato dagli eufemiesi, impegnati eroicamente anche nella grande guerra.

Pur senza fornire ulteriori anticipazioni e approfondimenti, al termine della cerimonia di presentazione Domenico Forgione ha annunciato l’imminente pubblicazione di una nuova opera da lui realizzata assieme al prof. Giuseppe Pentimalli, autore fra l’altro del “Vocabolario ragionato del dialetto femijotu”.

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Il cavallo di Chiuminatto. La recensione di Antonio Ligato (Gazzetta del Sud)

È raccontata ne “Il cavallo di Chiuminatto” di Domenico Forgione
Una storia che sottrae all’oblio i nomi di tanti eufemiesi illustri 
– di Antonio Ligato  (“Gazzetta del Sud”, 20 giugno 2013 – Pag. 23)

Si deve ad Aurelio Rigoli, etnologo dell’Università di Palermo, la definizione, che è esplicativa di un nuovo modo di fare storia: «etnostoria» come metodo d’indagine storica che utilizza tutte le fonti a disposizione dello studioso, non soltanto quelle “ufficiali”, ma anche quelle sommerse degli archivi comunali e delle chiese, delle carte private delle famiglie illustri, senza trascurare le fonti orali, la cultura e la sapienza popolare. Anche Cesare Pavese, aveva scritto che un paese senza la provincia non ha nerbo. Queste considerazioni ci vengono in mente leggendo il volume di Domenico Forgione, dottore di ricerca, giornalista pubblicista, fresco di stampa: Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte (Nuove Edizioni Barbaro di Caterina Di Pietro, Delianuova (RC) Aprile 2013). Partendo dall’espressione «Poti quantu o cavaddu i Chiuminati» riferito ai cavalli impiegati, negli anni Venti, per i lavori di costruzione del ponte della ferrovia e della galleria, nel tratto eufemiese delle linee Taurensi, eseguiti dalla ditta genovese di Giacomo Chiuminatto, il testo di Forgione dimostra che accanto agli storici di professione c’è un esercito di storici locali. Costoro, con pazienza, scavano negli archivi dimenticati dei paesi e delle parrocchie, inseguono indizi, e rispolverano pagine dimenticate di storia. Non si tratta soltanto di storia locale, di «microstoria», perché essa si intreccia con la «macrostoria», la integra e spesso la corregge. Così Forgione non si limita a pubblicare uno stradario di Sant’Eufemia. Attraverso i nomi delle strade ricostruisce, innanzitutto, la storia di una comunità, che gli stessi abitanti del luogo non conoscono. A tutti è capitato di imbattersi nel nome di una strada e di non saper risalire al riferimento storico ch’esso senz’altro contiene. Così emergono dall’oblio i nomi di tanti eufemiesi illustri con le loro vicende: Carlo Muscari, uno dei quindici calabresi giustiziati a piazza Mercato dopo il fallimento della rivoluzione napoletana del 1799 e la caduta della Repubblica Partenopea; Ferdinando De Angelis Grimaldi, graduato dell’esercito borbonico, napoleonico e nuovamente borbonico ai primi dell’Ottocento, guardia urbana e sindaco di Sant’Eufemia, comandante dell’esercito della Terza Divisione calabro-sicula durante i moti del 1848 e in quanto tale condannato a morte in contumacia; Michele Fimmanò, protagonista assoluto della storia politica e amministrativa del Comune di Sant’Eufemia per sessant’anni; Luigi Cutrì, maggiore dell’esercito ed eroe della prima guerra mondiale; Bruno Gioffrè, medico condotto, poeta, e testimone diretto del terremoto del 1908; Vittorio Visalli, lo storico più autorevole del Risorgimento in Calabria. Agli avvenimenti storici si alternano gli aneddoti particolari, le piccole curiosità, che consentono di ricostruire il costume di un tempo e fanno “rivedere” il paese così com’era cinquanta, cento, centocinquanta anni fa, con il suo mercato, i suoi artigiani, i suoi cinema, la sua vita economica, culturale, sociale. Dalla rivisitazione compiuta da Domenico Forgione emergono pure pagine semisconosciute di letteratura eufemiese. La sua opera, già per tutto questo, sarebbe encomiabile. Ma essa va oltre, perché attraverso le vicende dei vari personaggi locali evocati con maestria si risale ai grandi avvenimenti storici del Risorgimento, della prima guerra mondiale, dei decenni successivi, ai quali la Calabria ha senz’altro dato un notevole contributo. Il volume di Domenico Forgione rappresenta, in conclusione, un valido esempio di quel metodo «etnostorico» ben delineato da Aurelio Rigoli.

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Il cavallo di Chiuminatto sul mensile La Piana

Presentato a S. Eufemia d’Aspromonte un pregevole libro di Domenico Forgione 

L’aula consiliare del municipio di Sant’Eufemia d’Aspromonte ha ospitato il quinto appuntamento di “Pagine di storia”, attività culturale fortemente voluta dall’amministrazione comunale guidata da Domenico Creazzo, che nell’occasione ha promosso la presentazione del libro scritto dallo storico eufemiese Domenico Forgione, edito ad aprile dalla casa editrice Nuove edizioni Barbaro di Delianuova: “Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte”.
Ha aperto l’incontro il moderatore della manifestazione Cosimo Petrolino, che ha sottolineato la caratteristica più importante del volume, lo studio della toponomastica come strumento per fare opera di memoria, utile per conservare e tramandare alle future generazioni un patrimonio culturale e sociale che altrimenti andrebbe disperso. Subito dopo, i saluti del primo cittadino eufemiese, che ha assicurato il pieno appoggio a tutte quelle iniziative che mirano alla valorizzazione delle competenze e delle professionalità locali.
Un’attitudine che di recente l’Amministrazione comunale ha in un certo senso “istituzionalizzato” con la creazione della Consulta comunale, che entro l’estate dovrebbe essere pienamente operativa.
L’editore Raffaele Leuzzi si è invece soffermato sul valore didattico delle pubblicazioni di carattere regionale, provinciale e comunale, dato che i libri di scuola “ufficiali” ignorano completamente la dimensione locale della storia e, per alcuni versi, anche della letteratura: un settore nel quale si è ormai da tempo specializzato Nuove edizioni Barbaro, con le ristampe anastatiche di pregevoli e introvabili opere di autori calabresi del Novecento.
E’ seguita poi la presentazione vera e propria del volume, curata dal professore Giuseppe Pentimalli, autore del “Vocabolario del dialetto femijotu” e dal professore Francesco Arillotta, deputato di storia patria per la Calabria, che ha sottolineato il valore scientifico del volume, realizzato sulla base di una corposa documentazione archivistica e bibliografica e l’importanza storica dell’evento. “Il libro – ha detto Arillotta – è un atto d’amore che Forgione manifesta nei confronti del suo paese; ma è soprattutto un regalo fatto all’intera comunità che fa riscoprire il senso di identità, l’orgoglio di sentirsi eufemiesi e l’importanza di coltivare la memoria collettiva”. Un concetto che Arillotta aveva già sottolineato nella stessa prefazione del libro: “Troviamo la dimostrazione che ‘toponomastica’ non è solo ‘nomi di strade’. Dietro quelle scritte, spesso modeste, in nerofumo, o appena leggibili, ci sono sempre storie importanti, che ‘devono’ essere raccontate, perché ‘devono’ essere ricordate”.
In conclusione, l’intervento dell’autore, commosso quando ha voluto dedicare la manifestazione alla memoria del professore Rosario Monterosso, suo docente ai tempi del liceo, scomparso nel novembre del 2012.
Forgione ha ripercorso la “marcia di avvicinamento” alla pubblicazione del libro, dall’elaborazione dell’idea, allo sviluppo della ricerca, alla stesura finale, sottolineandone gli aspetti “curiosi” ma anche le difficoltà che non sono poche quando si tratta della individuazione e della fruizione del materiale documentario locale. Infine il senso della pubblicazione: “Il libro – ha detto – è la tessera di un mosaico più grande che è la storia di Sant’Eufemia. Dare il mio contributo per ricostruirla e restituirla agli eufemiesi (uso volutamente il verbo “restituire”, perché la storia è di tutti, non di chi la scrive) è per me motivo di grande orgoglio”.

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Il cavallo di Chiuminatto su Calabria Ora

“Il cavallo di Chiuminatto”

«Restituito un pezzo di storia»

Presentato il libro di Forgione sulle antiche strade di Sant’Eufemia

SANT’EUFEMIA – Quinto appuntamento di “Pagine di storia”, attività culturale fortemente voluta dall’amministrazione comunale guidata da Domenico Creazzo, che nell’occasione ha promosso la presentazione del libro “Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte”, scritto dallo storico eufemiese Domenico Forgione, edito dalla casa editrice Nuove edizioni Barbaro di Delianuova.
«La caratteristica più importante del volume – ha esordito il moderatore Cosimo Petrolino – è lo studio della toponomastica come strumento per fare opera di memoria, utile per conservare e tramandare alle future generazioni un patrimonio culturale e sociale che altrimenti andrebbe disperso».
Il primo cittadino eufemiese, Domenico Creazzo, nell’assicurare pieno appoggio a tutte quelle iniziative che mirano alla valorizzazione delle competenze e delle professionalità locali, ha ricordato la creazione della Consulta comunale, che entro l’estate dovrebbe essere pienamente operativa.

L’editore Raffaele Leuzzi si è invece soffermato sul valore didattico delle pubblicazioni di carattere regionale, provinciale e comunale, «dato che i libri di scuola “ufficiali” ignorano completamente la dimensione locale della storia e, per alcuni versi, anche della letteratura».
E’ seguita poi la presentazione del volume, curata dal professore Giuseppe Pentimalli, autore del “Vocabolario del dialetto femijotu” e dal professore Francesco Arillotta, deputato di storia patria per la Calabria: «il libro è un atto d’amore che Forgione manifesta nei confronti del suo paese; ma è soprattutto un regalo fatto all’intera comunità, che fa riscoprire il senso di identità, l’orgoglio di sentirsi eufemiesi e l’importanza di coltivare la memoria collettiva».

In conclusione, l’intervento dell’autore, che ha dedicato la manifestazione alla memoria del professore Rosario Monterosso, suo docente ai tempi del liceo, ha affermato: «Il libro è la tessera di un mosaico più grande, che è la storia di Sant’Eufemia. Dare il mio contributo per ricostruirla e restituirla agli eufemiesi (uso volutamente il verbo “restituire”, perché la storia è di tutti, non di chi la scrive) è per me motivo di grande orgoglio».

[Calabria Ora, 25 maggio 2013, pagina 22 dell’edizione della provincia di Reggio Calabria]

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