M’i dati i morti?

«M’i dati i morti?». Sono sempre di meno i bambini che vanno in giro, casa per casa, a chiedere offerte per i defunti. Ciò avviene sostanzialmente per due motivi. Il primo: perché sono pochi, in generale, i bambini che crescono nelle strade. Sono luoghi che non frequentano e che pertanto non gli appartengono, sballottati come sono tra danza, musica, calcio rigorosamente praticati in spazi chiusi, che non devono conquistare perché ci arrivano accompagnati dai genitori. La stessa cosa accade con le biciclette: al massimo vengono portati in pineta o in piazza e là pedalano, sotto l’occhio vigile della mamma o del papà. Il secondo: perché la globalizzazione sta cancellando consuetudini secolari e ha trasformato la ricorrenza dei defunti in un carnevale americano, con tanto di streghe e maschere di mostri che nulla hanno a che fare con il significato intimo della nostra tradizione. Che invece affonda le radici nell’incontro simbolico tra vivi e defunti, nel bisogno di mantenere un legame tra i due mondi.
La richiesta di cibo rappresentava proprio lo strumento di questo incontro simbolico, perché “i questuanti non sono altro che vicari dei defunti e il cibo loro offerto viene considerato un’offerta fatta ai defunti”. Il virgolettato è preso in prestito da Vito Teti, che fa riferimento alla tradizione degli “strinari” (da “strina”: dono, strenna), ma vale per tutti quelli che egli definisce “viaggi rituali e vicari dei morti”: ad esempio, i “mascherati” che uscivano dopo il tramonto durante il periodo di Carnevale o, appunto, i questuanti “per i morti”.
Le offerte consistevano per lo più in castagne, noci, uva, cachi, fichi secchi, mele, pere, cioccolatini e caramelle. Ma c’era anche chi offriva monete di piccolo taglio, che venivano poi investite per l’acquisto di leccornie da dividere tra i componenti della piccola comitiva. Chi apriva la porta dava “da mangiare” ai bambini perché essi rappresentavano le anime dei propri defunti, i quali avrebbero sofferto molto nel caso (molto improbabile) di un rifiuto.
In Sicilia, ricorda Andrea Camilleri, nella notte tra l’1 e il 2 novembre i bambini collocavano invece sotto il letto un cesto di vimini che la mattina avrebbero trovato riempito di dolci (i “morticini”), di giocattoli, di pupazzi di pezza. Erano regali lasciati dai defunti e i bambini avrebbero ricambiato quella visita notturna recandosi al cimitero, la mattina della “festa dei morti”.
La simbologia (e anche l’emozione) dell’incontro con i defunti è del tutto assente nella tendenza importata d’Oltreoceano. Commemorare i defunti significava annodare presente e passato e indicava ai bambini l’importanza di onorare le proprie radici. La festa di Halloween mi pare che non insegni niente di tutto questo: non la demonizzo, ma è un’altra cosa.

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Tipi da Facebook

Si legge poco e si naviga molto, è un dato incontestabile. Il rapporto Censis del 2016 è per certi versi impietoso: a dispetto dell’alta percentuale di laureati, i “lettori forti” (più di 12 libri in un anno) sono solo il 13,7%. Sono cambiati i canali di informazione, come conferma il crollo dei lettori di quotidiani tra 2007 e 2016 (-26,5%). Dopo il telegiornale (63%), è Facebook la principale fonte d’informazione per gli italiani (35,5%): più indietro i giornali radio (24,7%) e, appunto, i quotidiani (18,8%), superati anche dai motori di ricerca (19,4%), poi a seguire troviamo YouTube (10,8%) e Twitter (2,9%). Facebook è uno strumento pratico per la rapidità della ricerca degli articoli che siti o contatti personali condividono: notizie di cronaca, post di approfondimento, comunicati stampa, eventi. Nonostante il conflitto non ancora risolto tra news e fake news, tra informazione e disinformazione, il social di Zuckerberg da questo punto di vista è utile. Ciò ha però prodotto anche una sorta di mutazione “antropologica”: senza scomodare Umberto Eco, è innegabile che l’utilizzo dei social da parte di molti utenti non sempre risponde allo scopo di informarsi, mantenere/riallacciare rapporti con amici e parenti lontani (una benedizione), condividere con gli altri momenti importanti della propria vita: avvenimenti, “successi” (una pompatina al proprio ego fa sempre bene, inutile negarlo), dolore e dispiaceri (ma qua si potrebbe aprire una parentesi infinita su tempi e modalità, riservatezza e pubblicità di sentimenti intimi e personali). Eh, no: “oltre”, c’è tutto un mondo da studiare. Un compito che esula dalle mie capacità, per cui mi limiterò soltanto a tracciare un breve profilo dei “tipi” che più mi fanno divertire, ma anche riflettere: mi incuriosisce cercare di comprendere certi meccanismi mentali, anche se spesso non resta altro da fare che alzare le braccia e sorridere. Ma procediamo con ordine.

L’ALLUSIVO – Non è mai diretto, ma è come se lo fosse. In una comunità virtuale nella quale tutti conoscono tutti, non è complicato intuire il destinatario di una frecciatina. Però l’allusione aggiunge un tocco di sottigliezza alla volgarità dell’attacco frontale e in più, particolare da non sottovalutare, consente di raccogliere qualche consenso in più perché offre al potenziale sostenitore la possibilità di salvarsi in calcio d’angolo: «Sì, ho messo mi piace e ho commentato quello stato, ma non credevo fosse riferito a te».
IL CATASTROFISTA – Svolge una funzione sociale. Terremoti, alluvioni, frane, cicloni, cadute di asteroidi sulla Terra ed estinzione dei ghiacciai sono il suo pane quotidiano. Se c’è una sola nuvola nel cielo, state tranquilli. Siete in una botte di ferro. Lui ne seguirà l’evoluzione fino a quando potrà finalmente mettervi in guardia: «Restate tappati in casa!».
L’EPURATORE – Ha un’attività ciclica, che si manifesta puntuale come il disco di Mina a Natale. I suoi ultimatum nascondono una propensione palingenetica volta alla realizzazione della “soluzione finale” contro vagabondi e parassiti del web. Che sarebbero tutti quelli che non interagiscono con lui commentando o “mipiaciando”. Inaccettabile, per cui: «Raus! Presto farò un po’ di pulizia tra i miei contatti!».
IL MALATO – Di lui sappiamo se ha il termometro a mercurio o quello elettronico, le medicine che prende, i dolori di testa insopportabili, eventuali cadute o indigestioni. Più che un profilo Facebook quello che abbiamo davanti è un foglio di anamnesi. D’altronde, il filosofo contemporaneo Peppe Voltarelli ha ragione quando sostiene che il lamento è una forma di godimento. Il top però viene raggiunto con la “registrazione” presso un ospedale, senza ulteriori informazioni. La solidarietà così obliquamente cercata in quel caso “deve” scattare immediata: «Che ti è successo?».
IL QUESTUANTE – Si muove nella penombra della messaggistica privata, dove solo tu puoi vederlo. Arriva con passo felpato quando meno te l’aspetti, anche se in genere preferisce essere il tuo buongiorno con una richiesta che – santiddio – non dovrebbe costarti niente esaudire: «Lo metteresti un “mi piace” allo stato che ho appena pubblicato?».
LO SGAMATORE – Aggiorna raramente il suo stato e ancor meno interagisce con i suoi contatti, dei quali però conosce vita, morte e miracoli “virtuali”. In pratica utilizza Facebook esclusivamente per tenere sotto controllo gli amici, ai quali ogni tanto rivela le sue sensazionali doti da Sherlock Holmes facendo l’occhiolino e sussurrando all’orecchio: «Sei andato al mare a Scilla, eh?».
IL SORVEGLIATO – È un perseguitato. Spiato in tutto quello che fa: pubblica uno stato e i suoi contatti, pensate un po’, lo leggono. Kgb, Cia, Mossad e Stasi gli stanno sempre col fiato sul collo per carpire informazioni che verranno poi decodificate da un cervellone centrale. Nel frattempo, i suoi stati sono passati al setaccio dai suoi contatti, che – sicuro – li commentano privatamente, nei bar, dal fruttivendolo o dal parrucchiere. Ma lui non teme nessuno: quello che deve dire, lo dirà.
IL TAGGATORE – Pubblica qualcosa e ti “tagga”, magari insieme ad altre venti persone ignare come te. Perché in quel momento tu non sei con lui! Passi per un articolo o un evento che può interessarti, per la condivisione di uno stato d’animo comune, ma il tag in una foto mentre sorseggia l’aperitivo è decisamente troppo: non te lo metto il “mi piace”, tirchio.
IL TATTICO – Il suo “mi piace” è sempre calcolato, mai messo a caso. Una forma di captatio benevolentiae per dimostrare interesse/simpatia e, nello stesso tempo, sperare di suscitarne in virtù della legge non scritta sul contraccambio della cortesia. Vive costantemente in bilico tra l’ansia di farsi vedere e la paura di esporsi troppo. In fondo, lui è un trapezista dei sentimenti.

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Elogio della tartaruga

In una celebre favola di Esopo, la tartaruga si aggiudica la sfida contro la lepre che, pensando di avere già vinto, si ferma a metà gara e, tra altre perdite di tempo, addirittura si addormenta. La tartaruga, invece, nonostante il passo lento riesce a tagliare per prima il traguardo, vanificando il tardivo tentativo di rimonta della lepre. «Non serve correre, bisogna partire in tempo», questo l’ammonimento: per raggiungere qualsiasi risultato, occorre impegno e costanza.
Nel mondo di oggi c’è sempre meno spazio per le tartarughe. Chi si ferma viene anzi calpestato da chi arriva da dietro a tutta velocità. Non abbiamo il tempo di riflettere su cosa realmente vogliamo, dove stiamo andando, perché ci stiamo andando. La vita sembra essere diventata una corsa affannata fine a sé stessa.
Invece andrebbe riscoperto il valore della lentezza. Qualcuno lo fa, ad esempio gli organizzatori della Giornata mondiale della lentezza, quest’anno giunta all’undicesima edizione, i quali invitano a “vivere con lentezza, vivere al ritmo del tempo”. Un modo per ritrovare l’armonia perduta con la natura, un proprio equilibrio personale, dedicarsi alla riflessione, godere del piacere della riflessione. Oggi si riflette poco, forse perché per riflettere c’è bisogno di silenzio, e invece siamo bombardati dal rumore, che non è soltanto il chiasso delle nostre metropoli, ma l’ossessione di dire la qualunque su qualsiasi argomento, con una verbosità compulsiva.
Bisognerebbe studiare da tartaruga. Che tra l’altro è una bestiolina simpatica. D’altronde, chi non ha fatto il tifo per lei nel paradosso di Zenone, anche se il ragionamento del filosofo greco non ci convinceva affatto ed eravamo sicuri che Achille, alla fine, l’avrebbe raggiunta e superata?
Con i suoi spostamenti al rallentatore la tartaruga sembra invitare a vivere il presente in maniera più piena, a mettere da parte la frenesia per ciò che ci riserverà il futuro. Tanto il futuro arriverà lo stesso. La corazza serve a proteggerla dai pericoli: la propria salvezza, questo il messaggio, la tartaruga la trova dentro se stessa. Anche l’uomo ha necessità di costruirsi una corazza, con valori e ideali: quelli saranno il nostro rifugio, la nostra àncora di salvezza quando attorno tutto sembrerà franare.
La proverbiale longevità della tartaruga non sarebbe possibile senza un elevato spirito di adattamento. Non a caso viene associata al concetto di resilienza, la capacità di resistere agli urti della vita e riprendere il cammino, rimbalzando. La tartaruga sa fare tesoro dei propri errori, sa regolarsi di conseguenza. Come “la bella tartaruga” di Bruno Lauzi, che un tempo fu “un animale che correva a testa in giù/ come un siluro filava via/che mi sembrava un treno sulla ferrovia/ ma avvenne un incidente/ un muro la fermò/ si ruppe qualche dente/ e allora rallentò/ […] andando piano lei trovò/ la felicità/ un bosco di carote/ un mare di gelato/ che lei correndo troppo/non aveva mai notato/ e un biondo tartarugo corazzato/ che ha sposato un mese fa”.
La tartaruga è un animale saggio e la saggezza non va mai d’accordo con la fretta: richiede calma e un avanzare per gradi, con passo da montanaro. Chi va di fretta, oltretutto, si perde il paesaggio. Chi invece cammina lentamente ha tempo per osservare attorno a sé ed è padrone del tempo e dello spazio: decide quale direzione prendere, quando e dove sostare. La lentezza è il ritmo delle trasformazioni, ma anche l’antidoto più efficace contro l’oblio.
Lo sottolinea Milan Kundera (La lentezza, Adelphi 1995): «Nella matematica esistenziale il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. Da tale equazione si possono dedurre diversi corollari, per esempio il seguente: la nostra epoca si abbandona al demone della velocità ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuole farci capire che oramai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata da se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria».
Per sconfiggere la malattia dell’oblio e coltivare una speranza di felicità, è necessario dunque rallentare, fermarsi. Riuscire a godere del presente. La vita è come un buon vino: va gustata lentamente, con perizia da sommelier.

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Il passaggio dell’uragano Irma da Miami, in presa diretta nel racconto di Juan



Una testimonianza del passaggio di Irma da Miami poche ore fa, raccolta da mio fratello Mario

«Credo stia piovendo però non posso guardare fuori perché è tutto ricoperto. Abbiamo inchiodato delle lamiere su porte e finestre. In pratica siamo barricati dentro. Topi in gabbia. Non resta che aspettare».
Il mio amico Juan vive a South Beach, dove in queste ore sta passando Irma. È però ospite di una sua amica, in un quartiere più a nord. Al momento è al buio, perché non c’è più elettricità e le batterie è meglio conservarle per quando se ne avrà realmente bisogno.
Lui ha dovuto evacuare perché la sua casa è a rischio inondazione. Ha preso con se ciò che poteva, serrato la porta di casa, ed è andato. Essendo uno che per alcuni anni a Londra si è mosso di quartiere in quartiere con il proprio mondo rinchiuso in una valigia senza ruote, so come il mio amico si senta. Abbandonare, lasciarsi dietro il non indispensabile; è la praticità della vita che ti colpisce in pieno viso quando ti rendi conto che non trovi più cose che avresti voluto conservare per sempre. Il timore di Juan è che domani potrebbe ritrovarsi senza casa. Ha lasciato il Venezuela un mese fa, dopo aver conseguito una qualifica di ingegnere civile ad Havana, che non potrà usare in America perché non conosce l’inglese come vorrebbe. “Il sogno americano”, almeno per ora, lo ha portato in un negozio di elettrodomestici.
«Il rumore del vento è incredibile, sembra un ruggito infinito», continua Juan: «Le finestre continuano a scuotere. È come se qualcosa di sovrumano stia cercando di strapparle via, assieme alla casa». Poi cade la linea. Lo richiamo ma il cellulare è muto. Penso lo risentirò tra qualche giorno, passata l’emergenza. In queste situazioni preferisco sempre sperare in meglio. A che serve crearsi ipotetici drammi? È con questo spirito che domani andrò a Cuba, dove il Malecon e alcuni quartieri di Havana sono ancora inondati e dove, probabilmente, nei prossimi giorni non ci sarà elettricità. Ci vado con serenità, perché ho imparato sulla mia pelle che morire non è facile e che la vita continua anche se tutte le tragedie del mondo sono sempre dietro l’angolo.
Ripenso alla nostra conversazione e mi colpisce la calma di Juan. In un mondo dove ormai si va avanti a forza di superlativi, dove un mal di testa è un incubo, dove gli sconti sono un evento e dove tutto è una emergenza a oltranza, Juan di fronte ad un evento catastrofico sceglie il tono pacato di chi è semplicemente contento di essere vivo.

Mario Forgione

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Siate maledetti

Come troppe volte nel corso di quest’estate d’inferno, anche oggi bruciano i boschi attorno a Sant’Eufemia. Incoscienti e criminali, a voi giunga tutto il nostro disprezzo. E siate maledetti.

Siate maledetti per le colonne grigie che imbrattano l’azzurro del cielo.
Siate maledetti per le notti macchiate d’arancio.
Siate maledetti per il bruciore dei nostri occhi.
Siate maledetti per il raschio alle nostre gole.
Siate maledetti per le nostre narici ferite.
Siate maledetti per l’odore di morte appiccicata alla nostra pelle.
Siate maledetti per quest’aria di gesso.
Siate maledetti per ogni albero, per ogni fiore, per ogni ciuffo d’erba incenerito dalla vostra follia.
Siate maledetti perché il vostro fuoco non purifica, non riscalda, non è vita.
Siate maledetti per i funghi che non raccoglieremo.
Siate maledetti per le viole che non fioriranno.
Siate maledetti per i bambini preoccupati: «Dove dormiranno ora gli animaletti del bosco?».
Siate maledetti per il rumore delle pale dell’elicottero.
Siate maledetti per questa caligine di apocalisse.
Siate maledetti per le facce sudate e annerite dei volontari.
Siate maledetti per le frane che arriveranno con le prime piogge.
Siate maledetti perché ogni rogo è una coltellata al cuore.
Siate maledetti per le vostre coscienze ridotte a cenere.
Siate maledetti perché non siete capaci di amare neanche voi stessi.

*Foto tratta dal profilo Facebook di Enzo Comi

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Le uova rosse della tradizione pasquale romena

Dai miei vicini di casa romeni ho appreso un aspetto della loro tradizione pasquale che non conoscevo. In Romania, a Pasqua, si usa infatti dipingere le uova di rosso.
Le interpretazioni relative a questa tradizione sono diverse. Il rosso simboleggia infatti il supplizio ed il sangue versato da Gesù sulla croce. Non solo: secondo una vulgata molto popolare, le pietre che colpirono Gesù durante la flagellazione si trasformarono, subito dopo, in uova rosse; e anche le uova portate da Maria a Gesù sofferente si sarebbero miracolosamente colorate di rosso. Infine, sembra anche che mentre i Farisei banchettavano per festeggiare la morte del Cristo, qualcuno per dileggio pronunciò la seguente frase: “quando le uova che stiamo mangiando diventeranno rosse, allora resusciterà Gesù”. E così fu.
Le uova colorate possono anche essere decorate con motivi che rimandano ai temi della vita, della morte, dell’eternità, ecc.: un’usanza che è molto diffusa, in particolare, nella regione Bucovina.
La tradizione di dipingere le uova precede comunque la diffusione del cristianesimo e affonda le radici nella cultura cinese e in quelle della Persia e dell’antico Egitto, dove rappresentava la vita ma anche la rinascita della natura con l’arrivo della primavera. Venivano anche donate alle donne per propiziarne la fecondità.
Alle uova, che sono il simbolo della rigenerazione e della purificazione, viene infine anche attribuito un potere taumaturgico: il loro dono è quindi espressione di buon augurio.

*Per ulteriori approfondimenti:
http://www.ricetterumene.it/tradizioni_dettagli.asp?tradizione_id=8  (da qui è tratta la foto in basso)
http://www.imperialtransilvania.com/it/2016/04/29/leggi-notizia/argomenti/traditions/articolo/la-pittura-delle-uova-di-pasqua-in-romania-unarte-eternamente-viva.html

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Ballando sotto la pioggia

Il mio recente post Impressioni di Londra ha convinto Mario a raccontare qualcosa della sua esperienza di giovane “scappato” dall’Italia quasi vent’anni fa e accolto da una città che gli ha dato la possibilità di non rimpiangere niente di quella scelta. Ho sempre pensato che ci vuole molto coraggio per abbandonare questa nostra martoriata terra, tanto quanto ne serve per restare. [D.F.]

La mia storia d’amore con Londra cominciò una piovosa notte di giugno del 1997. Era il 16 giugno, per essere esatti. Due settimane prima avevo comprato un biglietto di sola andata, così, d’impulso, dopo aver letto un articolo sulla capitale inglese dove, tra le altre cose, mi si assicurava che avrei trovato lavoro in due secondi.
Avevo 22 anni. Da marzo mi trovavo a Milano, dove ero giunto proveniente dalla Sicilia dopo un viaggio in treno di 23 ore, ovviamente senza biglietto, il mio posto tra il corridoio ed il bagno, in una nuvola di fumo di sigarette. Come un “vu cumprà” terrone senza vergogna, vendevo prodotti inutili porta a porta, mentre mamma pensava fossi a Palermo a studiare psicologia. Conseguentemente, mia madre non crede a ciò che le dico da 19 anni. In verità, la mia carriera universitaria durò quattro mesi, il tempo di capire che avrei avuto almeno 30 anni prima di riuscire a guadagnare qualche soldo. Cosa per me impensabile, avendo assaporato l’indipendenza economica già a vent’anni, quando guadagnavo uno stipendio giocando alla guerra come sottotenente dell’esercito.
Quando arrivai a Londra, tutto il mio mondo in una singola valigia, mi resi conto di non capire una parola di inglese. Subito dopo mi ricordai di non avere un biglietto di ritorno. Panico, per cinque minuti. Le mie preoccupazioni hanno sempre una vita breve. Giunsi al mio ostello dopo essermi perso due volte in Underground: almeno per un tetto avevo avuto il buon senso di prenotare tutto tramite un’agenzia italiana.
Avrei diviso una stanza con tre sconosciuti. Uno di loro sarebbe poi diventato uno dei miei migliori amici. La prima notte mi portò a Piccadilly Circus a ballare sotto la pioggia “perché a Londra puoi fare quello che ti pare, quando ti pare”: una frase che non ho mai dimenticato e che negli anni mi ha spinto ad osare, a tentare di riuscire in “altro”, cose che in Italia non avrei mai considerato.
Essere via ti libera. Per me è stato come stare di fronte ad una tela bianca, pennello in mano, e cominciare a dipingere la mia vita, come la volevo io e non come se la immaginavano ed aspettavano gli altri.
Il mio primo lavoro non lo trovai in due secondi ma in due giorni, giusto in tempo, perché non avevo più soldi. Il 1997 fu un attimo, terminato a Trafalgar Square, arrampicato su un monumento ad aspettare la mezzanotte sopra un mare umano. Lavoravo in un McDonald’s dalle 7 del mattino alle 15.00, poi in un Pub dalle 18.00 alle 23.00 ed infine in strada dalle 23.30 all’una di notte, a fare volantinaggio per una discoteca dove il sabato notte vi lavoravo come cubista(!). Poi si usciva in centro. Dormivo pochissimo ma non importava, perché non dovevo chiedere niente a nessuno. Finalmente libero, ero felice.
Per me la felicità è sapere che puoi contare sulle tue forze per “arrivare” da qualche parte, che si può vivere senza dover chiedere favori e che se ti va, puoi lottare per conquistare la tua parte di mondo, senza compromessi, perché se hai delle qualità ti verranno non solo riconosciute ma anche valorizzate. Negli anni ho fatto di tutto, da elfo nei magazzini Harrods a poliziotto nella polizia metropolitana, da manager in un locale ad impiegato bancario, oltre ad altro di cui non parlo per scaramanzia ma che amo.
Ho vissuto a Melbourne, a Malta, a Los Angeles; spendo tanto tempo ad Havana e giro il mondo per lavoro, ma solo a Londra mi sento completo. Solo a Londra mi sento a casa. A Londra sono maturato nell’uomo che sono. A Londra ho trovato me stesso.
Ecco, potrei morire domani e morirei in pace, senza rimpianti. Da quella prima notte a Piccadilly Circus, non ho mai smesso di ballare sotto la pioggia.

[Mario Forgione]

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Il problema non è La Pira

Nei giorni scorsi è stata resa nota la volontà dell’amministrazione comunale di dedicare una piazza a Giorgio La Pira. Nulla da eccepire sulla statura morale e politica del padre costituente, deputato e sindaco di Firenze nativo di Pozzallo (Ragusa), che ho tra l’altro “incontrato” nel corso della mia esperienza da ricercatore, quando il Dipartimento dell’Università di Messina al quale afferivo prese parte alle celebrazioni per il centenario della nascita, con un convegno di studi i cui atti furono in seguito pubblicati (Dalla Sicilia al Mediterraneo. Atti del Convegno di apertura delle celebrazioni per il centenario della nascita di Giorgio La Pira, Messina-Pozzallo, 8-10 gennaio 2004).
Non condivido questa scelta, né nel merito, né nel metodo. Non la condivido nel merito, pur riconoscendo la grandezza del personaggio, derivante anche dallo sforzo per la costruzione della pace negli anni della Guerra Fredda e dall’impegno nell’Azione cattolica, associazione importante per la formazione di tantissime generazioni, che a Sant’Eufemia ha avuto per 35 anni il proprio faro nel parroco Antonino Messina.
Perché La Pira e non un calabrese o, perché no, un eufemiese? Meglio ancora: “una” eufemiese. Nel 2013, presentando nell’aula consiliare Il cavallo di Chiuminatto. Storia e strade di Sant’Eufemia d’Aspromonte, lanciai una serie di proposte, che purtroppo rimasero tali. Il mio suggerimento, in sintesi, era di correggere alcuni nomi errati (il caso limite è via Ruggero VII, personaggio storico mai esistito se non in quanto Ruggero Settimo: dove Settimo è il cognome, non l’enumerazione dinastica) e di rinnovare la toponomastica del paese dedicando qualche via a personaggi illustri calabresi ed eufemiesi, meglio ancora se donne, visto che l’unica omaggiata, a Sant’Eufemia, è la regina Margherita di Savoia. Avevo anche proposto, seppure in via informale, la costituzione di una commissione ad hoc, che curasse proprio la toponomastica del comune. Questo per dire che la mia è una riflessione che parte da lontano. Sono rimasto di quell’idea: dispiace che altri – legittimamente – l’abbiano cambiata. Dispiace anche che questa decisione sia stata presa nel chiuso delle stanze del palazzo municipale, senza coinvolgere quanto meno la Consulta comunale, che avrebbe potuto certamente dare un contributo prezioso. E questo attiene al metodo che è stato adottato per la scelta del nome, a mio avviso dettato dalle contingenze del momento, come già un anno fa, quando – a cavallo dell’organizzazione di un convegno per la Giornata della Memoria – “girò” la voce che la piazza in questione sarebbe stata intitolata ai “Giusti tra le nazioni”, ma poi non se ne fece nulla.
L’intitolazione della piazza a La Pira può avere molteplici e validissime motivazioni, ma non ha attinenza con Sant’Eufemia. Non ha niente a che vedere con la riscoperta della propria storia e con l’orgoglio per l’appartenenza a un destino comune. In quel caso, sarebbe stata un’operazione dall’altissimo valore civico e simbolico. Per come è stata concepita, invece, assomiglia più a un’occasione persa.
Rimango del parere che anche tra i nostri concittadini vi siano riferimenti morali e modelli di vite da imitare. Nella citata presentazione del 2013 – e anche successivamente – proposi il nome di una donna di Sant’Eufemia, Suor Rosaria Ioculano, che fu fondamentale per l’istituzione dell’Orfanotrofio Antoniano. Più indietro nel tempo, altri cittadini avevano suggerito quello di Giuseppe Chirico (“don Pepè”), amatissimo “medico del popolo”d alla cui memoria la Pro Loco, nel 2001, assegnò il Premio solidarietà “Ginestra”. Ma sono molti altri i personaggi eufemiesi o calabresi degni di essere omaggiati, protagonisti di primo piano nel campo della cultura, della politica, delle arti e dello sport che hanno dato lustro alla nostra terra.

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Parigi vista da Londra

Foto @MarioForgione

Gli attentati di Parigi sono stati definiti l’11 settembre europeo. Come allora, è stato ripetuto che niente sarà più come prima. I venti di guerra e la minaccia di ulteriori atti terroristici minano le nostre certezze di occidentali: saremo costretti a cambiare abitudini ed è probabile che sull’altare di una maggiore sicurezza dovremo sacrificare un po’ delle nostre libertà. Mio fratello Mario da quasi due decenni vive a Londra, che ha già subito attentati e che è nel mirino dell’Isis. Ha voluto affidare al mio blog una sua riflessione su ciò che significa vivere in una metropoli a rischio e ci ha confidato come pensa di “combattere” questa guerra: non cambiando niente delle sue abitudini, proprio perché lo scopo dei terroristi è sconvolgere la nostra quotidianità.

Lo ammetto. Negli anni ho fatto del distacco emotivo un’arte. Scopi conoscitivi a parte, raramente seguo o mi preoccupo di cose che non mi toccano personalmente o comunque da molto vicino. Per questo motivo, mi ha creato disagio leggere il fiume di parole e le opinioni riversate sui social media nelle ore successive all’attentato di Parigi.
Il tema del terrorismo mi sta a cuore: perché mi sento cittadino del mondo; perché faccio la spola tra Londra e l’America; perché quando a Londra il 7 luglio 2005 Al-Qaeda fece saltare uno dei treni in metropolitana, quello sul quale stavo leggendo distrattamente il giornale mentre mi recavo al lavoro era passato dal luogo dell’esplosione dieci minuti prima; perché soltanto negli ultimi sei mesi i servizi segreti inglesi hanno sventato sette attentati terroristici nella capitale londinese, la città in cui vivo da diciotto anni.
E’ una questione di tempo. Non “se” succederà, ma “quando”. Un giorno, un po’ come accade con il corpo umano, un’altra cellula impazzita riuscirà a bucare la rete protettiva e porterà altra distruzione, altro terrore, altro sangue. A Londra ho imparato a vivere con questa certezza che crea incertezza: «Forse oggi qualcuno seduto accanto a me nella metro o sul bus si farà saltare in aria, ed io con lui. Poi vallo a raccontare a mia madre!». Questo pensiero, disarmante nella sua fatale ed agghiacciante semplicità, attraversa spesso la mia mente, soprattutto da quando è diventato evidente che i proclami sono inutili e che l’ISIS è imprevedibile.
Che fare, allora? Ci ho pensato e ripensato, mesi di turbamento per arrivare al mio personale convincimento: NIENTE. Non farò niente. Non cambierò niente nella mia vita. E sono sereno, oggi più che mai. Nel mio piccolo combatto così, con l’indifferenza, la mia quotidiana e personale guerra contro l’estremismo.
Mi sveglio ogni mattino e decido di vivere un altro giorno come ho sempre fatto, perché il terrorista vorrebbe impedirmi proprio di fare questo: vorrebbe annichilirmi e destabilizzarmi. Allora, no. Davanti alle loro azioni io faccio spallucce: scelgo di vivere, non di sopravvivere.
Da quando ho sviluppato una mia coscienza individuale conduco la mia vita come se il momento attuale fosse l’ultimo. Non mi curo del passato o di un ipotetico futuro. Ciò che mi importa sta accadendo ora: il presente da assaporare e vivere mentre si svolge. Sono consapevole di quanto sia effimera la vita, di come tutto diventi niente nello spazio temporale di un attimo. Forse un giorno mi troverò al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma non sto qua a preoccuparmene, oggi.
Se malauguratamente dovesse accadere, preferirei però andarmene senza eccessivi clamori, senza proclami da eroe di cui non avrei bisogno, senza tributi su Facebook e senza quella platealità che oggi sembra regnare sovrana, platealità di cui si nutre qualsiasi cellula estremista.
Meglio il silenzio. E con il silenzio scelgo anche di non reagire, perché non vedo come si possa sconfiggere il terrore con l’orrore di una nuova guerra santa. Fare scoppiare una guerra sarebbe una loro vittoria, non la mia. Le azioni dei gruppi terroristici sono sempre mirate a provocare una reazione. Sono loro a volere la guerra, perché la guerra alimenta il radicalismo. Abbiamo potuto verificarlo dopo l’Iraq e dopo la Libia. Se solo guardassimo al passato non commetteremmo gli stessi errori con ciclica regolarità. Una storia nota, un succedersi di reazioni sbagliate ed eternamente uguali a se stesse. Non impareremo mai.
Mario Forgione

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Aylan e noi

Mio nipote ha quasi tre anni. L’età di Aylan accarezzato dall’onda sulla battigia. La stessa t-shirt, gli stessi pantaloni “a pinocchietto”, le stesse scarpette da tennis. Spesso si addormenta sul divano a faccia in giù, proprio come Aylan nella fotografia che ha fatto il giro del mondo, con le braccia lungo i fianchi e i palmi delle mani rivolti verso l’alto.
A differenza di mio nipote e di tanti altri suoi coetanei, Aylan non sta però dormendo. Quanti ce ne sono come lui nel mondo? Bambini che dovrebbero avere l’età del gioco, non quella della fuga disperata dalla guerra. Di quanti Aylan non sappiamo niente, fino a quando il dolore non ci viene sbattuto in faccia, con una violenza che ci lascia senza fiato, sgomenti? Infine, era necessario diffondere quella immagine?
Giro attorno a questo interrogativo dal momento in cui la fotografia ha avuto diffusione nel web ed è finita sui giornali, nella versione più cruda o in quella pietosa che ritrae il corpo senza vita di Aylan in braccio a un poliziotto turco. Come in una moderna Deposizione, ha fatto notare Adriano Sofri.
Non ho la risposta. Ascolto. Leggo riflessioni legittime. Tutte: quelle a favore della pubblicazione della tragedia angosciante di un bimbo che affonda il viso nell’acqua, così come quelle contrarie. E non so cos’è giusto. Non so dove tracciare il confine tra diritto di cronaca e spettacolarizzazione del dolore.
È pur vero che oggi esiste soltanto ciò che si vede, per cui i fotogrammi della morte e dell’orrore possono rivelarsi utili per scuotere coscienze intorpidite, che non riescono a percepire la dimensione biblica del dramma delle guerre e dell’esodo di migliaia e migliaia di essere umani. Essere umani – purtroppo occorre sottolineare anche questo, in tempi di strumentale e becero razzismo – che in assenza di immagini vengono percepiti come i numeri di una fredda contabilità, non come fratelli disperati da soccorrere.
La famiglia di Aylan scappava da Kobane, città curdo-siriana simbolo della resistenza contro la violenza distruttrice delle milizie dell’Isis. Marito, moglie e due figli che speravano di raggiungere la Grecia e da lì prendere il volo per il Canada, dove la sorella parrucchiera del padre di Aylan era riuscita a farsi rilasciare i visti per i quattro congiunti. A Kobane, ha assicurato il padre di Aylan, saranno seppelliti la moglie Rehan e i due figli, Aylan e Galip, cinque anni, morti con altre otto persone in seguito al ribaltamento dell’imbarcazione che avrebbe dovuto trasportare i profughi dalla Turchia all’isola greca di Kos.
La fotoreporter Nilufer Demir ha rivelato al “Corriere della Sera” la ragione di quegli scatti: «Ho subito capito che era morto. Non c’era nient’altro da fare. Era l’unico modo per far sentire l’urlo di quel corpo». Aylan come Kim Phúc, la bimba che con la sua corsa verso il teleobiettivo, nuda e bruciata dal napalm, assurge a denuncia degli orrori della guerra del Vietnam. O come Tsvi Nussbaum, il bimbo polacco con berretto, cappotto e pantaloni corti, a braccia alzate durante il rastrellamento del ghetto di Varsavia, emblema della tragedia dell’Olocausto.
Non so schierarmi. Perché è vero che siamo talmente assuefatti che l’immagine rischia di essere fine a se stessa, di alimentare il circo mediatico del dolore e di calpestare dignità e pietà, deontologia e buon senso, nella squallida gara per la conquista di qualche “like” in più. Ma forse è anche vero che soltanto la visione dell’orrore riesce a destarci dal torpore e può fare comprendere alla comunità internazionale la gravità delle emergenze umanitarie di alcuni Paesi flagellati da guerre e fame, convincere Stati nazionali e sovranazionali della necessità di un cambio di registro in tema di politiche di accoglienza e gestione di flussi migratori divenuti ormai inarrestabili.

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