I fotogrammi della vergogna

Avrebbero fatto meglio a silenziare l’audio. Ci saremmo risparmiate le castronerie di Somma, che derubrica a “atto vandalico” un bollettino da faida: sette colpi di pistola e tre feriti, uno dei quali in codice rosso. Non avremmo neanche ascoltato la minimizzazione di stato divulgata dalla questura per gettare acqua sul fuoco: “un episodio che non ha niente a che fare con la partita di calcio”.

Avrebbero fatto meglio a lasciare parlare immagini che non hanno bisogno di alcun commento, perché sono l’emblema della sconfitta del calcio. Che ormai da tempo è lo sport più bello del mondo solo nella mente delle agenzie pubblicitarie. Mentre, in Italia, è quello che tutti abbiamo visto ieri sera: un ostaggio nelle mani del Genny ’a carogna di turno. La cui resa viene rilanciata senza pietà dalla stampa internazionale: “il figlio di un camorrista ha deciso che la finale di Coppa Italia si può giocare”.

Le immagini della vergogna incorniciano il capitano del Napoli circondato dagli steward e in delegazione ai piedi di un pluripregiudicato assiso su una grata della curva Nord dell’Olimpico, che infine annuisce, stile don Corleone quando il consigliori Tom gli sintetizza all’orecchio il problema del mafioso che ha chiesto udienza. E pazienza per quella scritta sulla t-shirt nera inneggiante alla liberazione dell’ultrà assassino dell’ispettore di polizia Filippo Raciti. Pazienza anche per i razzi e i petardi che fanno scappare subito dopo tutti, ricordando, a ogni buon conto, chi comanda.

Basta con le stucchevoli analisi sociologiche sulla violenza della società contemporanea, sul lavoro che non c’è, sul disagio sociale, sulla rabbia che cova sotto la cenere e cerca sempre uno sfiatatoio. La questione è molto più semplice, nella sua brutalità. Il problema, annoso, è il rapporto perverso tra società di calcio e tifo organizzato. È nelle complicità, nell’omertà, nella “convenienza” che spinge una società di calcio ad avere rapporti opachi con questi figuri.
Qual è la logica che porta l’allenatore Seedorf ad incontrare gli ultras del Milan dopo la sconfitta con il Parma? Se a me non piace l’ultimo film di Robert De Niro, al massimo decido di non guardare il successivo, per ripicca. Ma non vado ad attendere l’attore sotto casa per chiedergli conto di una interpretazione che non è stata di mio gradimento o per suggerirgli quali ruoli accettare in futuro.

Ci sono interessi economici, legati all’indotto economico che l’evento calcistico genera in uno stadio, sui quali il tifo organizzato mette regolarmente le mani con la compiacenza delle società di calcio. Per questo motivo ai cancelli non passa la bottiglietta dell’acqua del bambino, ma entrano bombe carta, bulloni, catene e motorini da lanciare dal secondo anello. Per questo motivo, se gli ultras chiedono ai propri giocatori di togliere la maglietta perché considerati indegni, quelli la tolgono. In lacrime, ma la tolgono. E basta con la balla dell’onore ultrà: non c’è niente di “onorevole” negli scontri violenti con la tifoseria avversaria o con le forze dell’ordine, e neanche nelle razzie agli autogrill di teppistelli che assaltano gli scaffali ed escono senza pagare, con le tasche gonfie di cioccolatini, caramelle, souvenir.
Gli ultras violenti non sono tifosi esagitati, che “vivono” in maniera più intensa degli altri la partita della squadra del cuore. Sono criminali, delinquenti da perseguire con il codice penale, non con le carezze del Daspo o con le assurdità burocratiche della tessera del tifoso. Altrimenti a farne le spese sarà sempre chi ama davvero il calcio e, ad ogni partita, torna a casa con in bocca il retrogusto amaro della delusione per una storia finita.

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Buon compleanno, vecchio cuore amaranto

Non sono mai stato un ultra. Per indole: non riuscirei mai a ripetere ciò che altri urlano dentro un megafono. E ho sempre pensato che dietro il cosiddetto “orgoglio ultra”, spesso, ci sia in realtà poco di cui essere orgogliosi.

Comprendo però perfettamente che il calcio è un formidabile generatore di entusiasmo, passioni, felicità. Anche quando i problemi della vita inducono allo sconforto, un gol della squadra del cuore può cambiare il colore di una giornata.

La Reggina oggi compie cento anni e con lei idealmente festeggiano tutti i suoi tifosi, nonostante, in questo delicato momento della sua storia, tristezza per il baratro che si intravede e nostalgia per i tempi che furono la fanno da padrone.

Ormai è diventato uno sport nazionale sparare sul presidente Lillo Foti. Che ha le sue responsabilità, certo. Ma la cui figura, con tanto di sigaro, si staglia altissima nei primi cento anni della storia della Reggina. Da un punto di vista sportivo, per il miracolo della serie A e per quelle nove stagioni che hanno tenuto i riflettori della stampa sportiva nazionale costantemente accesi sul “Granillo”. Sotto il profilo sociale, per avere contribuito a risollevare il morale di una città prostrata dai terribili anni della seconda guerra di ’ndrangheta, offrendole una possibilità di riscatto e un elemento di fiducia. Questo non bisognerebbe mai dimenticarlo.

Neanche oggi che si è passati dal sogno all’incubo.

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A.C. Eufemiese – 1980

Una formazione dell’Eufemiese scattata intorno al 1980, quando la squadra militava in Seconda categoria ed era composta quasi esclusivamente da giocatori di Sant’Eufemia.
Presidente, il compianto Peppe Surace, il quale per molti anni ha conservato la fotografia nel salone da barbiere di corso Vittorio Veneto che gestiva insieme a Nino Pillari, anch’egli purtroppo prematuramente scomparso.
“U saluni da chiazza” è stato per decenni un angolo caratteristico di Sant’Eufemia, teatro di aneddoti spesso incredibili con protagonisti personaggi della più svariata natura.
Un “luogo” che oggi ci manca, come tante altre testimonianze di una Sant’Eufemia più genuina e ricca di umanità.
Da sinistra, in piedi: Mimmo Gentiluomo, Peppe Surace (presidente), Nicola Tripodi, Salvatore Gerocarne, Antonio Pangallo, Massimo Garzo, Antonio Panuccio, non identificato, Pino Pellegrino, Vincenzo Villari (custode del campo), Raffaele Tripodi (allenatore), Franco Sgrò (dirigente), Vincenzo Tripodi (segretario).
Accovacciati: Mimì Tripodi, Enzo Luppino, Mimmo Cammarere, Mimmo Mileto, Alfonso Pellegrino, Mimmo Nolgo, Nicola Creazzo.

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A.C. Eufemiese – 1988

“Gli eroi son tutti giovani e belli”… e con un pallone tra i piedi sanno fare miracoli. Per un ragazzino le cose stavano così, almeno negli anni Ottanta.

Quando ancora la pay per view non ci aveva fatto venire la nausea per il calcio giocato, osservavamo i nostri eroi allenarsi, loro in una metà del campo, noi “esordienti” o “giovanissimi” nell’altra metà, cercando di carpirne i segreti. Poi, la domenica, tutti sugli spalti ad incitare i nostri beniamini: ecchissenefrega se era Seconda o Prima categoria (per diverse stagioni addirittura Promozione), in campi polverosi di provincia, mica il Bernabeu.
Un giorno avremmo coronato il nostro sogno. Sogno di provincia, difendere i colori della squadra del nostro paese, giocare con alcuni di quelli che prima avevamo seguito con occhi incantati.

Nella fotografia, una formazione dell’Eufemiese che dovrebbe risalire al 1988, campionato di Prima categoria. Presidente il compianto Peppe Visconte, subentrato a Rocco Cannizzaro, timoniere della squadra per una stagione, dopo la tragedia che si portò via il presidente Pasquale Morabito e il cassiere Saverio Coletta.

Allenatore (e giocatore): Arturo De Forte. Tra gli altri dirigenti, il vulcanico Peppe Napoli, Pino Gelardi, Vincenzo Papalia e Franco Cuppari. Custode del “Claudio Morisi”, il mitico “professore” Peppe Fava.
Da sinistra, in alto: Marco Roldi, Cosimo Nocera, Carmelo Occhiuto, “Melo” D’Aspromonte, Natale Imbesi, Peppe Carbone, Massimo Garzo.

In basso: Carmine Napoli, “Iaio” Villari, Marcello Sgrò, Peppe Spanto, Arturo De Forte, Nino Naso, Mimmo Nolgo.

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Lorenzo Genovese: il campione, l’esempio

“Il 5 maggio 1991 è una data per me indimenticabile. Quel giorno feci il mio esordio in una gara agonistica, su un tandem Masciarelli con il cambio a manettini, puntapiedi e cinturini”. Da allora sono trascorsi più di venti anni, ma Lorenzo Genovese è ancora in sella, a macinare chilometri in Italia e all’estero, a portare a casa trofei su trofei, ad essere il vero motore di un tandem spesso vincente, sempre protagonista di imprese fuori dal comune. Una sorta di “locomotiva umana”, se ci è consentito prendere a prestito lo pseudonimo che accompagnò la carriera del mitico Learco Guerra tra la fine degli anni Venti e i primi anni Quaranta del secolo scorso. “Non riesco a immaginare la mia vita senza il ciclismo. Non riesco ad immaginare che un giorno potrei non essere più capace di pedalare” – mi dice pesando le parole una ad una.
La bicicletta rappresenta molto per Lorenzo, non vedente assoluto dall’età di un anno a causa di una malformazione genetica, ma con alle spalle una famiglia forte e di sani principi che ne ha accompagnato la crescita con amore, consentendogli di frequentare istituti e centri specializzati. Anche oggi che ha 43 anni e lavora come centralinista presso il Tribunale di Palmi, dove è in grado di recarsi e spostarsi praticamente da solo: “il ciclismo per me è sempre stato uno strumento di socializzazione. I risultati vengono dopo, molto dopo. Quello che conta è la possibilità di coltivare amicizie tramite la condivisione di una passione. La bellezza di questo sport sta tutta qua. Nel tandem, poi, con la guida si crea un rapporto particolare, difficile da spiegare”.

È intuibile che sia così, che un’alchimia speciale governi quattro gambe e due ruote: “se non c’è amicizia, non si può andare in tandem” – assicura Lorenzo, al rientro da una gara a San Pietro in Gu (Padova) conclusa al secondo posto, a mezza ruota dal bis dello strepitoso trionfo ottenuto nel 2012.
Le vittorie di Lorenzo, che dal 1998 gareggia per il Gruppo Sportivo Non Vedenti di Vicenza, ormai non si contano. Più volte campione italiano della categoria “tandem agonistico per non vedenti”, campione italiano amatori su strada ininterrottamente dal 2001 al 2010, è salito sul gradino più alto di podi sparsi in tutta Italia: su strada, su pista, a cronometro, nelle granfondo.

Meno di dieci giorni prima della gara in Veneto, l’impresa realizzata con il taglio del traguardo della “Roma – Parigi. Sulle strade del Tour”, manifestazione organizzata dall’Associazione culturale “Pedalando nella storia – Maurice Garin” di Roma. Un sodalizio presieduto da Andrea Perugini e dedicato al primo vincitore del Tour de France (1903) che ha così voluto onorare la centesima edizione della Grande Boucle (undici edizioni sono saltate tra il 1915-18 e il 1940-46) e ricordare la prima pedalata da Roma a Parigi organizzata dai gruppi “Audax” italiani (ciclisti in grado di percorrere 200 chilometri in bicicletta in autosufficienza entro una sola giornata) proprio per celebrare quell’evento.
Partita dallo stadio dei Marmi il 12 luglio, la carovana delle biciclette – tra le quali spiccavano cinque tandem con atleti non vedenti: la manifestazione è stata patrocinata dall’Unione italiana ciechi e ipovedenti – è giunta al velodromo “Jacques Anquetil” giorno 20, per sfilare il giorno dopo lungo gli Champs Elysées e l’Arc de Triomphe. Un prologo di 73 chilometri e otto tappe (in totale, 1.626 chilometri e un dislivello di circa 16.000 metri) che sono state anche l’occasione per rievocare grandi campioni del passato, grazie agli incontri programmati con i figli di Bartali e Coppi, con il pronipote di Garin, con Franco Bitossi.

Alla guida del tandem, nel prologo da Roma a Vetralla (VT) e nella prima tappa (Vetralla – Empoli, 226 chilometri), Angelo “Sarino” Surace, architetto eufemiese trasferitosi a Fiuggi che dal 1999 si alterna (anche sui podi) con Marco Pisano: “Ho iniziato a pedalare con Lorenzo circa venti anni fa, quando per scherzo mi propose di fare un giro in tandem. Non avevo mai provato un tandem e poche volte la bici. La mia preoccupazione era di non farlo cadere (cosa che è successa due-tre volte), ma la sua forza mi ha sempre dato coraggio e convinto a superare ogni remora”.

Lorenzo e Sarino sono anzitutto grandi amici, a lungo vicini di casa quando Surace risiedeva a Sant’Eufemia. Uscire in bici con Lorenzo è qualcosa di emotivamente intenso, unico: “Lorenzo è una persona speciale, una di quelle persone che ti arricchiscono l’anima e ti aprono il cuore. Per me è stato un privilegio averlo conosciuto e poterlo frequentare. Da molti anni condividiamo le stesse pedalate ed è un’esperienza che mi rende più forte. Mi fa stare bene con me stesso e mi dà la carica per affrontare le difficoltà che sorgono quotidianamente, sui pedali come nella vita. All’inizio pensavo che fosse lui ad avere bisogno del mio aiuto. Ma non è per niente così. Lorenzo è un compagno unico per forza e determinazione. Dopo venti anni riesce ancora a sorprendermi, ogni volta!”.

Da più di un anno Lorenzo Genovese (presidente onorario) e Sarino Surace (vicepresidente, ideatore del logo e della divisa, curatore dell’omonimo profilo su Facebook) portano in giro per l’Italia i colori degli Eufemiesi Bikers, team nato su impulso di Surace, il cui direttivo è composto dal presidente Mimmo Fedele, dal segretario Enzo Fedele e dal tesoriere Rocco Luppino. In breve tempo le adesioni sono cresciute e oggi gli EB costituiscono un’importante realtà aggregativa che consente di mantenere un filo ideale con il paese d’origine agli emigrati eufemiesi amanti delle due ruote.

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Addio, campione

Ricordo il dito di Pietro Mennea puntato contro il cielo subito dopo avere tagliato il traguardo. L’osservavo ogni mattina, proprio di fronte al mio lettino.

Addio, campione

Pietro Mennea è una leggenda dell’atletica leggera italiana. Campione olimpico sui 200 a Mosca (1980), campione europeo sui 100 (Praga 1978) e sui 200 (Roma 1974 e Praga 1978), campione europeo indoor sui 400 (Milano 1978).
Ha partecipato a cinque Olimpiadi: 1972, 1976, 1980, 1984, 1988 (bronzo nel 1972 sui 200; bronzo nel 1980 nella staffetta 4×400).
Bronzo sui 200 e argento nella staffetta 4×100 ai mondiali di Helsinki del 1983. Argento nei 100 e nella staffetta 4×100 agli europei di Roma del 1974; bronzo nella staffetta 4×100 agli europei di Helsinki del 1971.
Cinque medaglie d’oro alle Universiadi, sette d’oro ai Giochi del Mediterraneo, 16 d’oro ai campionati italiani.
Il suo record mondiale sui 200 metri (19 secondi e 72 centesimi), stabilito a Città del Messico nel 1979, ha resistito fino al 1996 (battuto da Michael Johnson), risultando tra i più longevi della storia dell’atletica mondiale.

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Le scarpette di gomma dura

– “No! Mannaja Ddena! Non ci voleva questa neve!” – Luigi, Pinuccio, Massimo e Domenic si guardarono, sconfortati. Da quasi un mese aspettavano la prima partita del campionato Esordienti e quel sabato il paese si era svegliato sotto una coltre bianca. Niente scuola, ovviamente, ché ne bastava ’na ddiccàta per scaraventare la cartella, lo zaino o la cinghia con due-tre libri sul divano, uscire fuori e dare inizio alla battaglia. Eppure, quel giorno non riuscivano ad essere allegri. Avrebbero preferito centomila volte entrare a scuola, perfino essere interrogati in latino: sì, alla scuola media il professore d’italiano aveva deciso di insegnare qualche rudimento di latino. “A chi deciderà di iscriversi al classico o allo scientifico, tornerà utile” – aveva osservato, per cercare di indorare la pillola.

Neve, neve e neve. Corsero al campo sportivo per un sopralluogo. Era come sospettavano. Una lunga e larga distesa bianca. Non che loro la temessero, né li impressionava il freddo. Il loro trainer godeva di una meritatissima fama di duro, conquistata grazie alle pesantissime sedute di allenamento che infliggeva ai ragazzi. Li faceva correre fino allo sfinimento e, non appena qualcuno sgarrava, veniva immediatamente spedito a casa. Qualche anno più tardi, quando esplose il fenomeno, i suoi stessi giocatori lo bollarono “Zeman”, il tecnico boemo del “Foggia dei miracoli”, una squadra di sconosciuti che riuscì a sorprendere l’Italia del calcio. Anche se il suo modello era Rinus Michels, l’inventore del calcio totale e profeta del modulo “a zona”, tutto pressing e fuorigioco a centrocampo. Luigi e Domenic, i meno dotati fisicamente, la voce del coach la sentivano anche di notte. Mentre agli altri, dopo un’ora abbondante di corsa, ripetute, scatti, progressioni ed esercizi, era finalmente consentito di toccare il pallone, per loro c’era un supplemento di giri di campo: “Dovete sopperire con la corsa”. Sopperire, un verbo che finirono per odiare, costretti a guardare gli altri divertirsi col pallone venti minuti prima di loro. Per anni si è raccontato di quella volta che si mise a grandinare ininterrottamente, mentre Esordienti e “prima squadra” si stavano allenando allo stesso orario, come capitava non di rado. I “grandi” si rifugiarono dentro gli spogliatoi: ogni tanto, qualche viso faceva capolino per osservare, stupito, tutti quei ragazzini sotto la bufera. “Non vi fermate, continuate a correre” – l’intimidazione del mister.

Figurarsi, quindi, se poteva spaventarli un po’ di neve.

Luigi era il mediano della squadra, il numero 4, quando ancora la numerazione della maglia aveva un senso. Un corpo esile che una folata di vento rischiava di far decollare, con due polmoni e una resistenza da fare invidia al migliore Furino. Anche se il suo soprannome era “Tardelli”. Dentro la divisa si perdeva. D’altronde, gli Esordienti utilizzavano quella della “prima squadra”. Maniche talmente lunghe da fare solamente intuire la presenza di braccia e mani al loro interno e pantaloncini che arrivavano fin sotto le ginocchia. Sul petto, la scritta dello sponsor, una stampa talmente rigida e pesante che finiva per ripiegarsi e appoggiarsi venti centimetri più in basso.

Pinuccio, lo stopper (numero 5): di quelli rudi, nel solco della tradizione italiana. Un morditore di caviglie implacabile, che all’avversario non dava respiro. Aveva adattato a borsone una piccola tracolla dell’Alitalia, rimediata da qualche parente venuto dall’Australia, e sosteneva una sua personalissima teoria sull’elasticità delle scarpe da gioco. Bastava calzarle dentro una bacinella di acqua bollente, per una mezzoretta, e quelle sarebbero scasciate. Leggenda metropolitana vuole che Pinuccio abbia utilizzato lo stesso paio di scarpe da calcio, dal 37 al 40 di piede.

Massimo, un’ala destra velocissima (numero 7). Poca tecnica, ma tantissimo fiato, ha realizzato i gol più “sporchi” della storia del calcio paesano: di ginocchio, di coscia, di stinco, con qualsiasi parte del corpo, che utilizzava come la pala di una ruspa, per spazzare tutto ciò che intralciava la sua corsa. A fine partita, era il più temuto dello spogliatoio. Mai serrare le palpebre, quando c’era lui nei pressi delle docce: il bruciore agli occhi, causato dal sapone, era di gran lunga preferibile ai suoi scherzi terrificanti.

Domenic era invece l’ala sinistra (numero 11, che ogni tanto diventava 10, quando veniva spostato nel ruolo di “regista”), tutto mancino – la scarpa destra praticamente nuova – e portava annodato al braccio sinistro, al posto della fascia di capitano, un vecchio calzettone strappato. Tanta corsa anche per lui, con ai piedi le “Kevin Keegan” regalategli da un suo zio emigrato in Francia, e un fisico che non voleva saperne di crescere, nonostante l’uovo sbattuto consumato ogni mattina a colazione.

Tutti e quattro avevano una passione smisurata per il calcio, che praticavano per strada, nelle piazze, in pineta. Finivano gli allenamenti e continuavano a giocare ovunque si imbattessero in altri ragazzini con un pallone sotto il braccio. Ogni giorno, interminabili partite, che d’estate iniziavano la mattina e proseguivano, dopo la pausa pranzo, fino al tramonto.

Fosse stato per loro, dubbi non ce n’erano. La partita andava disputata, neve o non neve. Ma toccava all’arbitro decidere, non ai ragazzi.

Un sole pallido alimentava un flebile ottimismo: sentivano che qualcosa poteva ancora accadere e che, forse, si poteva tentare di raddrizzare il corso di quella giornata.
Luigi ebbe un’idea geniale, che sia stata sua o presa in prestito dopo averla ascoltata, chissà quando e dove, da qualcuno più esperto, non importa. Il sale squaglia la neve. “Ve l’assicuro, fidatevi” – con quello sguardo furbo che i suoi compagni conoscevano bene, soddisfatto per la trovata. Detto, fatto. Misero insieme i pochi spiccioli che si ritrovarono nelle tasche e li investirono in pacchi di sale grosso da un chilogrammo. La putijara neppure si chiese cosa mai avrebbero dovuto fare con tutto quel sale quei ragazzini, che fecero immediatamente ritorno al campo per cercare di spargerne su quanta più superficie possibile.

Il sale e il sole di marzo resero il terreno di gioco un’immensa pozzanghera. Eppure si giocò. Né l’arbitro, né gli avversari avevano intenzione di farsi di nuovo tutti quei chilometri, per disputare l’incontro un paio di settimane dopo. A fine partita, tanti piccoli pulcini inzuppati fin nelle mutande si tuffarono sotto le docce caldissime, contenti per avere giocato e, ancor di più, felici per il clacson di una vecchia Fiat 500 che una mamma scatenata faceva suonare all’impazzata ogni volta che la squadra segnava. Sei strombazzate soltanto in quel pomeriggio. E tante altre fino alla fine del campionato, concluso trionfalmente un paio di mesi più tardi.

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19 agosto 1970

Il campo sportivo è il “Claudio Morisi” nella versione precedente, con il rettangolo di gioco perpendicolare rispetto all’attuale.

La combriccola, invece, era composta da un gruppo di ragazzi oggi con i capelli grigi.

La partita, un incontro estivo tra giovani promesse e vecchie glorie, un’occasione per trascorrere in allegria un caldo pomeriggio d’agosto.

Dedico questo post alla memoria di Giuseppe Saccà (“U pileri”), un amico che ci ha lasciati troppo presto.

Sant’Eufemia d’Aspromonte, 19 agosto 1970

Eufemiese Vecchie Glorie – Eufemiese Juniores 2-3

Eufemiese Juniores:

In alto, da sinistra: Vincenzo Tripodi (allenatore), Enzo Galante, Pino Luppino, ‘Ntoni Migliardi, Edy Petris, Pino Fedele, Mimmo Fedele (presidente), Pasquale Creazzo (segretario).
In basso, da sinistra: Pino Pangallo, Saverio Garzo, Luigi Nolgo, Peppe Saccà, Carmelo Delfino, Nino Lupoi.

Un grazie ad Elisa, che ha gentilmente messo a disposizione del blog la foto.

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Eufemiesi Bikers

La divisa somiglia a quella del campione d’Italia e la indosseranno undici nuovi campioni (con la speranza che presto diventino di più), lungo le strade della provincia. I più audaci anche oltre. È facile prevedere due fasce, una selezione già evidente nella passata stagione, quella del rodaggio per i nuovi e per coloro che non salivano su una bicicletta da corsa da tempo immemorabile, dagli anni della rivalità tra Saronni e Moser, tanto per intenderci. Campioni e gregari, come in tutte le squadre che si rispettino. I primi, serissimi negli allenamenti e attenti nell’alimentazione, macineranno chilometri su chilometri, cercando sempre di spostare in avanti l’asticella dei propri limiti. I secondi si accontenteranno di ammirare il panorama da Sant’Elia, o di attraversare i paesini toccati dalla vecchia Littorina, o di sfiorare il mare di Scilla per poi inerpicarsi sui tornanti che riportano a casa. Soprattutto, non avvertiranno alcun senso di colpa se le loro prestazioni a tavola saranno migliori di quelle sui pedali.
Affiliati alla federazione ciclistica italiana, gli “Eufemiesi Bikers” si sono dati uno statuto e un organigramma approvati all’unanimità. Presidente non poteva che essere Mimmo Fedele, volto storico del ciclismo eufemiese, già compagno di squadra di Girardengo. Vicepresidente Sarino Surace, lo “stilista” della squadra e uno dei due oriundi, insieme ad Antonio Forgione. Completano il direttivo il tesoriere Rocco Luppino, il segretario Enzo Fedele e il presidente onorario Lorenzo Genovese, la locomotiva umana. Senza nulla togliere al resto della squadra, Antonio, Rocco e Mimmo sono di un altro pianeta. Noi facciamo da contorno. Io per primo, tra l’altro preso “a prestito” dal pallone, che rimane sempre il mio unico vero amore. Il peso c’è, decisamente: come se pedalassi con lo zaino “tattico” sulle spalle. Non proprio il massimo. Gli altri “gregari” sono Cosimo Pinneri, che passa indifferentemente dal fuoristrada alla moto, allo sci, alla bici e a chissà quanti altri hobbies; Ninì Creazzo, che potrebbe avere un futuro (ma non ce l’avrà); Maurizio Luppino, che vorrebbe avere un futuro (ma non ce l’avrà); Domenico Colella, al quale di avere un futuro sulla bicicletta non frega niente.

[La primavera si avvicina, è ora di mettere a punto la bicicletta. La strada ci attende]

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Passeggiando in bicicletta

In due giorni ha superato le 30.000 visualizzazioni il video lanciato dal sito online di Repubblica che spiega come negli anni Settanta un vasto movimento di opinione pubblica riuscì a cambiare le politiche urbanistiche e dei trasporti dell’Olanda. L’onda emotiva degli “omicidi da traffico” (3.300 vittime nel 1971, tra cui 400 bambini) causati dalla motorizzazione di massa del decennio precedente e la crisi petrolifera del 1973 favorirono le politiche a sostegno dell’uso della bicicletta e proprio grazie all’impulso della società civile furono realizzate le prime piste ciclabili.
Il mini-documentario rientra tra gli strumenti di propaganda dei promotori della campagna di sensibilizzazione per avere città a misura di bici (“Cities fit for cycling”) iniziata una ventina di giorni fa a Londra, dopo l’incidente che ha mandato in coma una giornalista del Times, travolta da un camion mentre pedalava. Dall’Inghilterra, che ha pianto 1.275 ciclisti negli ultimi dieci anni, l’iniziativa si è rapidamente diffusa nel continente e, rilanciata da un gruppo di blogger, ha raccolto in Italia già oltre 20.000 adesioni. Alcuni punti del manifesto del movimento “Salva i ciclisti” – sottoscritto anche da qualche sindaco, tra cui Giuliano Pisapia – sono stati ora incardinati in un disegno di legge (“Interventi per lo sviluppo e la tutela della mobilità ciclistica”) presentato dal senatore del Pd Francesco Ferrante e sottoscritto da altri sessanta parlamentari, appartenenti trasversalmente a tutti gli schieramenti politici, ad esclusione della Lega.
La finalità della legge, fissata nell’articolo 1, è quella di “favorire la cultura del rispetto delle regole della circolazione stradale, dando maggiore tutela a chi utilizza la mobilità ciclistica, nonché ad incentivare e sviluppare l’uso della mobilità ciclistica”. Per raggiungere lo scopo, la legge prevede, tra l’altro, “la destinazione della quota del 2% del budget delle società dei gestori stradali e autostradali per la realizzazione di piste ciclabili” (art. 5), “l’obbligo del limite di 30 km/h di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili” (art. 7), la possibilità, per le aziende private o pubbliche e per le persone fisiche, di sponsorizzare “la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili anche attraverso l’attività di gestione di noleggi biciclette nelle suddette aree” (art. 8). Viene così riconosciuto il valore sociale della mobilità ciclistica, “parte integrante della moderna mobilità quotidiana”, ma anche “soluzione efficace e a impatto zero per gli spostamenti cittadini personali su mezzo privato”, da tutelare con provvedimenti che garantiscano una crescente sicurezza stradale.

[Un recente manifesto affisso a Londra e segnalatomi da Mario]

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