Tutto in una estate. L’estate del sogno infinito, del cuore in gola, delle sfilate per le strade del paese al suono assordante dei clacson. “Negli occhi tuoi voglia di vincere”, urlavano Edoardo Bennato e Gianna Nannini, come se avessero saputo in anticipo che due occhi spalancati avrebbero fatto innamorare l’Italia intera.
Totò Schillaci è stato tutto ciò che noi ragazzi avremmo voluto essere. Uno che si era fatto largo con la forza della volontà. Un potenziale delinquente che il calcio aveva tirato fuori dai pericoli della strada, a conferma della potenza salvifica dello sport.
Un mese per entrare nella storia come una rasoiata. Come un guizzo dei suoi, rapidissimo. Il difensore si distrae un attimo e Totò-Gol, in qualche modo, la butta dentro: di testa, di piede, di spalla, di stinco. Alla Inzaghi, se non fosse che Superpippo sarebbe arrivato qualche anno dopo.
Le notti magiche di Schillaci sono una felicità bruciante, uno stato di grazia irripetibile: “l’istante in cui scocca l’unica freccia/ che arriva alla volta celeste/ e trafigge le stelle”, come nella canzone di Ivano Fossati.
Nell’estate del 1990 due ragazzi piangono sul tetto del bar mentre staccano da un palo la bandiera dell’Italia, dopo la sconfitta ai rigori nella semifinale contro l’Argentina. Il calcio era tutta la loro vita, consumata su campi terrosi, nelle piazze, nelle strade, in pineta, ovunque si potessero immaginare due porte e correre dietro ad un pallone fino a quando non faceva buio.
Totò Schillaci è nostalgia per un tempo in cui tutto sembrava possibile, prima che la gioventù svanisse in un battito di ciglia.
L’Eufemiese è ritornata
La libertà è un colpo di tacco
Mancavano dieci giorni al compimento dei miei nove anni quando, il 5 luglio 1982, il capitano del Brasile Socrates beffò Dino Zoff con un rasoterra tra palo e gamba sinistra, nello stadio Sarrià di Barcellona che ospitava l’ultima partita del secondo turno eliminatorio del gruppo C, nel mondiale di Spagna. Ma il gol segnato dal Doutur (era laureato in medicina) non servì alla squadra allenata da Tele Santana, schiantata dalla tripletta di Paolo Rossi che ribaltò anche il secondo pareggio di Falcao e trascinò i ragazzi di Enzo Bearzot in semifinale e infine all’apoteosi del Bernabeu contro la Germania. Per i tifosi verdeoro fu “la tragedia del Sarrià”, seconda soltanto al Maracanazo contro l’Uruguay nel 1950. Troppo impegnati a contemplare il proprio ombelico, si disse dei vari Socrates, Falcao, Zico, Junior, Cerezo, Eder, interpreti della Seleção più talentuosa e meno vincente di tutti i tempi.
Non sapevo ancora niente di quello spilungone barbuto, proprio in quegli anni protagonista di una vicenda sportiva, umana e politica capace di cambiare la storia del Brasile.
Intingendo la penna nell’inchiostro della poesia e della malinconia, Riccardo Lorenzetti ha ricostruito in La libertà è un colpo di tacco (pubblicato nel 2014 da Armando Curcio Editore, con la prefazione di Federico Buffa) l’epopea culminata con i due campionati paulisti consecutivi (1982 e 1983) conquistati dal Corinthians di San Paolo.
Il contesto del romanzo è quello del Brasile del regime dei “Gorillas”, che governò il Paese tra il 1964 e il 1985. Una dittatura militare ormai ai titoli di coda, alla cui caduta contribuì in maniera decisiva il Corinthians dell’allenatore Mario Travaglini, del presidente Waldemar Pires e del sociologo direttore sportivo Adilson Monteiro Alves, del leader Socrates, elegante esteta del colpo di tacco, la giocata imprevedibile e spettacolare che fu il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Il Corinthians di Wladimir, Casagrande, Zenon, Ataliba, Biro-Biro, Zé Maria: «Gente che avrebbe potuto indifferentemente vincere un campionato. O scatenare una rivoluzione. E infatti, fecero entrambe le cose».
Socrates fu l’ideatore della “democrazia corinthiana”, fondata sui principi dell’uguaglianza, della partecipazione e della libertà: «I calciatori devono votare. Quello che non avviene nel nostro Paese da vent’anni». Una sorta di comune caratterizzata dall’autogestione e dal ricorso al voto tra calciatori, dirigenti e magazzinieri per decidere sull’organizzazione dello spogliatoio, la scelta del ritiro, il menù del pranzo, la modalità degli allenamenti, la formazione da mandare in campo, la campagna acquisti e la composizione della rosa, oltre che per stabilire la strategia “politica” del club: lo striscione portato a centrocampo all’inizio delle partite (“Vincere o perdere, ma sempre con democrazia”) e le scritte sulle magliette: Democracia Corinthiana o Dia 15 vote, con la quale i brasiliani furono esortati a partecipare alle elezioni che si sarebbero tenute, per la prima volta dopo quattro lustri, nel novembre del 1982. Un modello di democrazia che incise profondamente nel clima asfittico degli anni della dittatura, con ripercussioni sociali e politiche sconvolgenti.
In un’intervista del 1983, Socrates aveva dichiarato: «Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il titolo». Morì di domenica, il 4 dicembre 2011, poche ore prima del derby Corinthians-Palmeiras. Da brividi, nel minuto di silenzio osservato a inizio partita nello stadio Pacaembu di San Paolo, il pugno chiuso alzato da tifosi e giocatori per dare l’addio al proprio idolo con il gesto che Socrates ripeteva dopo ogni suo gol. A fine gara il Corinthians si laureò campione nazionale, nel nome del Doutur.
Il signore vale per tutti
«Il signore vale per tutti». Poi partiva il riconoscimento dei ragazzini da parte dell’arbitro, che precedeva l’ingresso in campo. Non tutti avevano la possibilità di pagare per una fototessera, circolavano fotografie surreali: indimenticabile quella, a figura intera, di un bambino che teneva con la mano destra un lungo giglio bianco, nel giorno della prima comunione. L’arbitro pronunciava i cognomi seguendo l’ordine della distinta. I calciatori rispondevano dichiarando il nome e mostrando il numero della maglia, con una veloce torsione del busto. L’ultimo chiamato era il guardalinee, l’uomo più ignorato del pianeta, visto che il direttore di gara non teneva in nessuna considerazione le sue segnalazioni, sapendole spacciatamente di parte. Ma ogni squadra doveva avere il proprio: un dirigente accompagnatore o un tesserato che non figurasse tra i sedici della distinta, perché troppo scarso o perché infortunato.
Corsetta blanda fino a centrocampo, saluto agli spettatori anche quando non c’era nessuno e iniziava il match. Le linee del rettangolo di gioco non sempre erano dritte. Anche dare una mano al custode del campo per “squadrare” il campo era uno spasso. Il gran premio con il carrello segnacampo riempito di calce lasciava sul terreno qualche imperfezione. Soprattutto quando, per fare presto, non si tendeva il filo sul quale occorreva passare con l’attrezzo. O quando si era perso troppo tempo per scavare con la pala il solco necessario per svuotare la pozzanghera d’acqua che immancabilmente si formava dopo la pioggia proprio sulla linea di porta.
Il custode, noto come “il professore”, era un personaggio mitico, artista del tè caldo in inverno e della “limonina” quando le temperature cominciavano a salire. Bevanda da distribuire nell’intervallo tra primo e secondo tempo, per riscaldarsi o per dissetarsi, mentre il mister imprecava. Possedeva un oggetto del quale probabilmente esisteva un unico pezzo, il suo: un’incredibile musicassetta porno che i ragazzini ascoltavano dal suo mangianastri prima degli allenamenti, per ammazzare l’attesa. Era tutto un sospirare e gemere, ma anche un encomiabile lavoro di fantasia. L’uomo più buono del mondo, nonostante i continui richiami ai due ragazzini che non volevano saperne di uscire dalla doccia e andavano via dal campo per ultimi, quando già era buio, perché si dilungavano a chiacchierare seduti sul piatto doccia incrostato di ruggine, sotto il getto dell’acqua bollente che finalmente potevano accogliere tenendo strette le palpebre. Mai chiudere gli occhi, invece, quando si era in tanti, anche a costo di bruciarsi gli occhi con il sapone. Si rischiava di diventare vittime di scherzi atroci. Il più accettabile consisteva nell’arrivo improvviso, su una gamba o altrove, del getto caldissimo della pipì di un compagno. Quando “il professore” si era stancato di urlare che era ora di uscire dalla doccia, staccava la corrente del boiler: fine del film.
Era sempre lui a lavare le divise, che erano quelle della “prima squadra” e dentro le quali i più piccoli scomparivano. La stampa sul petto del nome dello sponsor era una sorta di mattonella che, per caduta, si appoggiava sul bassoventre e diventava pesantissima sotto la pioggia. Come il pallone, anche l’unico mezzo discreto che, se maledettamente un tiro sbagliato gli faceva oltrepassare la recinzione, costringeva a giocare il resto della partita con quello di riserva, scorticato e deformato, dall’eloquente colore grigio scuro. Poteva capitare che non ci fosse il tempo per lavare la divisa utilizzata dai “grandi”, ma per nessuno dei ragazzi è mai stato un problema indossarla sporca. Non era importante, così come non lo erano pantaloni e calzettoni dei più svariati colori. Quelli abbinati alla maglia scomparivano infatti con una certa facilità, anno dopo anno.
L’unica vera preoccupazione la dava il portiere, che veniva a giocare di nascosto, senza che i genitori ne fossero al corrente. Proprio per questo non faceva la doccia, né portava con sé il borsone. Non era il solo a non avercelo. Dentro provvidenziali buste di plastica veniva infilato tutto il necessario, comprese le scarpette mezze scassate, già utilizzate da qualche compagno che aveva acquistato quelle nuove. Memorabile, tuttavia, una tracolla dell’Alitalia adattata allo scopo.
Ragazzini, borsoni e buste si stringevano dentro un’immarcescibile 126 bianca, un fiabesco Maggiolone la cui caratteristica era un buco sotto il tappetino attraverso il quale si poteva osservare l’asfalto della strada, una 127 rossa sulla quale si sfiorò la tragedia quando le piccole pesti svuotarono il plotoncino di fragole incautamente sistemato sopra la mensolina, durante il viaggio di ritorno da Bagnara. E poi lei, la 131 azzurra che non trasportò mai meno di sette calciatori, alcuni dei quali venivano fatti scendere prima dell’arrivo a Gioia Tauro, si arrampicavano sul costone e poi venivano ripresi a bordo della vettura che aveva passato indenne il posto di blocco all’uscita dello svincolo autostradale. Scoppiammo a ridere quando il conducente ci svelò che in Australia aveva imparato il significato dell’acronimo SOS, mentre uno accanto all’altro facevamo la pipì in una piazzola d’emergenza: «Salvate le nostre anime». Aveva ragione lui: Save Our Souls.
Ci abbiamo provato.
Pablito
“I nostri miti morti ormai”, come in una celebre canzone di Guccini. Ho iniziato a canticchiare “Incontro” subito dopo avere saputo che anche Pablito ci ha lasciati, in questo terrificante 2020. Un riflesso pavloviano: «Siamo qualcosa che non resta/ frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno». I simboli di un bambino di nove anni cresciuto a pane con l’olio e Gazzetta dello sport, Corriere dello sport, Tuttosport, Intrepido sportivo e Guerin sportivo. Il Bar Mario era una sorta di emeroteca olimpionica. Il bambino di nove anni amava il calcio visceralmente, volava sulle ali della sua bellezza poetica, che cercava di imitare ovunque si potesse correre dietro ad a un pallone: piazze, strade, angoli abbandonati che venivano convertiti in campo da calcio. La bellezza non ha colori, per questo collezionava i poster dei suoi supereroi preferiti. Accanto ai nerazzurri, quelli bianconeri di Zoff, Scirea, Tardelli, Rossi e della colonia straniera sbarcata nel campionato più bello del mondo: Platini, Rummenigge, Falcao, Zico, Maradona, Passarella, Junior, Socrates, Cerezo.
Nell’immaginario collettivo Paolo Rossi rimarrà per sempre Pablito, il ragazzo timido e di poche parole capace di trasformare in gol il più sbilenco dei cross, un rimpallo o un pallone vagante dentro l’area. Nell’era moderna, soltanto Pippo Inzaghi gli si è avvicinato come natura e stile di gioco.
Paolo Rossi, per tutti “Pablito” dopo il “Mundial ’82”. Di questi tempi non lo sarebbe diventato. Due anni di squalifica per calcio scommesse e la convocazione poco prima del mondiale, dopo una lunghissima inattività. Nell’Italia di oggi, assetata di sangue, sarebbe stato crocifisso in piazza. Ma quella era un’epoca di uomini veri e un “hombre vertical” come il commissario tecnico Enzo Bearzot non era certo tipo da farsi intimidire da chi, eufemisticamente, storceva il naso. Neanche quando, nelle prime tre partite, Paolorossi (sì, tutto attaccato) era stato un fantasma. Credeva nei suoi “il vecio”. Credeva in Paolorossi, sempre titolare a dispetto di tifosi, giornalisti e sedicenti padreterni del calcio. Bearzot sapeva che in Italia basta poco per passare dal disprezzo all’idolatria: a Rossi bastarono tre partite per diventare Pablito e per fare scoppiare di gente il carro del vincitore. Tre gol al Brasile, nella partita di calcio più celebrata insieme al 4-3 alla Germania nel 1970, due alla Polonia in semifinale e uno alla Germania in finale, sotto la pipa felice e sorniona di Sandro Pertini.
Pablito aveva avuto la sua seconda possibilità e, con sé stesso, aveva riscattato l’Italia intera: aveva affermato il principio che la polvere non è per sempre, così come l’altare. Che si può rinascere ogni giorno. Una lezione che molti oggi sembrano avere dimenticato, seguaci invasati della furia iconoclasta di uno Stato che si vorrebbe etico.
Ad ogni partita il Bar Mario registrava il pienone. Dopo la vittoria con il Brasile avevo rischiato di impiccarmi con la tenda mentre correvo fuori per esultare. Portai per giorni i segni sul collo e le ginocchia sbucciate. In quell’indimenticabile 11 luglio sembrava di stare in curva. I più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Gli occhi fissi sul Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza sopra due banchi, per consentire anche ai più distanti di vedere qualcosa. E il cuore che andava a mille, fino al grido di Nando Martellini: «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!». Gli azzurri che si rincorrono nel Bernabeu, la magia e la malinconia di un tempo lontano, il sorriso e le braccia al cielo di Pablito: “le cose sognate e ora viste”, proprio come nella canzone.
Splendi, Diego
Scrivo di te di notte, l’ora del dialogo con le stelle. L’ora dei sogni. L’ora dell’amore. Perché sei stella, sogno e amore. Sei “Pibe de oro” e “mano dei Dios”, sei “Isso”: il liberatore dei popoli oppressi, il riscatto degli scugnizzi, il bambino che grida che il re è nudo mentre attorno il sistema volge lo sguardo da un’altra parte. Per paura o per debolezza. Due sentimenti che non ti appartengono, che non possono appartenere a chi ha respirato la polvere di Villa Fiorito.
Corri, divertiti, sii felice
Chissà se per te sarà un ricordo speciale quel pomeriggio trascorso insieme, da rinnovare con il sorriso che i grandi riservano agli episodi della propria fanciullezza; con la tenerezza che suscitano l’innocenza e la capacità di gioire per ogni apparente piccola cosa.
La tua prima volta in un campetto di calcio. Il pallone che sembra sfuggire veloce e il rettangolo verde una distesa vastissima per i tuoi pochi anni.
Tranquillo, sono qua. Il viso contro la recinzione, osservo la tua corsa inizialmente defilata rispetto agli altri. È tutto nuovo per te, giochi e bambini: è per quello, credo. Ogni tanto ti giri verso di me. Per essere guardato, per essere rassicurato dalla mia sola presenza. Mi piace la sensazione di questa tua assoluta fiducia in me, che sto fuori ma ci sono. Pronto eventualmente ad intervenire, come un supereroe invincibile.
Sono qua, e tu sei bellissimo con quelle gambette.
Sei bellissimo quando vai avanti e indietro, e ogni tanto ti fermi per prendere fiato.
Sei bellissimo quando mi corri incontro e ti aggrappi al mio collo.
Sei bellissimo quando mi racconti le tue impressioni su questa nuova scoperta.
Sei bellissimo quando ascolti le mie parole.
Perché, vedi, è vero che hai segnato “da solo”, calciando un calcio di rigore, mentre non ci sei riuscito quando giocavi con tutti gli altri.
Capita, quando il campo è troppo grande o se non ci si trova in una condizione favorevole; se ti trovi lontano dalla porta, ad esempio.
La vita dei grandi è uguale. Le difficoltà dipendono anche là dalle dimensioni del campo e dalla posizione che si occupa. Non si segna sempre. A volte si è addirittura capaci di fallirli i calci di rigore. E comunque ci sono gli altri, bisogna farci i conti: nel bene e nel male.
Eri contento per avere dato il “cinque” al compagno goleador. È una grande virtù riuscire a gioire dei successi di un amico o di una persona cara. Purtroppo non sempre è così, in futuro avrai modo di verificarlo tu stesso.
Ti sei divertito, sei stato felice: conta solo questo, ricordalo. Anche fuori dal rettangolo di gioco.
Il mio 11 luglio 1982
Pochi giorni dopo quell’11 luglio avrei compiuto nove anni. Per un bambino di nove anni i calciatori non sono uomini, ma supereroi. Come Superman o Batman, di quella genia insomma.
Non era iniziato bene il mondiale degli azzurri. Tre pareggi striminziti contro Polonia (0-0), Perù (1-1, gol di Bruno Conti), Camerun (1-1, gol di Ciccio Graziani) e il passaggio al secondo turno, in un girone di ferro contro l’Argentina di Maradona e Ardiles e il Brasile di Falcao e Zico (ma anche di Socrates, Junior, Cerezo). La critica e gli italiani sparavano quotidianamente contro gli azzurri. Per la prima volta nella storia del calcio italiano fu adottato il silenzio stampa. A parlare con i giornalisti, soltanto il capitano Zoff e l’allenatore Bearzot, entrambi friulani, entrambi taciturni.
Come spesso accade all’Italia quando si affaccia sul baratro, la squadra si compattò attorno al commissario tecnico e riuscì a realizzare l’impresa: 2-1 all’Argentina (Cabrini e Tardelli); 3-2 al favoritissimo Brasile (tripletta di Rossi); 2-0 alla Polonia in semifinale (doppietta di Rossi).
Il mio idolo nerazzurro in quel mondiale era Oriali, i cui polmoni e la “vita da mediano” sarebbero stati in seguito celebrati da Ligabue. Ma quando venivano chiamati in causa davano il proprio contributo Marini, Altobelli e il diciottenne Bergomi, lo “zio” che nascondeva la sua età dietro due incredibili baffoni neri e che disputò da veterano la finale. Ma c’erano anche i mostri sacri bianconeri Zoff, Scirea e Gentile, Cabrini con la sua modernità, il genio di Conti, il fiuto di “Pablito” Rossi e su tutti, almeno per me, Tardelli, per il quale stravedevo nonostante la Juve.
Ad ogni partita il “Bar Mario” registrava il pienone. Dopo la vittoria con il Brasile avevo rischiato di impiccarmi con la tenda mentre correvo fuori per esultare. Portai per giorni i segni sul collo e le ginocchia sbucciate. Quell’11 luglio sembrava di stare in curva. I più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Il televisore era un Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza sopra due banchi, per consentire anche ai più distanti di vedere qualcosa.
Non facemmo nemmeno in tempo a recriminare per il rigore fallito da Cabrini, che il solito Rossi ci portò in un sogno dal quale ci svegliammo dopo l’urlo di Tardelli e il sigillo di “spillo” Altobelli. Indimenticabile il labiale del presidente della Repubblica Sandro Pertini, accorso a Madrid per la finale, dopo il terzo gol: «Non ci prendono più» (e altrettanto indimenticabile la storica partita a scopone sull’aereo presidenziale: Pertini e Zoff contro Bearzot e Causio, con la coppa del mondo appoggiata sul tavolo).
«Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!» con la voce emozionatissima di Nando Martellini al triplice fischio. Poi uno scatto velocissimo verso l’uscita e a piedi fino a piazza Municipio, con le bandiere al vento e il cuore che andava a mille.
Sportività di provincia
Dai, adesso diamoci una calmatina. Bel gesto l’appaluso tributato dai tifosi juventini a riconoscimento della bellezza del gol di Cristiano Ronaldo. Un atteggiamento che rende onore ai supporters bianconeri, da apprezzare e incoraggiare affinché diventi la regola sugli spalti. Ma anche nella vita di tutti i giorni, sul lavoro, nei rapporti interpersonali. Basta invidie, basta rancori: viva la sportività!
La cartolina turistica però risparmiatecela. Non è credibile perché la storia dice altro.
Penso che il contesto internazionale incoraggi questo genere di reazioni. Siamo italiani, a noi interessa soltanto che l’erba del nostro vicino sia più secca della nostra. I giardini più lontani riusciamo ad apprezzarli senza eccessivi rodimenti di fegato. Se si vuole, c’entra un po’ anche l’attitudine provincialotta a rivelarsi forti e arroganti con i deboli, deboli e dimessi con i forti.
Il Real Madrid gioca un altro campionato, in fondo non viene considerato secondo i dettami che impone la categoria del nemico. Per questo riusciamo ad essere buoni e obiettivi, qualità che si manifestano raramente quando l’avversario è, appunto, il nostro vicino di casa con il suo giardino più curato e fiorito del nostro.
Sarebbe bello che questo encomiabile sforzo di obiettività emergesse anche quando l’avversario è un concorrente diretto per la vittoria nel campionato italiano. Che le “sviste” arbitrali a favore non venissero rivendicate quasi con orgoglio, con il ghigno sadico e cinico di chi gode nel ribadire il concetto filosofico cardine dello stile Juve: «Conta solo vincere».
Non ricordo applausi per le prodezze di Maradona o di Luis Nazario de Lima Ronaldo, tanto per citare due fenomeni probabilmente antipatici perché curavano giardini confinanti con quello bianconero.
Milano chiama, Napoli risponde
La trasmissione sportiva «90° Minuto» fu fenomeno di costume negli anni Settanta e Ottanta. Un rito collettivo celebrato da milioni e milioni di telespettatori sintonizzati ogni domenica pomeriggio su RaiUno per vedere, dopo la loro conclusione, le immagini delle partite del campionato disputate tutte, rigorosamente, allo stesso orario. Rito officiato fino alla sua morte (1990) da Paolo Valenti, un signore d’altri tempi: «Amici sportivi, buon pomeriggio», il suo consueto incipit.
Collegamenti da tutti i campi di serie A (16 squadre, la vittoria valeva due punti), big match della serie B e, in chiusura di trasmissione, la lettura dei risultati delle partite di serie C.
Ripenso con nostalgia a quegli anni, all’epica delle partite ascoltate grazie a «Tutto il calcio minuto per minuto». Tutti attorno alla radio, al bar, con in mano le schedine per aggiornare negli spazi bianchi delle matrici i risultati mano a mano che qualche squadra segnava. I più grandi sulle macchine: davanti alla pineta, parcheggiate accanto ai marciapiedi, al municipio o al campo sportivo (magari mentre giocava l’Eufemiese). Poi l’attesa di «90° Minuto», difficile da spiegare all’epoca delle pay-tv e dei contenuti video su internet in tempo reale.
Abbiamo amato Paolo Valenti come uno zio e ci siamo affezionati ai corrispondenti dai vari campi come se fossero parenti in visita, preceduti dal jingle indimenticabile della sigla della trasmissione. Personaggi semplici, alcuni all’apparenza strampalati ma in realtà dotati di cultura, professionalità e attaccamento alla Rai. Da Firenze Marcello Giannini, che era stato la “voce” dell’alluvione del 1966; da Ascoli Tonino Carino con le sue giacche assurde; Giorgio Bubba da Genova e Gianni Vasino da Milano, dopo la morte del grandissimo Beppe Viola; Cesare Castellotti con le sue cravatte granata da Torino; da Roma un giovane Giampiero Galeazzi; Riccardo Cucchi da Campobasso e Lamberto Sposini da Perugia; Emanuele Giacoia da Catanzaro e Puccio Corona da Messina.
E poi Luigi Necco, il più simpatico di tutti con quel suo faccione, gli occhiali spessi e i tifosi del San Paolo che finivano sistematicamente per travolgerlo. Raccontò i trionfi del Napoli del Pibe de Oro («San Gennaro perdona, Maradona no»), ma anche le salvezze dell’Avellino di Barbadillo e Diaz, di Juary e Dirceu. Forse il primo a fare il gesto della “manita”, la sua ironia garbata e il suo sorriso («Milano chiama, Napoli risponde», ai tempi del testa a testa con il Milan di Arrigo Sacchi) in fondo ci ricordavano che il calcio è un gioco. Un bel gioco però: «Nella mia carriera ho scritto un po’ di tutto, dalla malavita all’archeologia, però niente è stato più bello del calcio».
*Luigi Necco fu giornalista di cronaca giudiziaria (per il suo lavoro fu gambizzato dalla camorra) e grande esperto di archeologia: suo il ritrovamento del “tesoro di Troia” scomparso alla fine della seconda guerra mondiale. In suo omaggio, Rai Cultura stasera alle 23.00 e Rai Storia domani alle 18.00 proporranno lo Speciale “Mesopotamia”, nel quale il giornalista racconta il tragico destino dei tesori della Mesopotamia, distrutti dall’Isis.