L’eufemiese Ferdinando De Angelis Grimaldi e i moti del 1848

La partecipazione eufemiese ai moti del 1848 è legata indissolubilmente all’opera di Ferdinando De Angelis Grimaldi, figlio di Tommaso e Caterina Violi, nato a Sant’Eufemia il 10 settembre 1787. Già volontario nell’esercito borbonico nei primi anni dell’Ottocento, De Angelis Grimaldi aveva poi proseguito la carriera militare sotto il regno di Giuseppe Bonaparte e con Gioacchino Murat, al servizio del quale il 23 aprile 1815 partecipò alla “battaglia di Radicena e Casalnuovo” contro briganti e borbonici, che si concluse con un bilancio di 53 morti e 150 feriti. Dopo il ritorno dell’ancien régime rientrò tra i ranghi del restaurato esercito borbonico, come attesta la qualifica di “capitano onorario” annotata nell’Almanacco reale del Regno delle Due Sicilie per l’anno 1819.
Esponente di punta dei liberali moderati a Sant’Eufemia, fu sindaco dal 1837 al 1842, successivamente “capo urbano” e, dal 1848, capo della Guardia nazionale del comune. Nel biennio 1847-1848 svolse un ruolo di primo piano per la causa risorgimentale, attestato dalla corrispondenza con i promotori reggini dei moti, in particolare con i fratelli Romeo di Santo Stefano, dai quali ricevette l’incarico di comporre la cosiddetta “lista di insorgenza”, un elenco di uomini disposti ad unirsi alle squadre degli insorti.
De Angelis Grimaldi si muoveva nell’alveo del riformismo costituzionale borbonico, fautore dell’evoluzione in senso liberale della monarchia di Ferdinando II. Una finalità che niente aveva a che vedere con la jacquerie del 13 maggio 1848, quando a Sant’Eufemia i rivoltosi occuparono il municipio, deposero il sindaco Antonino Lupini e tentarono di dare fuoco ai registri della fondiaria. In quella circostanza, fu proprio l’intervento di De Angelis Grimaldi e delle sue guardie urbane a ristabilire l’ordine nello spazio di due giorni.
Il giro di vite imposto dal governo borbonico con il “colpo di stato” del 15 maggio, fece però mutare la natura della rivolta. A Reggio Calabria presero l’iniziativa i fratelli Plutino, Stefano Romeo e Casimiro De Lieto, i quali organizzarono il quartier generale del comitato reggino sui “Piani della Corona”. Il 19 giugno circa 150 insorti furono accolti a Sant’Eufemia da De Angelis Grimaldi, il quale li condusse nei paesi limitrofi per il reclutamento di altri volontari. Il proclama emesso il 24 giugno a Santa Cristina e rivolto ai “Fratelli Calabresi” ribadiva ancora il carattere costituzionale e liberale dell’insurrezione, nel solco del neoguelfismo giobertiano: «Rispettate la religione cristiana, e gridate con voce unanime: vogliam conservata la costituzione, colle modifiche che i nostri rappresentanti saran per fare». Ma, già il giorno dopo, un altro proclama sanciva lo strappo definitivo da Ferdinando II: «È rotto ogni vincolo tra il tiranno e il popolo […]. Il Borbone siede sopra un trono lavato di sangue e i Calabresi questa volta non sono indulgenti come prima ai di lui vantaggi».
La tipografia degli insorti fu allestita a Sant’Eufemia presso l’abitazione dei fratelli Pietro e Paolo Parisi. Alla fine del giro tra i paesi aspromontani, circa 500 volontari costituirono un “Comitato provvisorio di pubblica sicurezza”, presieduto da Casimiro De Lieto: Plutino e Romeo furono nominati segretari, Pasquale Cuzzocrea cassiere; a De Angelis Grimaldi fu invece affidato il comando della Terza divisione dell’esercito calabro-siculo.
Il bollettino diramato il 28 giugno spiegava l’obiettivo dell’insurrezione: «I Deputati qui sottoscritti, tenuta presente la protesta fatta dal Parlamento alli 15 maggio ultimo, ed atteso l’urgente bisogno di tutelare la libertà nazionale contro un governo violatore manifesto dello statuto fondamentale e provocatore dell’anarchia e della guerra civile, han risoluto di riunirsi qui in Sant’Eufemia nella Casa Comunale in Comitato permanente di pubblica sicurezza per la provincia di Reggio Calabria. […] Questo Comitato prende sotto la sua tutela la conservazione dell’ordine pubblico, la sicurezza dei cittadini e della proprietà e il rispetto delle leggi».
Un cannone, armi e munizioni furono trasportate al campo militare. Tuttavia, la compagnia di De Angelis Grimaldi non prese parte ad alcuna operazione, anche perché i rinforzi attesi dalla Sicilia non arrivarono. Gli insorti tentarono di congiungersi con il reparto catanzarese a Monteleone, ma lungo la strada furono avvisati della vittoria borbonica nella battaglia dell’Angitola. De Angelis Grimaldi decise quindi di sciogliere l’accampamento, accompagnò un’ottantina di volontari siciliani a Bagnara per farli da lì imbarcare e infine si diede alla macchia sull’Aspromonte con pochi fedelissimi, tra questi i nipoti Filippo e Saverio. Condannato a morte nel 1849, unico tra i patrioti eufemiesi, riuscì a riparare all’estero: prima a Marsiglia, poi a Mentone. Subirono gravi condanne anche i tre fratelli Visalli: diciannove anni di carcere Paolino e Ottaviano (papà dello storico Vittorio), sette Vincenzo. Una condanna di diciannove anni fu inoltre comminata a Francesco Pentimalli, Pietro e Antonino Parisi. Per tutti gli altri (una trentina), le pene oscillarono tra i tre e i sette anni.
De Angelis Grimaldi rientrò in Italia nel 1862, a processo di unificazione nazionale completato. Nel 1865 fu a un passo dalla candidatura per il Parlamento nazionale, che non si concretizzò nonostante le informazioni positive raccolte dal prefetto di Reggio Calabria. Già vecchio e malato fu invece eletto consigliere comunale a Sant’Eufemia. Morì nella sua abitazione in via Belvedere l’11 agosto 1868, “venerato e compianto”, secondo quanto riportato da Vittorio Visalli nel suo I Calabresi nel Risorgimento italiano.

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Il trovatello Giuseppe Silvani, sconosciuto eroe di Sant’Eufemia

Della prima guerra mondiale si è detto tutto. Fiumi d’inchiostro versati dagli storici per ricostruire le battaglie ed elaborare le statistiche dell’inutile strage. Eppure qualcosa di nuovo, se si continua a cercare, ancora salta fuori. Storie minime, piccole storie dentro la storia grande. Quelle sconosciute dei tantissimi giovani anonimi catapultati dai posti più sperduti dell’Italia nelle trincee del Carso, per combattere una guerra di posizione della quale niente sapevano. Costretti, nel nome della Patria, a patire il freddo e la neve, a lottare con il fango e con i pidocchi, a soffrire la fame e le malattie. Nelle narici il fetore nauseabondo dei corpi in decomposizione dell’orrenda carneficina voluta dalla follia dei comandi militari, il costo umano di poche decine di metri di linea del fronte guadagnate ad ogni offensiva e puntualmente perse nel volgere di pochi giorni.
Di questi eroi per caso poco si sa, soldati analfabeti che non hanno lasciato diari, testimonianze, tracce delle loro esistenze. Per immaginare qualcosa della loro esperienza bellica occorre pertanto affidarsi alle scarne informazioni riportate sulle schede dell’Ufficio notizie e nei ruoli militari. Può capitare così di imbattersi in soldati che, prima di essere spediti al fronte, dovettero subire un processo per diserzione: giovani emigrati all’estero che non avevano risposto per tempo alla chiamata alle armi, ma che rientrarono in Italia e regolarizzarono la propria posizione, svolgendo prima l’addestramento e poi finendo nelle zone dichiarate in stato di guerra.
Anche tra i soldati eufemiesi vi fu chi rimpatriò per servire il Paese “con fedeltà ed onore”. Sfogliando le carte dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria, in particolare una storia mi ha colpito più di altre: quella di Giuseppe Silvani, numero di matricola 42357. Un cognome mai udito a queste latitudini ha una sola spiegazione, riportata nel ruolo: “figlio di N.N. e di N.N”. Insomma, un trovatello per il quale la semplice verifica presso lo stato civile del comune fuga il dubbio di un possibile errore nell’indicazione della provenienza.
Giuseppe Silvani nasce proprio a Sant’Eufemia, il 20 febbraio 1893. Dopo qualche giorno sarà Grazia Borrello (“di anni quaranta, pia ricevitrice dei trovatelli”) a raccoglierlo dalla “ruota” del comune, dove presumibilmente la madre l’aveva lasciato. Fino ai primi anni del Novecento anche a Sant’Eufemia funzionò infatti la cosiddetta “ruota degli esposti”, che accoglieva i neonati abbandonati dai genitori per diverse ragioni: figli della vergogna o bimbi ai quali i genitori non erano in grado di garantire nemmeno la sussistenza. I neonati venivano portati di notte nella “ruota”: appena udita la campanella, chi si occupava del servizio la faceva girare verso l’interno, apriva lo sportello e prestava le prime cure all’innocente fagotto tratto in salvo.
Il bambino raccolto da Grazia Borrello – si legge nell’atto di nascita redatto dall’ufficiale di stato civile, nonché sindaco, Antonino Condina Occhiuto – “era avvolto in pochi pannilini [panni ottenuti da lenzuola, camicie, tovaglie] bianchi, con le braccia sciolte e col capo coperto da una cuffietta anche bianca. Fra i pannilini che l’avvolgevano fu trovato un biglietto colla scritta seguente: Questo trovatello si chiama Giuseppe. In vista di che ho imposto il nome Giuseppe ed il cognome Silvani. E poiché in questo Comune manca un pubblico ospizio pei fanciulli abbandonati, ho consegnato il predetto bambino alla locale Congregazione di Carità, la quale avrà cura di affidarlo a buona e onesta nutrice perché l’allevasse”.
Non sappiamo chi abbia allevato il piccolo Giuseppe. Sappiamo però che appena giovinetto egli prende la via del mare, come molti suoi coetanei in cerca di fortuna Oltreoceano. Ha appena vent’anni quando sbarca ad Ellis Island il 15 marzo 1913, dopo la traversata a bordo della “Madonna”, una nave a due alberi capace di trasportare 1364 passeggeri. La chiamata dell’esercito arriva proprio mentre si trova negli Stati Uniti, per cui Silvani non riesce a giungere nella caserma di destinazione entro il termine stabilito. Dichiarato disertore e denunziato al tribunale militare di Bari, una volta rientrato in Italia si costituisce presso il distretto di Reggio Calabria (11 dicembre 1914) e viene lasciato a piede libero in attesa di giudizio. A fine anno la commissione d’inchiesta dichiara il non luogo a procedere per inesistenza del reato, cosicché il 1° gennaio 1915 Silvani inizia l’addestramento nel 41° Reggimento Fanteria e, con l’entrata in guerra dell’Italia, si ritrova sul Carso. In prima linea nella decima battaglia dell’Isonzo con il 1° Reggimento Fanteria, viene ferito alla coscia destra da un colpo d’arma da fuoco sul monte San Marco (23 maggio 1917). Dopo la convalescenza è nuovamente nei campi di battaglia e, l’11 agosto 1918, è protagonista di un’operazione audace che gli vale la medaglia di bronzo al valor militare, con la seguente la motivazione: «Volontario in un’ardita pattuglia riusciva, con grande ardimento e sprezzo del pericolo, a raggiungere una forte posizione nemica e, dopo una violenta lotta corpo a corpo, cooperava alla cattura di alcuni prigionieri che trascinava nelle nostre linee. Monte Asolone quota 1440».
Una medaglia che Silvani mai riceverà, così come le altre due conferitegli alla fine del conflitto: quella “Commemorativa della Guerra 1915-18”, istituita con R.D. 1241 del 25 luglio 1920, e quella “Interalleata della Vittoria”, istituita con R.D. 1918 del 16 dicembre 1920.
Il 20 aprile 1920 Giuseppe Silvani è infatti già nuovamente negli Stati Uniti, appena sbarcato dalla nave “Pannonia”. Qui si perdono le sue tracce e in suolo americano, con ogni probabilità, Silvani morirà, figlio di nessuno ed eroe sconosciuto ai suoi stessi concittadini.

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L’eufemiese Carlo Muscari, martire della rivoluzione napoletana del 1799

Carlo Muscari, figlio di Francesco e Lavinia Pugliatti, nacque a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 17 marzo 1770. Il ramo paterno apparteneva ad una ricca ed aristocratica famiglia di proprietari terrieri originaria di Melicuccà, che si era trasferita a Sant’Eufemia alla fine del XVII secolo, mentre la madre era una nobildonna reggina. Tra i suoi avi si segnalano un Mercurio Muscari laureatosi a Napoli in diritto pontificio e civile nel 1694 e Giuseppe Maria Muscari (1713-1793), “legato in affettuosa amicizia con Papa Braschi” (Pio VI), che fu procuratore generale dell’Ordine di San Basilio e rettore del convento eufemiese di San Bartolomeo, andato distrutto nel terremoto del 1783 (circostanza nella quale perì anche Francesco Muscari), quando già da due anni era abate perpetuo della chiesa di San Basilio a Roma. E proprio alle cure dello zio paterno fu affidato il giovane Carlo, che nella capitale pontificia compì gli studi umanistici prima di trasferirsi a Napoli, dove si laureò in legge e dove già si trovava il fratello maggiore, avvocato Giuseppe, che curò la formazione anche di un altro fratello, Gregorio: sia Giuseppe che Gregorio furono successivamente autori di opere di diritto molto apprezzate. Nella capitale partenopea, allo scoppio della rivoluzione, i tre furono raggiunti dal quarto dei fratelli, Mercurio.
Nel lavoro dedicato alla massoneria nel Regno delle Due Sicilie, Ruggiero Di Castiglione sottolinea l’adesione di Carlo a una delle logge massoniche fondate dall’abate Antonio Jerocades e il suo coinvolgimento in una congiura giacobina che nel 1794 gli procurò l’arresto e la reclusione nel carcere della Vicaria per “asportazione d’armi proibite, bestemmie, miscredenze, violenze ed altri eccessi”, oltre che per il possesso di “alcuni libri sediziosi francesi”.
Dopo la proclamazione della repubblica napoletana e la costituzione del governo provvisorio degli insorti, Carlo fu tra i sette membri della “Commissione pel piano delle Finanze” e capitano della II Compagnia della Guardia nazionale repubblicana, della quale faceva parte anche un altro eufemiese, il futuro medico Gaetano Capoferro, allora studente presso l’Università di Napoli. Il 20 gennaio 1799 partecipò alla presa del castello di Sant’Elmo, si distinse nelle operazioni che portarono all’arresto di numerosi seguaci del regime borbonico e infine fu trasferito alla Legione Bruzia. Con il fratello Gregorio fu componente della Commissione “degl’informi”, che si occupava dell’epurazione della burocrazia borbonica e della sua sostituzione con un personale fedele al nuovo corso.
Lo storico Vittorio Visalli riferisce che Carlo “combatté aspramente a Torre Annunziata contro Pandigrano e Sciarpa” (rispettivamente: Nicola Gualtieri, un criminale comune condannato all’ergastolo, scarcerato e arruolato nell’esercito sanfedista del cardinale Ruffo, e Gerardo Curcio, che guidò un esercito di sbandati al servizio della causa borbonica). Il fratello Gregorio fu, invece, “l’imperterrito duce” della Legione Calabra, circa duemila calabresi posti a presidio di Castelnuovo e del forte di Vigliena, che il 13 giugno 1799 fu fatto saltare in aria dai giacobini assediati dalle truppe sanfediste. Dopo la capitolazione i repubblicani sbandarono. Carlo, Gregorio e Giuseppe Muscari si asserragliarono nei Castelli. Mercurio, che inizialmente aveva trovato rifugio in un convento, da lì fu costretto a scappare. Carlo e Gregorio furono condannati a morte; Giuseppe e Mercurio all’esilio fuori dal regno. Per i loro beni fu disposta la confisca.
Il trattato di capitolazione sottoscritto il 19 giugno concedeva agli insorti la facoltà di trasferirsi in Francia. Carlo fu così imbarcato sul vascello inglese “Audace”, ma appena arrivato a Napoli l’ammiraglio Nelson ordinò la sospensione del trattato. Mentre Gregorio riuscì a scampare alla forca e a riparare in Francia con gli altri due fratelli, Carlo fu incarcerato e sottoposto a processo. Assolto dalla Giunta di Stato, si scontrò con la volontà del sovrano Ferdinando IV di Borbone, al quale spettava l’ultima parola. Vincenzo Cuoco indica nella condanna di Muscari il paradigma del clima giustizialista instauratosi con il ritorno dei Borboni: «Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla morte doveva morire […]. Dal processo di Muscari nulla si rilevava che potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea dimostrato Muscari per la Repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi, ebbe ordine di sospender la sentenza assolutoria e di non decidere la causa finché non si fosse trovata una causa di morte. A capo di due mesi è facile indovinare che questa causa si trovò».
Tra gli ultimi patrioti ad essere giustiziato, Carlo Muscari fu impiccato il 6 marzo 1800 a piazza Mercato e poi sepolto nella chiesa di Santa Caterina ai Funari.
A cent’anni dalla sua morte, l’amministrazione comunale di Sant’Eufemia ne onorò il sacrificio e la memoria: il consigliere provinciale Michele Fimmanò tenne il discorso commemorativo a conclusione del quale, all’interno del municipio, fu scoperta una lapide in marmo: «Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio».
Andata distrutta dopo il terremoto del 1908, una riproduzione dell’iscrizione fu collocata alla fine degli anni Venti nel palazzo municipale da poco edificato. Purtroppo tra le macerie del palazzo demolito alla fine degli anni Ottanta, è incredibilmente finita anche la lastra di marmo che ricordava un grande eufemiese: nessuno ha pensato di salvarla, nessuno ha sentito il dovere di riprodurla.

*Fonti:
– Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Editore Laterza (1980)
– Ruggiero Di Castiglione, La massoneria nelle Due Sicilie e i “fratelli” meridionali del ’700, vol. III: Dal legittimismo alla cospirazione, Gangemi editore (2009)
– Michele Fimmanò, Carlo Muscari. Commemorazione nel centenario della sua morte, Tipografia Adamo D’Andrea (1900)
– Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro (2013)
– Rocco Liberti, Il nucleo familiare di un martire della repubblica napoletana: Carlo Muscari da Santa Eufemia, in “Rivoluzione e antirivoluzione in Calabria nel 1799”, Atti del IX Congresso storico calabrese, Laruffa editore (2003)
– Vincenzo Mezzatesta, Carlo Muscari di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Capolegione, in “Calabria Sconosciuta”, n. 30 (1985)
– Vittorio Visalli, I Calabresi nel Risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862 , G. Tarizzo e figlio (1893)

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Sant’Eufemia d’Aspromonte e il terremoto del 16 novembre 1894

Alle ore 19 circa del 16 novembre 1894 è ormai piena notte: se ne hanno la possibilità, le famiglie sono attorno al braciere, oppure già sotto le coperte per non soffrire troppo gli schiaffi dell’inverno. Qualcuno si attarda nelle cantine per un bicchiere di vino, ma la maggior parte della gente si sta per addormentare. Quella notte però non si dormirà, né a Sant’Eufemia, né in molti altri centri pre-aspromontani. E di freddo, nelle strade, ne raccoglieranno parecchio gli sfollati del terremoto che in soli sedici lunghissimi secondi rade al suolo cittadine e villaggi. Il bilancio finale conta 98 vittime e ingentissimi danni, con il triste primato di perdite di vite umane toccato a San Procopio: 48 e il paese ridotto in macerie. Ma è tutto il circondario di Palmi a piangere morte e distruzione: sette vittime a Bagnara (alle quali vanno aggiunte le sei della frazione Solano), otto a Seminara e altrettante a Palmi, epicentro del sisma del 6.1 grado della scala Richter, altre a Melicuccà, Sinopoli, Santa Cristina e Delianuova. Un numero che per Palmi sarebbe stato ben più elevato se in quei giorni la città non fosse stata teatro di un avvenimento che un anno dopo la Chiesa riconobbe come miracolo: il movimento degli occhi della statua della Madonna del Carmine, per oltre due settimane consecutive, che richiamò l’attenzione della stampa anche nazionale. Miracolo o caso, fu infatti proprio la processione organizzata il 16 novembre a fare sì che quasi tutta la popolazione si trovasse per strada quando la terra tremò e le case cominciarono a crollare.
Sant’Eufemia fu semidistrutta. Le vittime furono sette, cinque delle quali risiedevano nel Paese Vecchio, le altre due al Petto: Concetta Bagnato, 37 anni; Grazia Maria Monterosso, 72 anni; Antonino Condina, 36 anni; Maria Antonia Cutrì, 3 anni; Angela Nocito, 88 anni; Natale Occhiuto, 2 anni; Carmina Zagari, 95 anni. Più di 200 i feriti. La chiesa Matrice subì lesioni molto gravi, quella del Purgatorio rovinò parzialmente. Il quartiere Campanella (o “Rocca”) fu quello che subì danni minori insieme al Petto, dove però la chiesa crollò quasi completamente. Le case rimaste in piedi subirono danni talmente gravi da mettere in serio pericolo l’incolumità della popolazione, per cui in gran numero furono successivamente demolite: 212 abitazioni crollarono totalmente, 326 parzialmente, 432 furono gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve. I danni furono quantificati in circa due milioni di lire.
Sui luoghi colpiti dal disastro giunsero nei giorni successivi reparti di truppa e squadre di operai sottoposti agli ordini del maggiore del Genio civile Angelo Chiarle, i quali si occuparono della demolizione delle case diroccate, della rimozione delle macerie, del puntellamento della abitazioni recuperabili, della costruzione delle baracche, della distribuzione di indumenti e di alimenti, dello svolgimento di servizi di pubblica sicurezza. Del coordinamento con la prefettura per tutte le operazioni di soccorso si occupò invece il consigliere provinciale Michele Fimmanò, il politico eufemiese più influente dall’Unità d’Italia al primo decennio del Novecento.
A fine febbraio 1895 furono consegnate 64 baracche: la chiesa, l’ospedale, le scuole femminili, il municipio, l’ufficio telegrafico e l’ufficio postale, oltre alle “baracche varie”. Furono inoltre puntellate 32 case, demoliti totalmente 5 fabbricati e parzialmente 64. Un anno dopo, l’area denominata “Pezza Grande” risultava così occupata da un vasto baraccamento strutturato con strade, piazze, una chiesa e una rivendita di privativa, che ospitava più di 200 famiglie e che costituì il primo nucleo urbano dell’assetto che Sant’Eufemia avrebbe definitivamente assunto dopo il terremoto del 1908, quando fu edificato l’intero omonimo rione.

* Tutte le fotografie sono tratte da “Il terremoto del 16 novembre 1894 in Calabria e Sicilia. Relazione scientifica della Commissione incaricata degli studi dal Regio Governo”, Roma 1907. In apertura, il campanile diroccato della chiesa del Purgatorio; a fine articolo, nell’ordine: case rovinate; chiesa del Petto; chiesa del Purgatorio.

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Un ricordo dell’alluvione del 1966

Le rievocazioni del cinquantesimo anniversario dell’alluvione che il 4 novembre 1966 devastò Firenze si sono concentrate per lo più sul ricordo dei danni prodotti dagli straripamenti dell’Arno. Le 35 vittime, gli sfollati, l’intervento degli “angeli del fango”, giovani di tutte le nazionalità accorsi a migliaia nel capoluogo toscano per strappare al fango i libri e i manoscritti della Biblioteca Nazionale o le opere d’arte dei depositi degli Uffizi rovinati dall’inondazione: su tutte il Crocifisso di Cimabue nella Basilica di Santa Croce, assurto a simbolo dell’alluvione.
In realtà, già da diverse settimane, diverse aree del Centro Italia e del Nord-Est registravano un’eccezionale ondata di maltempo, con esondazioni e frane che raggiunsero l’apice tra il 3 e il 4 novembre. Il bilancio finale, consultabile sulla pagina Polaris (popolazione a rischio da frana e da inondazione in Italia), a cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica, è impressionante: oltre 130 morti, quasi 400 feriti e poco meno di 78.000 tra sfollati e senzatetto, 1.000 miliardi di lire di danni. Non solo, quindi, gli 11 metri di livello raggiunti dall’Arno, ma anche il record d’acqua alta a Venezia (194 centimetri), l’esondazione del Piave, del Brenta e del Livenza nel Veneto, del Tagliamento nel Friuli e dell’Adige nel Trentino, dell’Ombrone nel Grossetano, di molti fiumi e canali dell’Emilia Romagna, in particolare nel Modenese.
Lo sforzo solidaristico degli angeli del fango e il lavoro incessante delle forze armate, giorno e notte, nelle aree colpite. Giovani che svolgevano il servizio militare e che nei giorni dell’alluvione diedero un contributo fondamentale per il salvataggio delle vite umane in pericolo. Tra i soldati del 18° Reggimento artiglieria contraerei – di stanza presso la caserma “Giulio Cesare” di Rimini – c’era anche mio padre. La sua compagnia fu destinata al soccorso delle popolazioni nelle aree attorno a Rimini e a Forlì: riempire sacchi di sabbia, trasportarli e accatastarli uno sull’altro per arginare le esondazioni dei fiumi; far muovere le barche piatte da fiume a fondo piatto puntando le pertiche contro il fondo, raggiungere i casolari isolati per trarre in salvo i feriti e coloro che si erano arrampicati sopra i tetti.
A tutti i militari impegnati nell’opera di soccorso fu successivamente consegnato un volumetto contenente i ringraziamenti inviati dalle istituzioni civili e religiose al Generale di corpo d’armata – Comandante la regione militare Nord-Est («Questi ringraziamenti e questi elogi vanno a Te, soldato d’Italia, che per i Tuoi fratelli colpiti dalla sventura hai duramente lavorato, con sacrificio e nel pericolo; e hai dato prova di profondo sentimento del dovere e di alta solidarietà umana») e un attestato di benemerenza firmato dal ministro della Difesa Roberto Tremelloni:
«In un’ora di dolorosi eventi suscitati dalla furia di forze della natura scatenate su vasta parte del territorio nazionale, soldati, marinai ed avieri d’Italia, memori del dovere che li vuole al costante servizio del Paese sia in pace che in guerra, hanno impegnato ogni loro risorsa ed energia per la salvezza delle vite in pericolo, la lotta contro l’epidemia e la rinascita delle speranze, in una umana gara di generosità, di dedizione e di sacrificio. Per questi combattenti di una lotta senza quartiere contro lo sfacelo apportato dalle acque, desidero unire al sentimento degli infelici che essi soccorsero, aiutarono ed incoraggiarono, la meritata calda lode delle Istituzioni Militari che tanto degnamente hanno rappresentato nell’adempimento del civico dovere».

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11 settembre 2001, il ricordo

L’11 settembre mi sorprese all’Archivio di Stato di Catanzaro, alle prese con le ricerche per la tesi del dottorato. Mi fu annunciato per telefono da mio fratello Mario, allora in Australia: un intreccio di fusi orario vertiginoso. Per radio, mentre rientravo a Sant’Eufemia, appresi i dettagli di ciò che era accaduto. Provai soprattutto incredulità: sul suolo americano una cosa del genere era impensabile.
Nel gennaio successivo fui a New York, per una ricerca sull’identità italo-americana insieme ad altri colleghi, che ci tenne là per due mesi. Un po’ ci sentivamo tutti americani, sulla scia del monito di Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera, che parafrasava il vecchio discorso di John Kennedy a Berlino. Per cui non obiettammo nulla alla padrona di casa che ci raccomandò di non togliere le due bandiere a stelle e strisce poste ai lati dell’ingresso. D’altronde eravamo ospiti di un paese straniero.
Non c’era paura in giro, questo mi colpì immediatamente: soltanto commozione e un aumentato sentimento della nazione tra gli statunitensi, qualcosa a dire il vero distante dalle mie corde, che però aveva una sua giustificazione. Ricordo in particolare una processione sulla 5th Avenue con un corteo interminabile per una commemorazione di vittime irlandesi. E poi l’odore aspro, che feriva le narici, del World Trade Center, ben 5 mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Ma anche la faccia allegra della guardia giurata che all’Empire State Building prese in consegna la scorta di bottiglie di vino, di birra e di gin che avevamo acquistato poco prima: «Ragazzi, che problema avete?!».
Ci siamo sentiti tutti americani, anche se per poco tempo. Già l’attacco all’Iraq, sulla base di un casus belli totalmente confezionato in laboratorio, ci avrebbe fatto ricredere. Così come tutta la politica statunitense in Medio Oriente, dove l’instabilità regna sovrana e il sogno della democrazia, che napoleonicamente si credeva possibile esportare sulla punta delle baionette, segna decisamente il passo.

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La classe mista di via Regina Margherita, anno scolastico 1952-53

Quando ancora non era stato costruito l’edificio dell’attuale Scuola elementare “Don Bosco” (1957), le varie classi venivano ospitate in differenti case private o baracche edificate dopo il terremoto del 1908. In una di queste abitazioni, che si trovava in via Regina Margherita, mio zio Carmelo e mio cugino Gaetano frequentarono la prima classe “mista”, nel primo giorno di scuola accompagnati per mano – come ama ricordare Gaetano – da mia nonna Ciccia.
La maestra che impartì ai due bambini i primi insegnamenti si chiamava Calogera Sciacca. Le lezioni vertevano sulle seguenti discipline: religione; educazione morale, civile e fisica (che comprendeva anche la condotta); lingua italiana; aritmetica e geometria; disegno e bella scrittura. A partire dalla terza classe, a queste andavano aggiunte altre materie: lavoro; storia e geografia; scienze e igiene; canto.
Nella fotografia scattata poco prima delle vacanze di Natale, da destra verso sinistra – in posa davanti alla maestra Sciacca – sono riuscito a identificare i primi quattro alunni: Antonino Luppino, Graziella Ortuso, Carmelo Pentimalli, Gaetano Comandè. L’alunna alla sinistra della maestra è Maria Monterosso; quella accanto all’albero di Natale è invece Annunziata Surace.

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Alluvioni, ieri e oggi

Storia vecchia quella delle alluvioni disastrose. Pensavo a questo mentre sui social si rincorrevano immagini, video e aggiornamenti del terrificante acquazzone (“bomba d’acqua”, secondo i giornalisti à la page) che ha interessato anche il nostro paese. Storie di danni e di frane, di acqua che porta via tutto: “nera che porta via, che porta via la via”, anche se non ci troviamo nella Genova di Fabrizio De Andrè, ma in questa terra violentata dagli uomini e punita dalla furia degli elementi. Storie vecchie che conosciamo bene, anche a Sant’Eufemia, ma che poco sembrano insegnare.
Correva l’anno 1878 (10 ottobre) quando un violentissimo temporale, tra le tre e le cinque di notte, causò due vittime, la rovina di diverse abitazioni e il crollo dei ponti Portella e Annunziata. Un disastro che si ripeté il 30 dicembre dello stesso anno, danneggiando le case costruite nelle adiacenze del fiume e, addirittura, facendo temere il cedimento di un angolo della chiesa (che venne chiusa al pubblico) e del resto della piazza attraversata dalla strada provinciale, nel tratto sopra la volta del torrente Nucarabella, dopo che la violenza dell’acqua aveva sfasciato le briglie.
Sant’Eufemia non fa eccezione e al suo territorio è possibile applicare la metafora dello “sfasciume pendulo sul mare” utilizzata da Giustino Fortunato agli inizi del Novecento per definire l’assetto idrogeologico della Calabria. Anche noi abbiamo “torbidi torrenti” che corrono verso il mare e, come in Gente in Aspromonte, quando Giove Pluvio si mette d’impegno, anche da noi “la terra sembra navigare sulle acque”.

Sono diversi i casi di dissesto idrogeologici segnalati negli anni dalle varie amministrazioni comunali. Con scarsi risultati perché gli interventi di messa in sicurezza, in una situazione così degenerata, hanno costi molto elevati. Basti pensare all’area circostante il ponte della ferrovia, quella probabilmente di maggiore pericolo, per la quale è mancata nel tempo una cura puntuale, tempestiva, ordinaria. Risultato? Ogni anno che passa l’erosione aumenta, i pilastri appaiono sempre più scalzati, le briglie rotte ormai inghiottite dall’alveo del fiume. E più o meno così vanno le cose nelle altre aree a rischio, ad esempio nella zona dell’Annunziata, dove è avvenuta la frana alla quale si riferiscono le fotografie. Ma altre frane e smottamenti si sono verificati un po’ ovunque, nelle frazioni e lungo le vie di comunicazione, con disagi più o meno consistenti e una brutta disavventura conclusasi con qualche danno e molto spavento.
Uno stato di cose per il quale ci sono anche responsabilità umane, certo. Cementificazione selvaggia, disboscamenti scriteriati, letti dei torrenti diventati discariche che nessuno più pulisce, così come le cunette perennemente intasate che trasformano le strade in piscine. Ce ne ricordiamo ogni volta che la paura ci fa capire quanto siamo piccoli di fronte alla potenza distruttrice della natura, mentre tiriamo un sospiro di sollievo perché tragedia non c’è stata. Perché il destino, stavolta, ha voluto essere benevolo.

*Fotografie di Sara Bonfiglio

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Michele Fimmanò

Michele Fimmanò (all’anagrafe Michele Vincenzo Rosario Antonio Giuseppe Fimmanò Licastro), figlio dell’avvocato Ermenegildo e di Isabella Misiano, nacque a Sinopoli il 6 marzo 1830. Un suo avo (l’avvocato Vincenzo) era stato governatore di Melicuccà, paese d’origine del ramo paterno, una famiglia molto facoltosa che possedeva vaste proprietà fondiarie anche a Sinopoli e a Sant’Eufemia, dove infine si stabilì.
Il giovane Michele trascorse il turbolento periodo del Quarantotto a Napoli, al seguito dello zio Gabriele Fimmanò, che ebbe un ruolo importante per la sua formazione e del quale in seguito sposò la figlia Maria Giuseppa. Amante dei classici latini e greci, nel periodo napoletano conseguì il diploma in lettere e filosofia e la laurea in giurisprudenza, curò una traduzione delle Satire di Orazio e delle Catilinarie di Sallustio e, nel 1849, diede alle stampe Della influenza del sangue sui nostri pensieri, un’opera dall’approccio interdisciplinare che precorreva gli studi integrati di fisiologia, psicologia e sociologia tipici del positivismo.
Rientrato a Sant’Eufemia esercitò la professione forense, si dedicò all’amministrazione del suo cospicuo patrimonio (nel 1882 il “valore approssimativo degli stabili posseduti nel comune” da Fimmanò ammontava a 550.000 lire) e cominciò a muovere i primi passi della sua lunghissima carriera politica, grazie all’inserimento nella lista degli eleggibili per il Decurionato, l’antenato del consiglio comunale nella fase preunitaria, la cui composizione avveniva per sorteggio tra i possessori di una rendita, variabile a seconda del numero di abitanti del comune. “Secondo eletto funzionante da sindaco” nel 1854, ricoprì la carica di primo cittadino nel triennio successivo. Risale a questi anni la divisione dell’antica parrocchia, istituita nella chiesa di S. Maria delle Grazie dopo che il terremoto del 1783 aveva raso al suolo la vecchia chiesa matrice. Protagonisti di questo snodo cruciale nella storia di Sant’Eufemia furono il vescovo di Mileto Filippo Mincione e il sindaco Fimmanò, il quale nell’istanza inoltrata al sovrano Ferdinando II, il 12 giugno 1855, motivò la richiesta con la constatazione che il sisma aveva provocato lo spostamento di numerose famiglie dal “Paese Vecchio” al quartiere “Petto”, che ora contava più di 3.000 abitanti. La seconda parrocchia, per la cui istituzione si espresse favorevolmente anche il vescovo con considerazioni che furono allegate alla domanda presentata da Fimmanò, fu fondata con decreto vescovile del 19 agosto 1856: il “placet” di Ferdinando II arrivò poi il 14 ottobre, mentre il 16 settembre – in concomitanza con i festeggiamenti patronali – la cura della nuova parrocchia fu affidata al sacerdote e teologo Rocco Cutrì.
Sull’atteggiamento di Michele Fimmanò nella fase di transizione dal regime borbonico allo Stato unitario sotto l’egida dei Savoia, le testimonianze sono discordanti. Nella commemorazione ufficiale seguita alla sua morte, il sindaco Pietro Pentimalli ne sottolineò “la devozione pei due titani [Mazzini e Garibaldi] del nostro riscatto e per la dinastia che rese possibile e volle la libertà nostra”. Alcuni suoi oppositori lo accusarono invece di “tiepidezza” nei confronti del processo risorgimentale e ne sottolinearono l’atteggiamento defilato sia nel 1848 che nel 1860. Per Stefano Forgione, autore nel 1874 di un esposto al prefetto di Reggio Calabria, Fimmanò era stato addirittura il capo della “vituperata marmaglia… nemica del Risorgimento” e una spia del governo borbonico. Molto più verosimilmente, egli si comportò come gran parte della classe dirigente meridionale: cauto e attendista in una prima fase, filopiemontese nel momento in cui lo Stato unitario, per potere funzionare, ebbe necessità di rivolgersi al personale politico e amministrativo delle entità statuali preesistenti. Uno dei tanti “matrimoni di convenienza” che hanno trovato nelle pagine del Gattopardo la consacrazione letteraria e l’istantanea più autentica del passaggio tra le due epoche.
Nella fase di maggiore caos politico, Fimmanò non solo non partecipò alle vicende amministrative eufemiesi, ma addirittura non visse a Sant’Eufemia, preferendo invece risiedere a Sinopoli. Vi fece ritorno a normalizzazione compiuta e – subito – riabbracciò la politica attiva: eletto consigliere comunale nel 1864 e consigliere provinciale nel 1868, fu riconfermato a suon di preferenze in entrambe le cariche fino alla sua morte (nelle elezioni provinciali del 1899 conseguì il record di 546 voti su 549 iscritti nelle liste elettorali). In sintesi, la storia politica di Sant’Eufemia d’Aspromonte nel periodo dell’Italia liberale coincide con la biografia di Michele Fimmanò, commendatore nell’Ordine della Corona d’Italia e deus ex machina dell’amministrazione comunale eufemiese.
La sua preparazione giuridica si rivelò di fondamentale importanza per la corretta interpretazione e l’applicazione dei codici piemontesi nella fase di transizione dal sistema giuridico borbonico al nuovo ordinamento. Delegato del ministero della Pubblica Istruzione per il mandamento di Sant’Eufemia, fu inoltre sindaco dal 1876 al 1881 e ripetutamente regio delegato per l’amministrazione temporanea del comune, nominato dal prefetto per gestire situazioni amministrative spinose o emergenze della più svariata natura.
Commissario per il dopo terremoto del 16 novembre 1894 (sette morti, duecento feriti e il crollo totale o parziale di circa mille abitazioni), guidò l’opera di ricostruzione realizzata dal governo e dai comitati di soccorso, sorti in tutta Italia, che portò all’edificazione del baraccamento in località “Pezzagrande”: una decisione contrastata da quella parte di cittadinanza affezionata all’originario assetto urbanistico del paese, che anticipò le ancor più vivaci polemiche della ricostruzione nel post 1908. Da presidente del consiglio provinciale fu componente del comitato di soccorso costituito in occasione dell’incendio che distrusse il rione “Borgo” (18 settembre 1902) e che, per diversi anni, costrinse circa cinquecento residenti a riparare in alloggi di fortuna. Infine, dopo il terremoto del 1908, insieme al notaio Pietro Pentimalli fu il regista della composizione della lista che in un clima di fortissime tensioni promosse la ricostruzione del paese nel rione “Pezzagrande”.
L’attuale suddivisione del centro urbano nei tre grandi rioni “Paese Vecchio”, “Petto” e “Pezzagrande” rappresenta il lascito dell’impegno politico e amministrativo di Michele Fimmanò (il quale morì l’11 febbraio 1913) e proprio per tale motivo, oggi, una delle vie principali del nuovo quartiere porta il suo nome.

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Dall’Aspromonte al Carso

Un baule misterioso sigillato da decenni e un uomo dall’espressione assente, immerso in una dimensione impenetrabile. Una camera diventata il rifugio di un anziano signore che vi trascorre, barricato dentro, gran parte del proprio tempo. Trafitto dai ricordi, inseguito dai demoni di un passato che in realtà non è mai passato, dentro la testa l’inferno vissuto nelle trincee del Carso più di mezzo secolo prima. Con l’apertura della vecchia cassa il segreto viene svelato. Un segreto che emerge dalle pagine ingiallite del vecchio quaderno custodito come una reliquia da sorvegliare, notte e giorno. E che consente di riavvolgere il nastro della vita di quell’uomo taciturno, dai pensieri inceppati come le parole tartagliate e pronunciate a fatica a causa della balbuzie.
Gli anni Settanta sono appena iniziati: Tina Ciccone Sturdevant torna a Sant’Eufemia d’Aspromonte per fare visita al genitore ultraottantenne, da tempo ritiratosi nel paese natio dopo decenni di spola tra gli Stati Uniti e l’Italia. Giuseppe Ciccone, primogenito di Luigi e Orsola Orlando, ha soltanto diciassette anni quando, nel 1904, per la prima volta solca l’Atlantico a bordo del tre alberi “Patria”, costruito nel 1882 a Stettino e battente bandiera tedesca con il nome “Rugia”, prima di passare al servizio di Francia e Italia per coprire le tratte transoceaniche Marsiglia-New York e Napoli-New York: 96 viaggiatori di prima classe e 1.100 in seconda. Negli anni successivi ritorna più volte in Italia: nel 1912 sposa Francesca Pillari, dalla quale avrà cinque figli (Luigi, Nino, Orsola, Rosa e Tina) che saranno allevati dalla mamma nell’abitazione di via Carlo Muscari. Proprio negli Stati Uniti, tramite il Consolato italiano di Albany (New York), Giuseppe viene raggiunto dalla chiamata alle armi “per mobilitazione”, ai sensi del Regio Decreto 22 maggio 1915 n. 703.
Il racconto dell’odissea vissuta dal fante Ciccone – numero di matricola 13784 – riemerge oggi, a distanza di un secolo, grazie alla figlia Tina, che nel 1971 riceve dal genitore il regalo che è la chiave di quei silenzi, tenuta fino ad allora ben nascosta dentro il baule. Tina custodisce per più di quarant’anni il manoscritto, infine decide di curarne la pubblicazione ricorrendo all’aiuto del nipote Joseph Richard Ciccone, professore di Psichiatria presso l’Università di Rochester, il quale individua nel diario dodici eventi traumatici responsabili del “disturbo da stress post traumatico” (PTSD: post-traumatic stress disorder) di cui Giuseppe Ciccone era probabilmente affetto, una patologia che si manifesta con la perdita di interesse per la realtà circostante. Il risultato finale è nelle pagine di Trough the circles of hell: a soldier’s saga. Giuseppe Ciccone (Relicum Press, marzo 2016), poema-diario in lingua originale con traduzione inglese a fronte, in un volume impreziosito dalle illustrazioni di Philip Costa e da un’appendice fotografica.
Un documento straordinario, testimonianza preziosa dell’esperienza vissuta da un contadino dell’Aspromonte nelle trincee del Carso, il mattatoio della “inutile strage” denunciata da Benedetto XV. Nel dialetto italianizzato caratteristico di chi possiede un’istruzione approssimativa, Ciccone dà forma e sostanza ai ricordi del periodo che va dal suo imbarco sul “Duca d’Aosta” (21 ottobre 1916) all’agosto del 1917, data in cui il racconto si interrompe. La forma letteraria è quella del poema con versi in rima più o meno regolare, al quale l’autore dà un titolo significativo: “Guerra Italo Austriaca. Storia della mia vita sventurata”. Il manoscritto è stato scritto e riscritto più volte prima di essere copiato in un quaderno che, dal logo della Cornell University stampato sulla copertina, consente di fissare anteriormente agli anni Quaranta la stesura definitiva, presumibilmente dopo la “fuga” di Ciccone negli Stati Uniti a bordo della nave “Conte Biancamano” nel 1931, su suggerimento dei parenti preoccupati dalla possibilità che le sue esternazioni critiche nei confronti del regime mussoliniano potessero provocare la ritorsione delle autorità fasciste. Negli anni a seguire anche il resto della famiglia giunge alla snocciolata nel Nuovo Continente e, per i figli, l’emigrazione diventa una scelta di vita definitiva.
Il diario si apre con il rientro dagli Stati Uniti “per fare l’obrico [il dovere] di cittadino onorato”. La navigazione travagliata, lo sbarco a Genova e il viaggio in treno fino a Roma e da lì a Bagnara, l’incontro festoso con la famiglia (“Mi sono allegrato di troppo vino/ ora il mio paese era vicino”) e le due ore di cammino a piedi per arrivare a Sant’Eufemia. A fine gennaio 1917 si trova già a Lecce, per l’addestramento con il 48° Reggimento (Brigata Ferrara): due mesi di esercitazioni, marce e tiri al bersaglio, ma anche la lotta quotidiana contro i pidocchi, la sporcizia e la “puzza di sepoltura” della caserma (“il paese dei porci”). Quindi la partenza per il fronte, il 13 aprile: “era un giorno caldo e bello/ ma io ero in tribolazione/ il treno era venuto presto/ i soldati erano con male amore/ tutte le borghese si misero a gridare/ le bandiere vennero a sventolare”.
Nei versi sofferti del componimento prendono vita la tragedia della guerra, la paura e le preghiere dei soldati, ma anche l’inadeguatezza del comando dell’esercito, che la storiografia ufficiale confermerà in maniera inconfutabile e che però appare evidente già agli occhi del fante eufemiese.
Ciccone si ritrova nel mezzo dell’inferno scatenato dall’offensiva italiana nella X Battaglia dell’Isonzo (12 maggio – 4 giugno 1917): “Alle 10 venne l’ordine del Comando/ dovevamo andare tutte all’assalto/ come le pecore senza padrone”. La sua compagnia si trova nel settore del Dosso Fáiti (o Dosso dei Faggi), sotto il fuoco e dei cannoni e delle incursioni aeree del nemico. La trincea è uno spettacolo spaventoso di sangue, di morti che Ciccone sposta di peso per lasciare libero il passaggio. Il bombardamento che annienta “la metà della compagnia” lo sorprende proprio mentre cerca di guadagnare il camminamento per cercare riparo dietro la linea del fuoco. È vivo per miracolo, nonostante la ferita provocata alla natica destra da una scheggia che lo fa cadere a terra “tramortito”. La scheda trovata tra i documenti dell’Ufficio notizie militari, oggi consultabili presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria, attesta il ricovero di Ciccone presso l’ospedale da campo 031 di Mariano del Friuli, dove giunge su una barella dopo che i commilitoni lo recuperano dolorante e riescono a trarlo in salvo. Il racconto della sofferenza dei soldati è straziante: le urla disumane dei feriti e dei militari sottoposti all’amputazione di braccia e gambe (“pareva che scannano li maiali”), le invocazioni disperate ai Santi e alla Madonna.
Il diario si conclude con le dimissioni dall’ospedale il 2 agosto e la sosta a Cividale del Friuli, prima del ricongiungimento con il comando del 48° Reggimento, a San Lorenzo di Mossa. I curatori del libro sono certi della continuazione del poema in un altro quaderno, purtroppo andato perso, che doveva completare il racconto dell’esperienza di Ciccone sui campi di battaglia della Grande Guerra. Gli ulteriori ricoveri annotati sulla scheda dell’Ufficio notizie militari confermano che il conflitto bellico, per il soldato di Sant’Eufemia, non si conclude con la vicenda del suo ferimento: 19 settembre 1917, catarro gastrico (ospedale di guerra 57); 1 agosto 1918, enterite (ospedale da campo 0142); 28 ottobre 1918, febbre (ospedale da campo 0107). Tuttavia, non è possibile affermare con certezza che Ciccone, Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto con decreto del 31 marzo 1971, sia stato in prima linea nell’XI Battaglia dell’Isonzo e nello sforzo decisivo che porta l’esercito italiano alla Vittoria.
Dettagli che non intaccano il valore etico e storico di un documento unico, che mescola onore e codardia, senso del dovere e orrore, facendo diventare universale la vicenda umana del protagonista: un uomo traumatizzato dagli eventi bellici e sopravvissuto soltanto fisicamente alla mattanza della Prima guerra mondiale, commovente nello sforzo di connettere la propria esistenza con la vita della moglie, dei figli, dei nipoti e, in definitiva, con il mondo brulicante fuori dalla stanza eletta a prigione volontaria.

*Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud, 03/07/2016

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