“Avremmo voluto fare come in Francia”: in ricordo di Pippo Fiore

Aveva una gran voglia di parlare, Pippo Fiore. A dispetto dei molti “guarda che è meglio se lasci perdere: da tempo ha tagliato ogni tipo di rapporto con tutti quelli che gli eravamo amici”. Inutile dire che l’avvertimento, invece di scoraggiarmi, esaltò il mio desiderio di conoscerlo per sottoporgli la mia richiesta. Stavo lavorando alla tesi di laurea Il ’68 a Messina, argomento sul quale ancora non esisteva uno studio specifico. L’idea, poi realizzata, era quella di intrecciare le testimonianze provenienti da fonti diverse e vagliarle per tentare una ricostruzione quanto più oggettiva, lontana dal mito e dalla nostalgia: i ciclostilati del “giornale dell’occupazione” e i documenti del movimento studentesco messinese, i resoconti della stampa locale, le interviste ai protagonisti, quelli che l’avevano fatto e quelli che l’avevano subito. Ciò che si sperava che fosse, ciò che era stato, ciò che era rimasto a distanza di trent’anni. Il bilancio di una generazione attraverso le risposte alle quaranta domande di un questionario che avevo preparato insieme al mio correlatore, Marcello Saija, anch’egli protagonista di quegli avvenimenti.

Tra i soggetti da intervistare, il comunista Pippo Fiore, all’epoca studente della Facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche, che proveniva – come tanti altri – dall’esperienza delle associazioni (Ugi, Agi, Intesa, Fuan) e degli organismi rappresentativi studenteschi pre-sessantotto: a Messina, il parlamentino dell’Orum, composto da 35 rappresentanti degli studenti. Sconfitto, solo e azzannato dal male che nel giro di un anno lo avrebbe messo al tappeto. “A fargli compagnia, è rimasta soltanto la bottiglia”, la chiosa finale, amara, anche un po’ cattiva, di chi mi suggeriva di non provarci nemmeno.

L’intervista non ci fu. Ci furono due settimane di incontri, tra giugno e luglio del 1997, necessari perché un intervento chirurgico alla lingua gli impediva di esprimersi bene e per più di 20-30 minuti. Già al primo appuntamento, davanti alla trattoria “La Capanna”, mi sommerse di osservazioni e suggerimenti sul percorso che avrei dovuto seguire per scrivere una buona tesi. Dopo le presentazioni, mi strappò letteralmente dalle mani il questionario e cominciò a leggerlo, mentre io gli camminavo a fianco. Finimmo con il percorrere per due volte il perimetro dell’isolato. Finì anche per beccarmi un “sei un figlio di puttana”, quando arrivò alla domanda su cosa significasse essere comunista mentre i carrarmati sovietici occupavano Praga: “è vero che il burocraticismo staliniano e brezneviano ebbe la meglio sulla spinta riformatrice di Dubcek, però non bisogna fare semplificazioni. Ci sono anche, ad esempio, la lotta e la lezione di Che Guevara. Il valore della libertà è l’elemento fondante dell’essere comunista. Altrimenti sei un’altra cosa”.

Con Pippo Fiore, il questionario non servì. Scendeva con un’andatura incerta e leggera da via Dei Vespri, attraversava l’incrocio di via Cesare Battisti ed entrava al “Bar Università”, dove l’attendevo, registratore, bloc-notes e penna sul tavolino. Era un fiume in piena, spaziava da considerazioni politiche, sociali e di costume sulla storia di Messina all’introspezione, per cui a me non restava che tentare di inserirmi con qualche domanda per indirizzarlo sulle questioni attinenti alla mia ricerca.
Come in un nastro, i fotogrammi di un’epoca. L’operazione Mussolini-monsignor Paino, dopo il 1908, che spinge l’Università a rinchiudersi nel proprio recinto culturale. La città succube di una borghesia qualunquista cui dà fastidio il jazz dei ragazzini del “Maurolico”. Il Cut (centro universitario teatrale) e le contrapposizioni ideologiche su Picasso e Dalì, “senza spesso sapere chi c…. fosse Picasso e chi c…. fosse Dalì!”. Il Sessantotto stesso come movimento piccolo-borghese, per il quale – in definitiva – valse la metafora dell’orologio contenuta nella commedia Addio giovinezza! di Nino Oxilia: la storia d’amore tra due studenti universitari a inizio Novecento, bruscamente interrotta quando il padre di lui manda al figlio appena laureato una “cipolla” da tasca che sottintende il richiamo a casa. A Messina e altrove il tentativo di disinnescare la contestazione con la cooptazione (“hai fatto il ’68, con tutte le tue idee… bene, ora puoi tornare a casa”), era riuscito. Quando invece sarebbe stato auspicabile un altro modello di riferimento culturale: lo studente universitario Luca Marano, protagonista del romanzo di Francesco Jovine Le terre del Sacramento, che paga con la vita la scelta di schierarsi al fianco dei contadini molisani in lotta contro il fascismo agrario.

Il grande dolore di Pippo Fiore, nonostante le molte soddisfazioni raccolte da sindacalista Cgil, credo sia stata l’Università: “sono stato per anni assistente universitario, poi mi hanno fatto fuori”. E l’amarezza impregnava l’invito che mi rivolse, affinché studiassi anche i percorsi professionali, in particolare accademici, di molti sessantottini, lasciando così intuire il perché del suo ritiro in sdegnosa solitudine.

Alla domanda “che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?”, risolta da Bertold Brecht nella poesia A chi esita con “non aspettarti nessuna risposta oltre la tua”, Pippo Fiore non ebbe tentennamento alcuno: “L’autocritica la farei su tutto. Ma alla mia età e con la cosa [il cancro] che ho addosso, fare autocritica sarebbe patetico. L’autocritica è di essere messinese. È stato che avevamo tutti i difetti e che non avevamo alcune cose; è stato che, in fondo, avremmo voluto fare come in Francia”.

Non riesco a non pensare a Pippo Fiore quando su Rai 3, a notte fonda, scorre la sigla di “Fuori Orario”. Anni fa mi è capitato di parlare di lui mentre Patty Smith realizzava il prodigio di Because the night. Altri rimpianti, nella notte che confonde i sogni.

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