Raccolta differenziata

Come tutti i giorni, stamattina sono uscito per differenziare il vetro, un’operazione che faccio con molto piacere, più del cartone o della plastica. Non conosco il motivo, sarà la campana verde a mettermi allegria, ma in casa (e soprattutto al bar di mio padre) l’addetto al vetro sono io sin da quando i contenitori per la raccolta sono stati distribuiti un po’ in tutto il paese. In realtà, il servizio non è eccellente: qualche campana è rotta e diverse sono stracolme. Non si sa da quanto tempo non vengono svuotate, per cui trovarne di utilizzabili è un’impresa. Attualmente mi servo di quella situata in contrada Giardinello, l’unica usufruibile nel rione Pezzagrande. Stamattina ho però trovato una sorpresa, anzi tre. Proprio dietro la campana.

Tre piccolissimi cuccioli di cane che qualcuno aveva abbandonato dentro una scatola di cartone. Gli occhi ancora chiusi, uno addosso agli altri, come per riscaldarsi. Li ho portati a casa e li ho affidati alle cure di mia mamma, che ha provveduto immediatamente a dare loro del latte con una siringa. Nel frattempo ho cercato di vedere a chi poterli affidare.

Mi sono quindi rivolto al Corpo Forestale dello Stato, che mi ha messo in contatto con una gentilissima signora di Palmi, Maria Saccà, una volontaria dell’ENPA (Ente nazionale protezione animali), alla quale ho nel pomeriggio affidato i tre cuccioli. Lei dice che stanno bene e che ce la faranno. Se qualcuno fosse interessato, può recarsi in contrada Fracà, a Palmi (o contattare me). La cosa importante è che i piccoli sono in buone mani, saranno allevati con cura e tra circa due mesi, muniti di microchip, verranno dati in affido (dopo un periodo di prova) a chi ne farà richiesta.

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Vittorio Arrigoni, un vincitore

È trascorso un anno dall’uccisione di Vittorio Arrigoni, l’attivista dell’International Solidarity Movement, organizzazione non governativa che opera nella Striscia di Gaza in difesa dei diritti umani della popolazione palestinese: sulle ambulanze che soccorrono i feriti degli attacchi dell’esercito israeliano, sulle barche dei pescatori ai quali viene impedito di pescare oltre tre miglia dalla costa (praticamente, dove ci sarebbe qualcosa da pescare), sui terreni agricoli coltivati oltre il limite imposto da Israele.
Circa un mese fa, avevo parlato della vicenda giudiziaria, per la quale ci sono fondati timori che possa concludersi in una farsa e senza la condanna dei responsabili. Oggi però voglio ricordare Vik con le sue parole, da ascoltare dal primo al quarantasettesimo dei minuti di un bel documentario. È un peccato che questo video, fino ad ora, abbia avuto su youtube soltanto 2700 visualizzazioni. Dentro c’è tutto: l’idealismo, l’impegno, la passione, il pacifismo e l’amore. E l’invito, la “firma” di Arrigoni: “restiamo umani”. Si resta umani anche deponendo un fiore sulla tomba di un soldato israeliano all’interno del cimitero delle vittime della seconda guerra mondiale, un gesto accompagnato da parole che si commentano da sole: “Io che non credo alla guerra, non voglio essere seppellito sotto nessuna bandiera. Semmai vorrei essere ricordato per i miei sogni. Dovessi un giorno morire – fra cent’anni – vorrei che sulla mia lapide fosse scritto quello che diceva Nelson Mandela: Un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare. Vittorio Arrigoni: un vincitore”.

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Se non cinquanta, sono comunque molte le cose da fare prima dei dodici anni (e anche dopo)

È di questi giorni il risultato di una ricerca sulle abitudini dei bambini fino a dodici anni (per l’esattezza, undici anni e tre quarti) realizzata per conto del National Trust, ente senza fini di lucro, costituito nel 1895, che ha come mission la tutela e la promozione di alcuni tra i più belli e storici paesaggi inglesi. In Inghilterra, come in gran parte del mondo “civilizzato”, è ormai una rarità incontrare ragazzini che giocano all’aperto, salvo che non siano portati dai genitori o dai nonni in qualche spazio chiuso (pineta, parchi, piazze). Chi ha i capelli bianchi, ma anche soltanto sale e pepe, ha invece avuto un’infanzia e un’adolescenza vissute “on the road”. Interminabili partite di pallone per strada (altro che supplementari: un unico tempo fino al calar del sole); un genere di nascondino (“a tola”) per il quale i limiti territoriali erano dati dai confini geografici dell’intero paese; l’attraversamento del ponte e della galleria ferroviaria a piedi o con le biciclette, tenendo le orecchie ben aperte per correre a perdifiato e rifugiarsi nella “nicchia” appena si sentiva in lontananza la sbuffata della Littorina.
Le cause di questo mutamento sono molteplici, in primo luogo l’eccessiva apprensione di alcuni genitori, che a volte è terrore ingiustificato, visto che, più o meno, ce la siamo cavata tutti. Ma anche i nuovi passatempi, svolti dentro le mura di casa, con una connessione internet o una consolle. La “Playstation Generation” esce pochissimo: neanche uno su dieci gioca frequentemente in spazi aperti, addirittura il 30% non sa andare in bici. Il National Trust ha lanciato la campagna delle “50 cose da fare prima di avere undici anni e tre quarti”, selezionandole da una lista di 400 compilata da una commissione di esperti composta da volontari del proprio staff:

1. Arrampicarsi su un albero
2. Rotolare giù da una grande collina
3. Accamparsi all’aperto
4. Costruire un rifugio
5. Far rimbalzare i sassi sull’acqua
6. Correre sotto la pioggia
7. Far volare un aquilone
8. Pescare con il retino
9. Mangiare una mela appena colta dall’albero
10. Giocare a conker (un gioco tradizionale inglese)
11. Lanciare palle di neve
12. Partecipare a una caccia al tesoro sulla spiaggia
13. Fare una torta di fango
14. Costruire una diga su un ruscello
15. Andare sullo slittino
16. Seppellire qualcuno sotto la sabbia
17. Organizzare una gara di lumache
18. Stare in equilibrio su un albero caduto
19. Dondolarsi da una corda
20. Giocare a scivolare nel fango
21. Mangiare more raccolte dai rovi
22. Guardare dentro un albero
23. Esplorare un’isola
24. Correre a braccia aperte facendo l’aeroplano
25. Fischiare usando un filo d’erba
26. Andare in cerca di fossili e ossa
27. Guardare l’alba
28. Scalare un’enorme collina
29. Visitare una cascata
30. Dar da mangiare a un uccello dalla mano
31. Andare a caccia di insetti
32. Cercare uova di rana
33. Catturare una farfalla con il retino
34. Inseguire animali selvatici
35. Scoprire cosa c’è in uno stagno
36. Richiamare un gufo imitando il suo verso
37. Osservare le strane creature tra le rocce di un lago
38. Allevare una farfalla
39. Dare la caccia a un granchio
40. Fare una passeggiata nel bosco di notte
41. Piantare qualcosa, coltivarla e mangiarla
42. Nuotare in mare, in un fiume, insomma, non in piscina
43. Fare rafting
44. Accendere un fuoco senza fiammiferi
45. Trovare la strada servendosi solo di mappa e bussola
46. Arrampicarsi sui massi
47. Cucinare in campeggio
48. Fare discesa in corda doppia
49. Giocare a geocaching (una caccia al tesoro con il GPS)
50. Andare in canoa su un fiume

Esclusi i giochi tipicamente inglesi, le attività stravaganti (caccia al tesoro con il GPS), quelle obiettivamente improbabili, soprattutto per un dodicenne (accendere il fuoco senza fiammiferi, cucinare in campeggio) e altre abbastanza pericolose (rafting, scendere in corda doppia, pagaiare sul fiume), c’è poco di clamoroso: nuotare, correre, osservare la natura e interagire con essa. Cose del tutto normali, fino a qualche decennio fa. Per molti di noi, gli alberi della vecchia piazza Matteotti erano una seconda casa. Ci trascorrevamo ore e ore, ognuno sul proprio ramo, personalizzato dalla firma incisa sulla corteccia. Senza contare le scorribande su quelli da frutto, qualche volta concluse con fughe spericolate per sfuggire al cane che il proprietario ci sguinzagliava contro, quando non ci rincorreva ascia in pugno.
Nella mia adolescenza ho partecipato alla costruzione di due rifugi. Il nostro mondo in due metri per tre di tavole e lamiere sottratte da qualche cantiere e inchiodate in un posto sicuro: un rifugio, appunto. Ci è capitato spesso di correre sotto la pioggia, non per scelta, ma perché, essendo sempre in giro, il temporale ci poteva sorprendere per strada. Pulcini da spogliare e asciugare col phon. La gioia dell’aquilone (“a pianeta”), realizzato con le canne e la carta dell’uovo di Pasqua, che facevamo volare al campo sportivo, e quella della gara a chi faceva rimbalzare più a lungo i sassi sul mare di Favazzina, quando le labbra viola e le mani rattrappite ammonivano che non si poteva più stare in acqua. È un’età in cui basta poco per divertirsi. Ma forse un tempo bastava ancor meno.

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Tipi da bar

In un piccolo centro, il bar è un microcosmo rassicurante perché frequentato sempre dalla stessa gente, tranne i casi in cui un quattro di bastoni calato al momento sbagliato, una donna di quadri scartata con troppa leggerezza o una “bevuta” colossale a biliardo non provocano fratture insanabili che poi ognuno si porta fin dentro la tomba. In quel caso, uno dei contendenti difficilmente vi metterà più piede, o se lo farà, niente sarà più come prima.
Anche chi manca per molti anni dal paese, una volta ritornato non avrà grosse difficoltà a risintonizzarsi coi ritmi lenti dei frequentatori di un bar. Un mondo pressoché immutabile. Difatti, alla domanda “che si dice?”, la risposta è inevitabile: “la solita” (o “la solita vita”, quando l’interlocutore è particolarmente loquace). Passano gli anni e si succedono i clienti (fisiologia), ma i “tipi” di avventori rimangono – più o meno – gli stessi.

L’ALLENATORE. Ogni bar che si rispetti ha un buon 90% di clienti in grado di far giocare divinamente qualsiasi squadra di calcio, di operare la sostituzione giusta al momento opportuno, di vincere a mani basse tutte le competizioni, nazionali e internazionali. A queste latitudini, il triplete sarebbe all’ordine del giorno; il campionato del mondo di calcio, poco più di una gita di piacere.

IL CUBISTA. Spara, spara, spara. Ma non è un violento. Le sue pistole – come ne Il signor Hood – sono “caricate a salve”, anzi a balle. Il cacciatore non torna a casa con meno di 20-30 tordi o due cinghiali grandi quanto un elefante. Il cercatore di funghi spiana la montagna, palmo per palmo, e riempie il cofano dell’auto di porcini. Il pilota di Formula Uno va a Reggio in quindici minuti, anche ora che l’autostrada è un interminabile doppio senso di marcia. Dalle sue dichiarazioni, occorre estrarre la radice cubica.

IL REDUCE. Generalmente è pensionato, o comunque ha un’età che prima della stretta montiana dava diritto a un meritato e retribuito riposo. Ora riposa soltanto, gratis. Inizia tutti i suoi discorsi con “ai miei tempi” e ti fa capire di avere vissuto e di conoscere il mondo meglio di chiunque altro. Mica è come te, che non hai mai fatto alcunché di memorabile. Le sue gesta meritano di essere tramandate ai posteri, affinché si sappia che il paese può vantare tra i concittadini un supereroe.

LA FAINA. Quando porta appresso il borsello, bisogna aprire gli occhi. Probabile che, in un paio di minuti, scompaia il giornale. L’informazione è importante, specie quella locale, l’unica che realmente interessi. Una particolare convenzione con l’edicolante preserva infatti dal rischio di ritrovarsi senza quotidiano nei giorni di retate importanti o fatti di cronaca nera in zona. C’è anche quello che, se ti distrai un attimo, sfila dall’espositore sul bancone un pacco di caramelle o di gomme da masticare. Ed è convinto che ti abbia fregato, solo perché tu lo lasci perdere.

IL POLITICO. Da quando sono in auge i tecnici, è stato soppiantato da un’altra figura: l’economista. In ogni caso, ha la ricetta pronta per ogni tipo di problema. Dal comune al Parlamento europeo, siamo rappresentati da una manica di incompetenti e di ladri, feccia da mettere al muro. Al loro posto farebbe però lo stesso, perché tanto “se non rubi tu, ruba un altro”. Una logica impeccabile, che giustifica il livello infimo del suo senso etico (“lo fanno tutti”; “tutti colpevoli, nessun colpevole”).

IL SOPRAMMOBILE. Non consuma, non partecipa a nessun gioco, non fa niente. Al massimo, guarda la televisione, senza neanche capirci molto. Però è sempre presente. In un mondo senza più punti di riferimento, costituisce una rara certezza. Lo alzi, togli la polvere e lo risistemi al suo posto. Ormai fa parte dell’arredamento, come il frigorifero dei gelati o l’espositore delle patatine.

LO SCROCCONE. Passa e ripassa tremila volte davanti al bar, aspettando l’attimo in cui individua la potenziale vittima. In realtà, con quello che costa la benzina, gli converrebbe fare da sé, e magari offrire lui. Il piano B è invece più temerario e spinge il nostro fino ai tavoli di gioco per salutare, nella speranza che qualcuno gli chieda “prendi qualcosa?”. Fatica sprecata, con gente ormai scafatissima.

IL LATIN LOVER. Quando ancora esisteva il telefono a gettoni, passava ore e ore a bisbigliare parole incomprensibili, coprendosi la bocca con la mano (molto prima di Fabio Capello e Antonio Cassano), sempre sul punto di strangolarsi col filo della cornetta. Oggi è diverso. Quando gli parte la suoneria di “ai se eu ti pegu”, cerca la complicità del tuo sguardo per comunicarti la fatica di essere Casanova.

IL TUTTOLOGO. È l’evoluzione del “politico”. Altrimenti noto come “la Treccani”, è in grado di guidare le conversazioni più disparate, dalla fotosintesi clorofilliana ai fiumi dell’Asia. Ha però fortemente accusato il colpo dell’avvento di internet. Con la possibilità di verificare in tempo reale ogni sua “pillola di saggezza”, l’autorevolezza è andata a farsi benedire, soppiantata da irriverenti sghignazzate.

IL MESSICANO [amarcord]. Amante della siesta pomeridiana, l’abbiocco post-prandiale sempre in agguato. Una specie ormai in via di estinzione, che ha goduto del massimo splendore negli anni Ottanta. Ne contammo fino a nove, in un caldo pomeriggio di quasi estate, ronfanti sulle sedie, a bocca aperta.

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Due pesi e due misure

Il governo italiano – giustamente – sta facendo di tutto per riportare a casa Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò arrestati in seguito all’incidente che ha provocato la morte di due pescatori al largo delle coste indiane. I due militari facevano parte della scorta in servizio “anti-pirateria” sulla petroliera Lexie, battente bandiera italiana. Da un mese sono trattenuti in prigione, separati dagli altri detenuti, in attesa che si giunga ad una soluzione condivisa dal governo indiano e da quello italiano. Palazzo Chigi contesta la competenza della giurisdizione, che dovrebbe essere italiana – essendo l’incidente avvenuto in acque internazionali – e l’arresto stesso, che violerebbe i diritti derivanti dallo status di militari dei due detenuti. Il governo indiano confuta questa tesi: non si tratterebbe di acque internazionali, bensì di “zona contigua”, e i due marò sarebbero forze “private”, non militari. Una vicenda intricata, sulla quale pesa anche la strumentalizzazione politica delle autorità politiche indiane in funzione elettorale, che l’esecutivo guidato da Monti sta seguendo con molta attenzione e apprensione, sia recandosi con propri rappresentanti in India, sia tenendo accesi i riflettori in Parlamento, nelle sedute del governo e in Europa.

Vittorio Arrigoni non era un militare. Era un attivista, in Palestina, dell’International Solidarity Movement. Nel 2010 aveva preso parte alla Freedom Flotilla, spedizione di generi di prima necessità da fare giungere a Gaza forzando il blocco israeliano. Aveva anche denunciato le atrocità commesse dall’esercito di Tel Aviv sulla popolazione inerme, girando e diffondendo video sulle vittime (per lo più bambini) delle bombe al fosforo. Il 15 aprile sarà trascorso un anno da quando è stato ucciso, dopo essere stato rapito da un gruppo salafista. “Un crimine imbarazzante e ignobile”, secondo il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, perpetrato a danno di un italiano “solidale con Gaza”, la presa di distanza dei principali forum jihadisti.
Sul CORRIERE DELLA SERA, Francesco Battistini ha sollevato la questione dei ritardi nel processo per l’assassinio di Arrigoni. Un dibattimento quasi inesistente, udienze brevissime, continui rinvii e la sensazione che la corte sia orientata ad accogliere la tesi difensiva, che addossa la responsabilità ad un fondamentalista islamico ucciso dalla polizia palestinese, scagionando così i quattro imputati (tre attualmente arrestati, uno a piede libero). “Arrigoni, vittima dimenticata di un processo farsa” ha titolato il quotidiano di via Solferino.
Il silenzio del governo italiano su questa vicenda è assordante. La giustificazione ipocrita: essendo Hamas considerata un’organizzazione terroristica, non può essere riconosciuta come interlocutrice dal governo italiano, che per questo motivo non ha mai mandato al processo nemmeno un osservatore.
Ecco, disturba parecchio l’idea che esistano Italiani di serie A in divisa e Italiani di serie B con la pipa in bocca e la kefiah al collo.

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8 marzo

L’ammetto: l’8 marzo è una ricorrenza che abolirei. Nonostante la storia di emancipazione che impregna tale data, non ha molto senso perché è sotto gli occhi di tutti che le donne sono discriminate quotidianamente, sui luoghi di lavoro e altrove; sono le principali vittime nei casi di violenza familiare; devono sudare il doppio per avere la metà di un maschio.
Abolirei l’8 marzo perché ogni giorno dovrebbe essere festa della donna. Per lo stesso motivo sono contrario alle quote rosa, che mi sanno di attrazione da circo Barnum. In una società moderna, dovrebbe andare avanti chi ha merito, indipendentemente dal sesso. Come la gran parte delle ricorrenze, l’8 marzo è il festival dell’ipocrisia, un lavarsi la coscienza per ricominciare, il 9, a prendere a calci in culo le donne, metaforicamente e non.
Ho avuto (e ho) la fortuna di avere a che fare con donne straordinarie. E ho potuto constatare che le donne generalmente hanno una marcia in più rispetto agli uomini. Sanno essere un treno, non si fermano di fronte a niente e a nessuno, hanno un’energia incredibile. Forse per questo sento particolarmente il tema e mi intrigano le storie che hanno come protagoniste le donne, siano esse mamme, nonne, sorelle, amiche, compagne, mogli, figlie, nipoti. Si chiamino “Roger” o “Martina”. Ce la facciano o meno ad ottenere quello che desiderano.
Come nella canzone di Francesco De Gregori Compagni di viaggio, tratta dall’album Prendere e lasciare (1996). La storia di un uomo e di una donna che non riescono a stare insieme nonostante l’amore che li lega e che Enrico Deregibus (Francesco De Gregori. Quello che non so, lo so cantare, Giunti editore, 2003) ha paragonato a “una Rimmel vent’anni dopo […], frammenti, poco definiti e molto definitivi di una storia, cocci difficili da riattaccare. […] Sgoccioli di un rapporto di coppia, lividi che si sovrappongono sull’anima”. Forse sto andando “fuori traccia”. O forse no, perché quel “sarà sempre tardi per me quando ritornerai” dice molto sulle donne e difficilmente avrebbe potuto pronunciarlo un uomo.

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Blogging Day per Rossella Urru

Il “blogging day” è un giorno in cui un gruppo di blogger decide di parlare di un unico argomento. Allo scopo di sensibilizzare quante più persone possibili e di far parlare anche i media del rapimento di Rossella Urru, nella giornata di oggi i blogger che aderiscono all’iniziativa dedicheranno il proprio post a questo argomento. Per contribuire alla conversazione su Twitter social network usiamo gli hastag #freerossella e #freerossellaurru

L’appello di Donne Viola:

Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre Rossella Urru ed altri due cooperanti spagnoli (Ainhoa Fernandez de Rincon, dell’Associazione amici del popolo saharawi, e Enric Gonyalons, dell’organizzazione spagnola Mundobat) sono stati rapiti da uomini armati, arrivati a bordo di diversi pick-up. Originaria della provincia di Oristano, Rossella Urru, 29 anni, e’ rappresentante della ONG Comitato Italiano Sviluppo dei Popoli (Cisp) e lavora da due anni nel campo profughi Saharawi di Rabuni, nel sud ovest dell’Algeria, coordinando un progetto finanziato dalla Comunità europea.
Rossella si occupava di rifornimenti alimentari, predisponeva la distribuzione con particolare riguardo alle necessità di donne e bambini. Rossella Urru e’ laureata in Cooperazione Internazionale presso la facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna, proprio con una tesi sul popolo Saharawi.
Dalla notte del sequestro non si hanno avuto notizie di Rossella Urru fino al mese di dicembre quando un gruppo dissidente dell’Aqmi (Jamat Tawhid Wal Jihad Fi Garbi Afriqqiya ) ha rivendicato il rapimento.
Grazie a rapporti personali col popolo tuareg da parte del consigliere regionale Claudia Zuncheddu, sappiamo che Rossella è viva e che si trova in un territorio desertico quasi inaccessibile, crocevia di interessi contrastanti fra governi e movimenti, dove ovviamente assume rilevante importanza l’intreccio delle funzione di mediazione di soggetti diversi. I sequestratori mirano ad un riscatto per acquistare armi necessarie alla loro lotta per l’indipendenza. Il governo algerino, che conosce il territorio desertico a palmi, tuttavia non e’ favorevole alla mediazione con riscatto visto che sarebbe il destinatario di una insurrezione armata da parte del fronte del Polisario armato. In aggiunta il governo francese, spinto da mire neocolonialiste, e’ fortemente interessato alla liberazione forzata dei ragazzi sequestrati, mettendo così a rischio la loro incolumità.
Sono passati 117 giorni dal suo sequestro e rivendichiamo la sua liberazione, il silenzio che la circonda e’ assordante.
Lasciamo ai servizi ed alle ambasciate rispettivi ruoli e rispettiamo il desiderio dei familiari di mantenere basso il profilo sulle trattative tuttavia dobbiamo fare in modo che si parli di questo sequestro per spingere le nostre amministrazioni, i nostri governi e quanti piu’ Stati possibile ad intraprendere azioni diplomatiche per la liberazione di Rossella.
Forse i suoi sequestratori fanno paura ai diplomatici.
Forse il sequestro e’ capitato in un momento storico in cui tutte le attenzioni dei governi sono rivolte allo spread, ai bund, alle borse, ai mercati ed alle finanze.
Forse e’ capitato proprio quando in Italia si e’ verificato un cambio traumatico di governo e si affronta una crisi economica gravissima.
Ma non si puo’ perdere altro tempo e tutti noi dobbiamo chiedere a gran voce che le autorità competenti rivolgano la massima attenzione al problema della liberazione di Rossella.
Il nostro appello e’ rivolto alle organizzazioni, alle ambasciate, ai mediatori, ai servizi ed ai governi, centrale e regionale, perchè utilizzino tutti i mezzi e tutte le strategie possibili per riportare Rossella a casa quanto prima.
Il fratello di Rossella dice : “le parole cedono di fronte a tanto assurdo, si sgonfiano e sembrano afone. Eppure, in questa vibrante impotenza in cui ci troviamo, sono quel poco che ci è concesso, un nonnulla che tenta di colmare un abisso e una distanza insospettati; che riescono appena a tenerci in piedi, a farci avanzare”.
Parliamo di Rossella fino a diventare afoni anche noi, parliamo di lei e di questo popolo abbandonato nel mondo che lei ha voluto aiutare nonostante i troppi rischi.

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Passeggiando in bicicletta

In due giorni ha superato le 30.000 visualizzazioni il video lanciato dal sito online di Repubblica che spiega come negli anni Settanta un vasto movimento di opinione pubblica riuscì a cambiare le politiche urbanistiche e dei trasporti dell’Olanda. L’onda emotiva degli “omicidi da traffico” (3.300 vittime nel 1971, tra cui 400 bambini) causati dalla motorizzazione di massa del decennio precedente e la crisi petrolifera del 1973 favorirono le politiche a sostegno dell’uso della bicicletta e proprio grazie all’impulso della società civile furono realizzate le prime piste ciclabili.
Il mini-documentario rientra tra gli strumenti di propaganda dei promotori della campagna di sensibilizzazione per avere città a misura di bici (“Cities fit for cycling”) iniziata una ventina di giorni fa a Londra, dopo l’incidente che ha mandato in coma una giornalista del Times, travolta da un camion mentre pedalava. Dall’Inghilterra, che ha pianto 1.275 ciclisti negli ultimi dieci anni, l’iniziativa si è rapidamente diffusa nel continente e, rilanciata da un gruppo di blogger, ha raccolto in Italia già oltre 20.000 adesioni. Alcuni punti del manifesto del movimento “Salva i ciclisti” – sottoscritto anche da qualche sindaco, tra cui Giuliano Pisapia – sono stati ora incardinati in un disegno di legge (“Interventi per lo sviluppo e la tutela della mobilità ciclistica”) presentato dal senatore del Pd Francesco Ferrante e sottoscritto da altri sessanta parlamentari, appartenenti trasversalmente a tutti gli schieramenti politici, ad esclusione della Lega.
La finalità della legge, fissata nell’articolo 1, è quella di “favorire la cultura del rispetto delle regole della circolazione stradale, dando maggiore tutela a chi utilizza la mobilità ciclistica, nonché ad incentivare e sviluppare l’uso della mobilità ciclistica”. Per raggiungere lo scopo, la legge prevede, tra l’altro, “la destinazione della quota del 2% del budget delle società dei gestori stradali e autostradali per la realizzazione di piste ciclabili” (art. 5), “l’obbligo del limite di 30 km/h di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili” (art. 7), la possibilità, per le aziende private o pubbliche e per le persone fisiche, di sponsorizzare “la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili anche attraverso l’attività di gestione di noleggi biciclette nelle suddette aree” (art. 8). Viene così riconosciuto il valore sociale della mobilità ciclistica, “parte integrante della moderna mobilità quotidiana”, ma anche “soluzione efficace e a impatto zero per gli spostamenti cittadini personali su mezzo privato”, da tutelare con provvedimenti che garantiscano una crescente sicurezza stradale.

[Un recente manifesto affisso a Londra e segnalatomi da Mario]

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Dai ricordi di un ex fumatore

“Nel pacchetto ci sono due sigarette, una per te e una per me. Io da domani non fumo”. Con queste parole, due anni fa attaccai la sigaretta al chiodo, dopo quindici anni di onorata carriera. Qualcosa in più se contiamo anche le esperienze “giovanili”. Una terrificante N80 a quindici anni, di ritorno da Palmi sulla Littorina; un pacchetto di Merit divorato in tre alla Pineta, in non più di venti minuti; quelle scroccate a mio fratello e a Nino. Ma il “vizio” (lo spartiacque è dato dall’acquisto personale) risale al terzo anno di università. Quando ormai stavo per passare indenne dal periodo statisticamente più rischioso. L’università, si diventa grandi, si vive lontano da casa. E si fuma. Per darsi un tono, perché lo fanno gli altri, per sentirsi figo, per assumere la posa da “maledetto”.

Come James Dean nel poster alla parete della mia cameretta. O il tenebroso Humphrey Bogart che in Casablanca avrà fumato minimo due stecche di “bionde”. Gli esempi negativi, da questo punto di vista, sono infiniti.

Ho fumato Lucky Strike, per sentirmi un po’ Vasco. Avrei voluto essere De André, bellissimo con la sigaretta tra le dita. Me lo immaginavo pensoso, ubriaco e incazzatissimo, una-boccata-un-bicchiere-un-verso, una-boccata-un-bicchiere-un-verso: “evaporato in una nuvola rossa”.
Oppure Guccini: “E ho ancora la forza di guardarmi attorno/ mischiando le parole con due pacchetti al giorno”.
Non un fumatore incallito, però le mie dieci-quindici sigarette al giorno le fumavo. Anche se non sono mai stato riconosciuto come un top smoker, soprattutto in famiglia. Quando offrii a mio padre (un fuoriclasse) una Marlboro “light”, l’unica volta in cui era rimasto senza le sue “rosse”, quasi mi umiliò: “come fai a fumare questa roba? Puzza!”. Per non dire di mio fratello Luis, definitivo: “o fumi Marlboro rosse, o è meglio lasciare stare”.
Avevo provato altre volte a smettere, con scarsi risultati. Al massimo, un paio di mesi. Dopo ho sempre ripreso. Come fare, d’altronde? Metti che hai un problema che non ti fa dormire la notte. Ci vuole la sigaretta. Se devi prendere una decisione importante, ci vogliono un paio di boccate vigorose per non fare la scelta sbagliata.
“Ora ho troppe preoccupazioni” è il più comodo e infantile degli alibi. Perché motivi per non essere sereni, purtroppo, se ne presentano tutti i giorni. E poi, chi non fuma, allora come fa a sopravvivere ai propri guai? Smettere è una questione di testa. Perché, spesso, la sigaretta è un gesto istintivo. Un riflesso pavloviano. Subito dopo il caffè, appena metti in moto la macchina, all’uscita dal cinema. Proprio per questo, i primi giorni sono davvero duri. Corsi online, prodotti omeopatici, agopuntura, ipnosi, psicoterapia comportamentale, sostituti nicotinici (cerotti, gomme e pastiglie, sigarette elettroniche o senza tabacco, inalatori) sono però una perdita di tempo e di soldi. Addirittura, esistono “centri antifumo”, suppongo strutture simili alla clinica per dimagrire del dottor Birkenmayer (Il secondo tragico Fantozzi).
Questione di testa. Altrimenti si finisce come lo studente universitario che durante uno sciopero dei tabaccai, dopo avere esaurito le scorte racimolate al mercato nero, acquistò in farmacia una sigaretta senza tabacco pur di fumare qualcosa. Un mito.

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Per favore, risparmiateci la spocchia

Le ultime settimane sono state monopolizzate da due dichiarazioni infelici e dalle successive polemiche. Il tema dell’occupazione è un nervo scopertissimo. Forse sarebbe il caso che chi ricopre incarichi di governo maneggiasse con più cura una materia talmente esplosiva. Ha iniziato il viceministro del lavoro e delle politiche sociali, Michel Martone: “chi si laurea dopo i 28 anni è uno sfigato”. Anche chi si laurea in tempo e poi invecchia cercando un lavoro non scherza. Martone ha successivamente rettificato il senso della sua affermazione, ma l’irritazione non passa. E non va via perché pure Martone dovrebbe sapere che la questione, innanzitutto, è di “opportunità”. Che non sono uguali per tutti. Senza ricorrere alla vis polemica di Travaglio, se sei figlio di un magistrato della Cassazione (o comunque “figlio di”), hai possibilità che altri nemmeno si sognano. Fai esperienze, maturi un curriculum eccellente e vai avanti. Incarichi su incarichi, una pubblicazione dopo l’altra e può capitare di ritrovarsi professore ordinario a 30 anni e viceministro a 38.
Commentando la mia lettera al ministro Profumo, in poche battute Mario ha spiegato dove sta la vera differenza tra l’Inghilterra e l’Italia:

In Inghilterra c’è un’etica del lavoro cristallina. Non hai bisogno di conoscere nessuno e nei colloqui sei valutato “semplicemente” per i tuoi meriti. Non solo, anche se non hai le qualifiche richieste, se reputano tu abbia il potenziale, il training te lo danno loro, pagato, perché investono nella persona. È il valore della persona che conta, non chi conosci. Negli anni, con uno straccio di diploma di maturità scientifica (42/60) ho lavorato in una banca multinazionale (HSBC), per la polizia metropolitana londinese, ed ora per una compagnia aerea, che è anche un’altra multinazionale, in un percorso lavorativo di cui vado fiero. Dubito in Italia avrei avuto le stesse possibilità. In banca ci entri con le raccomandazioni, così come in Polizia o all’Alitalia.

Sei valutato per le tue qualità. Se ti giudicano idoneo, investono su di te. Una visione copernicana. Quanti corsi di formazione vengono tenuti in Calabria, senza che si riesca ad ottenere neanche un posto di lavoro? Gli unici a trarre un profitto sono coloro che li organizzano. Non i partecipanti, che collezionano l’ennesimo inutile pezzo di carta. A quanti curriculum inviati non segue alcun colloquio di lavoro e neppure l’educazione di una risposta?
Per entrare all’HSBC, una delle più grandi banche europee, Mario non ha fatto un concorso. Ha superato un colloquio di lavoro, durante i mesi di prova ha seguito un corso di formazione, infine è stato assunto. Lineare. In Italia una cosa del genere è impensabile. Fare per tutta la vita lo stesso lavoro non rientra nella sua filosofia di vita. Altrimenti sarebbe rimasto in banca. Ma lui ha la possibilità di smettere e fare altro con una relativa semplicità. Se invece il presidente del consiglio se ne esce con “il posto fisso è monotono”, in una realtà caratterizzata dal 30% di disoccupazione giovanile (senza contare inoccupati, cassintegrati, lavoratori a 5-600 euro al mese), è scontata la selva di fischi. Il problema è il lavoro, un lavoro qualsiasi. Altro che posto fisso. Le parole sono importanti, ma anche chi le pronuncia.

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