Le parole di don Italo

Sorprende l’attualità delle parole di don Italo Calabrò (26 settembre 1925 – 16 giugno 1990) nel video che riprende un incontro tenuto dal parroco di San Giovanni di Sambatello con gli studenti del liceo scientifico “Vinci”, più di venti anni fa.

Don Italo è stato tante cose: collaboratore dell’arcivescovo di Reggio Calabria Giovanni Ferro e del successore Aurelio Sorrentino, presidente della Caritas Diocesana, vicepresidente della Caritas Italiana, fondatore della Piccola Opera Papa Giovanni e del Centro Comunitario Agape. Prete antimafia, ma non “professionista” dell’antimafia, secondo la calzante definizione di Mimmo Nasone nella presentazione del saggio biografico edito da Rubbettino nel 2007 (Don Italo Calabrò. Un prete di fronte alla ’ndrangheta, a cura di Domenico Nasone e Mario Nasone, con una prefazione di don Luigi Ciotti).

Una vita dedicata alla lotta alla povertà e all’emarginazione: “i poveri sono i nostri padroni”, la stella polare del suo cammino; “amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada, nessuno escluso, mai!”, la raccomandazione finale contenuta nel suo testamento spirituale.

Don Italo è stato grande educatore e punto di riferimento dell’associazionismo cattolico reggino per diverse generazioni. Potrebbe suscitare stupore l’invito alla lotta rivolto agli studenti (L’obbedienza non è più una virtù, aveva scritto don Lorenzo Milani anni prima, suscitando scalpore prima di diventare autore di riferimento per il movimento del ’68 con Lettera a una professoressa), ma lotta e responsabilità dovrebbero rappresentare i cardini dell’impegno dei giovani (e non solo dei giovani) nella società.
Lotta non violenta, la più difficile da praticare perché comporta la formazione di una coscienza politica. E assunzione di responsabilità, fondata sul protagonismo di chi si espone in prima persona, senza attendere l’iniziativa altrui: “si può dare la delega per tutto… non esiste ancora l’istituto della delega perché un altro viva al posto tuo”.

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Gianluca e Camilla

Come si fa a non perdonare uno che chiede scusa davanti a tutta Roma?

Già sono tempi abbastanza tristi, per tirare su il morale serve qualche bel lieto fine, un “e tutti vissero felici e contenti”, come in quei film strappalacrime in cui tutto si risolve nell’ultima scena, con lui (o lei) che riappare quando ormai sono finiti anche i fazzolettini, la sala è tutto un singhiozzare e tutti pregano che non si riaccendano le luci per non fare vedere occhi arrossati oltre ogni umana possibilità.

Forza Gianluca.

Forza Camilla.

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Ragazze al bivio

Scampoli di estate, valigie quasi pronte e quella tristezza che assale chi deve andare. Certo, c’è anche chi non vede l’ora di lasciarsi alle spalle “quattro case e un forno” e i “quattro gatti” che ci abitano. Accompagnando magari la partenza con una buona dose di ingenerosità (chi sta fuori, spesso, lo fa sulle spalle di chi, a casa, compie enormi sacrifici): “ma che ci torno a fare qua?”.

Già, perché tornare? Ci sono infinite ragioni per mettere quanti più chilometri possibile tra sé e un piccolo paese che ha poco da offrire, soprattutto ai giovani. E ancora di meno a una ragazza.
Pochissimo lavoro, spazi di socialità quasi inesistenti, molto tempo libero che diventa tempo sprecato, non avendo granché da fare. Parcheggiate in qualche Università, per una laurea che spesso è a pieni voti, ma desolatamente inutilizzabile. Il passaggio da ragazza a zitella è brevissimo, dalle nostre parti. Dura il tempo del corso accademico. Fino a quando si studia, si ha un alibi. Dopo, diventa tutto più difficile. Valla a trovare una giustificazione, se a venticinque-trenta anni non lavori, non sei sposata e nemmeno prossima al matrimonio.

Ho ricevuto una email che spiega questo duplice stato d’animo. Lo sradicamento che vive chi torna due-tre volte l’anno in paese, con quella “paura” di diventare un “estraneo” anche alle persone care, quando la frequentazione diventa saltuaria e il rapporto si allenta. E poi la difficoltà ad essere donna, qui. Anch’io penso che occorra “il triplo della fatica”, anche se fortunatamente non è sempre così.
Sottopongo a voi l’email che ho ricevuto. Spero anche di riceverne altre, su qualsiasi tema. Il blog è a disposizione di chiunque abbia qualcosa da dire e intenda qui condividerla.

Vuoi sapere che cosa provo quando lascio la mia casa?

Lasciare la mia casa è sempre un po’ pesante, un po’ straziante.

Lasciare la mia casa è un po’ come entrare in coma e riuscire a svegliarsi solo alla fine del viaggio con gli occhi ancora un po’ pieni di lacrime e un nodo in gola che è meglio non vedere nessuno per qualche ora.

Lasciare la mia casa è un po’ come spogliarsi dell’abito più bello: sai che devi toglierlo ma vorresti tenerlo, ancora un po’.

Lasciare la mia casa è un po’ come rimanere orfani. E ti senti sperduto e spaesato e, pur non essendolo, ti senti solo, almeno per un po’.

Lasciare la mia casa è un po’ come perdere l’infanzia e il suo sapore, senza sapere come.

Lasciare la mia casa è un po’ come sparire e avere la paura nel cuore di diventare estraneo per quelle persone care, anche solo un po’.

Lasciare la mia casa è sempre un po’ un dovere da mantenere per credere di farcela, anche soltanto un po’.

Lasciare la mia casa è sempre una certezza e una speranza: so di ritornare, magari per un po’, spero di restare, molto più di un po’…

Se solo ci fosse anche solo una possibilità di restare a casa mia la sfrutterei senza pensarci perché amo la mia terra e vorrei fare qualcosa per cambiarla. Ma voglio anche riuscire a fare qualcosa della mia vita… Essere donna qui è pesante, ci vuole il triplo della fatica.

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Putin, pussy via

Forse sono state esagerate. Forse potevano evitare di violare la cattedrale di Cristo Salvatore, cuore pulsante della Chiesa ortodossa russa. Forse sono esibizioniste in cerca di visibilità. Concesso. Però la condanna a due anni di lavori forzati per un reato d’opinione (anche se la sentenza parla di “teppismo religioso”) è abnorme.
E poi, tra il gruppo punk russo Pussy Riot e Vladimir Putin, il cui sport preferito è la sistematica violazione dei diritti umani e la disinvolta eliminazione, con le buone o con le cattive, degli avversari politici, non si pone neanche il problema di scegliere da che parte stare.

Dalla parte di Nadia Tolokonnikova, Yekaterina Samutsevich e Maria Alyokhina, le tre ragazze che il 21 febbraio scorso diedero vita a balletti (“danza satanica”, per i giudici) e canti di protesta in un luogo sacro per condannare l’appoggio dato dalla chiesa ortodossa a Putin, con il viso coperto da maschere colorate diventate ora il simbolo delle manifestazioni pro Pussy Riot.

Per Voltaire, il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. Aggiungo io, anche dall’esistenza o meno, sul suo territorio, di strutture di “correzione” attraverso il lavoro che rimandano alle tragiche esperienze dei gulag sovietici, dei laogai cinesi, dei campi di rieducazione cambogiani. D’altronde, “il lavoro rende liberi” era il beffardo biglietto da visita che sovrastava l’ingresso di Auschwitz.

Che le manifestazioni “situazioniste” siano spesso al confine della legge, è risaputo. Che possano costare due anni di lavori forzati è medioevo.

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Huntsville

Ad Huntsville, in Texas, salvo un miracolo dell’ultima ora, oggi sarà giustiziato Marvin Wilson, un cinquantaquattrenne afroamericano condannato nel 1992 per l’omicidio di un informatore della polizia che lo aveva denunciato come spacciatore. Wilson si è sempre dichiarato innocente, ma il punto non è questo. E non lo è neanche il fatto che egli abbia un quoziente intellettivo pari a 61, nove punti in meno della soglia al di sotto della quale, per la sentenza “Atkins” (Corte suprema federale, 2002), non può essere comminata la pena capitale.

L’esecuzione sarà possibile perché la “sentenza Atkins” concede ai singoli Stati la facoltà di fare rispettare il divieto, sulla base di criteri discrezionali nella valutazione del ritardo mentale dell’imputato. Difatti, tutti i ricorsi presentati dagli avvocati di Wilson alle corti statali e federali sono stati puntualmente rigettati.
Il punto, dicevo, non è la colpevolezza o l’innocenza di Wilson, né la sua presunta disabilità. Il punto è il valore della vita umana, di tutte le vite umane (anche quella del “colpevole” Wilson). Il punto è riconoscere o meno, a chicchessia, il diritto di decidere sulla vita altrui.

Continuo a considerare la condanna capitale una mostruosità giuridica e morale. È osceno agganciare la vita di un uomo al filo esile di un cavillo burocratico, alla magnanimità o alla pietà di un altro uomo (in questo caso, il governatore del Texas, l’unico che potrebbe, oggi, decidere di commutare la condanna a morte in ergastolo).

La vendetta ha poco a che fare con la giustizia e altro sangue non può mai lavare il sangue versato. Ecco perché la pena di morte è un crimine equivalente all’omicidio, ancor più grave in quanto commesso dallo Stato, entità superiore al singolo individuo (almeno, così ci hanno insegnato). Essere contro la pena di morte non significa essere contro la giustizia. Significa essere a favore della civiltà.

* Huntsville, contenuta nell’album Che cosa te ne fai di un titolo (2005), è una bellissima canzone dei “Mercanti di liquore”. Purtroppo, non sono riuscito a trovarla su youtube.

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Un autunno caldo

Altro che “autunno caldo”, si prospetta un autunno da bollino nero. Gli indizi sembrano convergere tutti in quella direzione. E non ci sarà neanche bisogno di qualche afoso anticiclone nordafricano per fare salire la temperatura e rendere il clima bollente.

Le prima avvisaglie le vediamo da tempo, preoccupati, arrabbiati e allo stesso tempo sfiduciati. Nonostante i sacrifici imposti dalla cura da cavallo somministrataci dal governo Monti, fatichiamo. L’asticella della ripresa viene spostata sempre più in avanti. Al momento, ci siamo già bruciati il 2013. Un po’ come per la fine dei lavori della Salerno-Reggio Calabria, che ogni anno viene allungata di due. Anche se ora, pare, dovrebbe mancare davvero poco.

Ma torniamo alle calde giornate che ci attendono al ritorno dalle ferie, per chi le farà. I dati di Federalberghi, per dire, non sono affatto incoraggianti. Rispetto a giugno 2011, –8,2% di clientela straniera e –7,1% di turisti italiani. Settembre sarà il mese del salasso della seconda rata Imu: secondo Confedilizia, rincari fino all’80% per chi affitta. Conseguenza prevedibile della decisione adottata da molti sindaci: aliquote al minimo per la prima casa (giustissimo), obtorto collo al massimo per la seconda. Con una pressione fiscale reale record (55%), dato spaventoso che va ad aggiungersi a quello sul maggiore aumento di tasse tra i Paesi dell’Unione europea negli ultimi dodici anni (+3,4%), Confcommercio avverte che c’è poco da stare allegri. Il mercato del lavoro è al collasso, con più di trenta aziende al giorno costrette a chiudere, lo scorso anno. A giugno, l’Istat ha segnalato il 10,8% di disoccupati (+0,3% rispetto a maggio, +2,7% su base annua), con una percentuale giovanile da incubo (34,3%). Se non si lavora, non si consuma. Hai voglia a esporre i cartelli dei saldi. Infatti, sono quasi passati inosservati, se il Codacons ha lanciato l’allarme di un calo del 20% (30% al Sud) nelle prime due settimane di sconti. D’altronde, i soldi se ne vanno in bollette per la luce e per il gas. Ogni paio di mesi, arriva la stangata, quantificata dalla Cgia di Mestre in un aumento complessivo del 48,3% negli ultimi dieci anni.

Il timore è che i sacrifici ai quali gli italiani sono quotidianamente chiamati, possano alla fine rivelarsi insufficienti. Ma c’è di più. C’è la sensazione che i sacrifici non siano proporzionati, che il grosso stia ricadendo sulle spalle della gente comune e che, alla “casta”, il governo abbia soltanto fatto il solletico. A ciò va aggiunto che, nel pieno di una crisi drammatica: a) da tre mesi la politica non riesce ad accordarsi su una legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliersi i propri rappresentanti; b) lo scarto tra rappresentanti e rappresentati è ormai al massimo storico; c) i partiti perdono ogni giorno consenso e credibilità; d) il nepotismo impera e la meritocrazia latita. Non serve una Cassandra per capire che, da qui a un paio di mesi, l’Italia si dividerà tra incendiari e pompieri.

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Millenovecentotrentaseivirgolaottanta

Ora sappiamo quanto vale la vita di un precario. Neanche duemila euro. Per la precisione, 1936,80. È il risarcimento assegnato dall’Inail alla madre di Matteo Armellini, l’operaio trentunenne morto a Reggio Calabria, lo scorso 5 marzo, schiacciato dal palco in allestimento per il concerto di Laura Pausini.
A determinare l’ammontare della vergognosa cifra, la bassa retribuzione di Matteo, lavoratore privo di alcuna tutela (men che meno della copertura assicurativa), senza precisi orari di lavoro (a volte, turni di sedici ore) e senza uno stipendio regolare. Destino comune a tanti giovani, laureati (in storia, Matteo) e non, costretti ad accettare condizioni da schiavi pur di sbarcare il lunario. O ti mangi questa minestra…
Sarebbe da sporchi comunisti pretendere che vite del genere valgano quanto quella di alti dirigenti e politici, che percepiscono stipendi di centinaia di migliaia di euro e per i quali (o almeno per i loro familiari) anche la morte diventa un affare, ma qua siamo di fronte all’insulto, all’inaccettabile offesa della dignità umana. Dignità che si stupra anche definendo l’obolo elargito “risarcimento per infortunio e malattia professionale”, mentre – sostiene la madre, che ha sporto denuncia e pretende giustizia – “Matteo non aveva ancora cominciato a lavorare”.
Mi rifiuto, mi rifiuterò sempre di accettare che il valore delle persone lo stabiliscano il mercato e gli stipendi loro assegnati o che esistano persone più uguali di altre: l’esiguità della somma liquidata dipende, infatti, anche dalla circostanza che Matteo non aveva moglie, né figli.

Piero Sansonetti, dalle colonne di “Calabria Ora”, ha lanciato una proposta, chiedendo a Laura Pausini, attualmente impegnata nella preparazione di un concerto con Pino Daniele, di sospendere tutto “finché l’Inail non chiederà scusa e non moltiplicherà per mille il risarcimento a Matteo”.

Io credo che la cantante romagnola possa fare di più e più in fretta. Conosciamo i tempi biblici della giustizia italiana e conosciamo anche le doti umane di un’artista spesso promotrice di importanti iniziative di solidarietà. Sarebbe bello se, autonomamente, Laura Pausini decidesse di tenere un concerto in memoria di Matteo per devolvere alla madre l’incasso dello spettacolo.

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Pensieri in libertà sotto il solleone

Dal mio poco privilegiato osservatorio, l’estate 2012 stenta parecchio. E chissà se mai decollerà. Però è stato catturato il bosone di Higgs, la “particella di Dio”, una scoperta che ha fatto perdere a Stephen Hawking (non a Pinco Pallino) una scommessa da 100 dollari e che ci ha fatto sognare per due-tre minuti, il tempo necessario prima che la vita dei comuni mortali riprendesse il sopravvento per sentenziare che, di fronte alle molteplici complicazioni quotidiane, non c’è bosone che tenga.

Il sentimento prevalente è la rassegnazione. Rassegnati al governo Monti. Certo, otto mesi fa è stata un’esultanza collettiva, come se l’Italia fosse finalmente riuscita a liberarsi del tappo (senza ironia) che ne impediva il rilancio. Non se ne poteva più di barzellette, escort, regali a “loro” insaputa, ville di qua e lingotti di là. Al momento, non ci sono alternative alla bicicletta. Pedalare, almeno fino al 2013.

Altro sentimento a buon mercato è la sfiducia. Comprensibile. Con ammiragli incapaci di accorgersi del rischio-collisione (e, dopo, hai voglia a gridare “salga a bordo, cazzo!”), non è affatto sorprendente che un comico (aridaje) rischi davvero di fare saltare il banco. Insomma, o Monti e i suoi sodali o il caos. I “poteri forti” non hanno avuto dubbi nella scelta, mentre al popolo – come sempre – non resta che grattarsi. Pazienza se hanno fatto il deserto, edulcorando l’operazione con la trendissima spending review. La fregatura c’è, tanto da suggerire di mettere mano alla fondina ogni volta che viene utilizzato un termine inglese per indicare un provvedimento governativo.
La locuzione “u cani muzzica ’nto sciancatu” non è tipicamente oxfordiana, ma rende l’idea. Vedere cosa capiterà all’istruzione per credere: colpi di machete contro università e scuola, a beneficio (casualità) degli istituti privati, nel solco già tracciato quando ancora il governo dei banchieri e dei professori di università private era di là da venire. La disoccupazione record, l’assalto ai diritti dei lavoratori e l’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro, le pensioni che non ci saranno (alla faccia dei diritti acquisiti, validi soltanto per la casta), la razionalizzazione-soppressione di ospedali e tribunali. Anche qui, spending review. Non resta che consolarsi con la telenovela Rai. Da anni si auspica l’estromissione della politica dagli uffici di viale Mazzini, salvo poi dovere puntualmente constatare come neanche una pianta possa essere trasferita di stanza, senza il preventivo ricorso a incistate logiche spartitorie.

Sul fronte delle riforme, si naviga a vista. Nonostante sia tutto un “il Paese ne ha urgente bisogno” e – in caso di fallimento – “i cittadini non capirebbero”. Rimborsi elettorali, assemblea costituente, restyling dell’architettura istituzionale dello Stato. Un chiacchiericcio inconcludente, che raggiunge l’apice con il dibattito sulla legge elettorale, invocata a ogni piè sospinto e bloccata, più che dai veti incrociati, dal sostanziale favore delle forze politiche per l’attuale sistema. Tanto da fare venire il dubbio che, alla fine, la montagna partorirà il solito topolino. O un “porcellinum”.

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Festeggiamenti inglesi e polemiche italiane

Avevo chiesto a Mario di raccontarci “in presa diretta” l’atmosfera del “Queen’s Jubilee”, i festeggiamenti per i 60 anni di regno di Elisabetta II. Mi incuriosiscono il costume e le stravaganze “inglesi” (colpa di Sandro Paternostro, Nicola Caprarica, Beppe Severgnini, Giovanni Masotti e Stefano Tura) e confidavo in un “taglio” ironico e leggero. Invece è stato serissimo, circostanza che aiuta a capire perché la regina, secondo un recente sondaggio, sia amata da quasi 9 Inglesi su 10 e sia sopravvissuta agli scandali della Famiglia Reale, alla morte di Lady D, a Carlo e Camilla. Il “Giubileo di Diamante” si è così trasformato in una luna di miele di quattro giorni, conclusa con la tradizionale God save the Queen, intonata dall’immensa folla in attesa a Buckingham Palace.

Un amore che, per le mie convinzioni, è quasi incomprensibile. Trovo urticante la sola idea che qualcuno possa trovarsi in una posizione di autorità e di privilegio senza averne alcun merito, a meno che non si consideri tale la fortuna di essere nato in una famiglia reale.

Detto questo, è indubbio che Elisabetta II ha il merito di assolvere al meglio delle possibilità l’importante ruolo di collante nazionale. “Lilibeth” è il volto di un’istituzione alla quale tutto il popolo inglese guarda con simpatia, affetto, fiducia e devozione (a parte lo storico Eric Hobsbawm, ritiratosi sdegnosamente in Galles, televisore spento e nessun quotidiano da leggere per tutta la durata dei festeggiamenti).

L’altro dato da sottolineare è che gli Inglesi, a differenza nostra, sanno “quando” e “come” festeggiare. Condivido in pieno la chiusura dell’articolo, alla luce delle infinite polemiche sorte in Italia, in occasione delle celebrazioni per il 2 giugno. Il richiamo alla “sobrietà” (termine che aborro per il suo altissimo tasso d’ipocrisia), suggerito dai tragici avvenimenti del terremoto in Emilia, ha sollevato il consueto polverone populista e qualunquista. Perché un conto è contenere le spese e limitare la pompa (parata militare), per rispetto delle vittime e delle magre casse dello Stato; altra cosa è l’attacco strumentale a una data-simbolo della nostra storia. Sappiamo bene che c’è, in Italia, un problema di storia condivisa che dall’Unità è arrivato irrisolto ai giorni nostri e che ha caratterizzato i momenti più salienti e tragici della storia nazionale: questione meridionale e brigantaggio postunitario, fascismo, terrorismo e anni di piombo. Ma la vittoria sul nazifascismo (25 aprile 1945) e la successiva condanna popolare della monarchia complice della dittatura fascista (2 giugno 1946) rappresentano i valori fondanti della nostra stessa democrazia, proprio per questo scolpiti nella Costituzione repubblicana, sui quali non ci si può dividere, né lasciarsi andare ad inutili e sterili polemiche.

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Perché (non solo) gli Inglesi amano la regina

Ricevo da Londra e pubblico*:

Da 15 anni pago le tasse alla regina Elisabetta II e ne vado fiero. Sin da bambino ho subito il fascino delle teste coronate e sapevo che, prima o poi, mi sarei trasferito in un paese monarchico. In Svezia fa troppo freddo, gli spagnoli mi stanno un po’ sulle scatole, dei monegaschi e del loro accento francese non ne parliamo. Direi che ero destinato a diventare un suddito di Queen Elizabeth II.
Lo ammetto: sono un monarchico, con buona pace di ciò che pensa il politologo di famiglia (Domenico). Mi piace l’idea di avere come capo dello Stato qualcuno che è sopra le parti. In tanti Paesi, al giorno d’oggi, si ha un politico dal non chiaro orientamento ideologico, altri hanno un dittatore. In Inghilterra abbiamo una “Lady”, una signora, dignitosa nel proprio ruolo, diretta discendente di William il Conquistatore, il che già è “figo” di suo.

Elizabeth ha tutto il mio rispetto. È indubbiamente un tesoro nazionale e rappresenta tutte le cose buone dei tempi andati ma anche la modernità dei nostri giorni. Come donna ispira tranquillità e saggezza. Ha principi, senso del dovere e, da 60 anni, svolge il ruolo di capo dello Stato dedicando alla nazione la propria vita e la propria privacy, senza mai protestare o andare sopra le righe.
Direi che per i repubblicani inglesi questi siano tempi cupi, perché la monarchia, qui in Inghilterra, non solo è amata, ma è popolare più che mai. Non dimentichiamo che la monarchia è un investimento e genera, ogni anno, ingenti introiti per le casse dello Stato solo in turismo. Nessun presidente riuscirebbe mai a fare qualcosa del genere e a mantenere alto il prestigio e l’interesse internazionale legato ai Windsor.

La regina è il link tra passato, presente e futuro della nazione, in un ruolo che esalta la cultura democratica britannica: non è politica, non vota, non favorisce alcuna corrente politica ed è imparziale. Quando parla, lo fa in nome dell’intera nazione. La preferisco a qualsiasi capo dello Stato, prigioniero della propria agenda personale ed esposto a favoritismi più o meno indotti.
The Queen is The Queen. È sempre là, il volto rassicurante sulle banconote e sulle monete (ah, cara vecchia sterlina!), sui francobolli e nell’annuale discorso della cena di Natale. Un’icona che rappresenta perfettamente la visione “cool” degli inglesi.

Mi impressionò quando, dopo l’attacco terroristico del 7 Luglio 2005, apparì in televisione e ci incitò a continuare a vivere normalmente e ad usare la metropolitana, perché la politica del terrore non riuscirà mai ad averla vinta sulla mentalità democratica britannica.
Anche due giorni fa, a 86 anni suonati, “Ma’am” ha dimostrato di che pasta è fatta e ha dato una grande prova di senso del dovere quando, per tutta la durata (più di due ore) della cerimonia sul Tamigi, non si è mai seduta perché il suo popolo era là, ai margini del fiume e sotto una pioggia monsonica, ad aspettare che lei passasse. È rimasta lì, ai quattro venti, in piedi e con i suoi acciacchi, per salutare con grazia la gente che era andata lì per festeggiarla.
La regina è diventata una nonna adottiva che la vecchiaia ha reso più accessibile e umana. La guardo e seguo con affetto e tenerezza, un po’ come anni fa seguivo, da lontano, Giovanni Paolo II. Quando non ci sarà più mi mancherà: piangerò la scomparsa della regina, ma anche la donna e i principi che incarna. I suoi 60 anni di regno racchiudono un’epoca storica e meritano di essere celebrati con tutta la fanfara che la circostanza richiede. E allora, come si dice dalle mie parti: God save the Queen!

Che per i tagli economici e le considerazioni moralistiche c’è sempre tempo. E che il governo italiano guardi e impari.

*Mario Forgione, il fratello “londinese” del titolare di questo blog

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