Horcynus Orca: un’arcalamecca di parole

Horcynus Orca è un romanzo sulla morte. Reale o metaforica, la sua presenza aleggia dalla prima all’ultima delle pagine che raccontano il ritorno a casa, sponda messinese dello “scill’e cariddi”, del “marinaio della fu Regia Marina” Ndrja Cambrìa dopo l’8 settembre 1943 e la sua successiva partenza per andare incontro alla morte. Nella narrazione di Stefano D’Arrigo riecheggiano Omero e Joyce, ma le chiavi di lettura sono tante e stratificate su più livelli. C’è il mito del ritorno dell’eroe dalla guerra, ci sono i personaggi omerici e c’è ovviamente Ulisse, che però non si salva perché in D’Arrigo – osserva Walter Pedullà – egli non è un bugiardo.
E poi c’è l’Orca, l’immortale Orca che muore, subito dopo seguita da Ndrja e dalla fine del romanzo, “evento che l’autore ha rimandato oltre ogni limite”. Perché Horcynus Orca è soprattutto “un’odissea della parola” e uno sforzo fisico immane, sfibrante come la seconda parte, nella quale l’autore gira attorno alle parole in maniera ossessiva, circolare. Il racconto è composto da “quadri”, ferite che ricordano la piaga dell’Orca: è proprio lì che prendono forma i 56 episodi “collaterali e confluenti” conteggiati da Pedullà. Un’impresa titanica che impegnò D’Arrigo per circa vent’anni: La testa del delfino (che contiene già la trama di Horcynus Orca) fu infatti scritto tra il 1956 e il 1957, mentre gli anni dal 1958 al 1961 furono assorbiti dalla sua revisione (I giorni della fera; I fatti della fera); infine, quindici anni di riscrittura, innesti, varianti, aggiunte e digressioni che porteranno al romanzo del 1975, che assume il titolo definitivo e raddoppia il numero delle pagine.
La lentezza e la lunghezza di alcuni passaggi a volte possono scoraggiare il lettore, ma sono funzionali al rinvio dell’appuntamento di Ndrja con la morte, che arriva improvvisa come lo squarcio di un fulmine nel cielo. Prima però le digressioni si moltiplicano: i giochi di parole trascinati all’infinito, come l’indimenticabile calembour sulla parola “barca”, che può diventare salvezza (“arca”) o fine di tutto (“bara”); i brani dedicati a quel personaggio mitologico che è Ferdinando Currò; il dialogo tra Ndrja e don Luigi Orioles; il monologo interiore di Ndrja sullo sperone, da dove osserva l’agonia dell’Orca.
Se l’ossessione di Ndrja è la morte, che sembra inseguire con una foga suicida, quella di D’Arrigo è la parola, che mette “sotto torchio” mediante la sperimentazione di un linguaggio arcaico e nuovo nello stesso tempo. La lingua è infatti il vero protagonista del romanzo: i termini inventati e la scrittura “parlata”, che recupera frasi e modi di dire del dialetto siculo-calabro, quel “parlato popolare [che] dice una cosa semplice e ne suggerisce cento complesse”.
Quando, dopo avere sottoposto il figlio a innumerevoli prove, Caitanello Cambrìa finalmente si convince che quello che ha di fronte è proprio Ndrja tornato dalla guerra, lo mette a sedere per dirgli “due parolette, su una faccenda personale”, ma si fa alba: «Era incinto, implenato di parole, con le voglie e le doglie di parlare che gli scappavano da tutte le parti: doveva sgravarsele all’istante, tutte quelle parole bell’e fatte, che lo spingevano di dentro, sennò gli morivano e gli facevano setticemia».
Un passaggio autobiografico che rivela l’implenamento dell’autore stesso e che spiega la lunghissima gestazione del romanzo, “arcalamecca” e “mille e una notte” di parole.

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