I miei maestri

Mi è stato chiesto di presentare una serata molto particolare, organizzata dal gruppo di Sant’Eufemia “Insieme per crescere” e dedicata agli insegnanti del nostro paese. La manifestazione, che si svolgerà domenica 17 dicembre presso la sala ricevimenti “Cagnolino”, a partire dalle ore 18.00, vuole essere un riconoscimento all’importanza del lavoro svolto dal “maestro”, al suo valore umano e professionale.
Ho frequentato la scuola elementare, la media e il liceo nel mio paese, sono orgoglioso di essere cresciuto tra quei banchi. Ho ricevuto molto, lì ho appreso molte delle lezioni che fanno di me l’uomo che sono oggi. Ed è accaduto perché in queste scuole ho avuto la fortuna di trovare insegnanti che avevano molto da dire non solo come docenti ma anche come cittadini ed esempi da imitare.
La signora Rina De Leo mi ha insegnato a leggere speditamente, a non sbagliare le “e” con l’accento e le “a” con l’acca, ma soprattutto mi ha insegnato cosa vuol dire “rispetto dei ruoli”. È una lezione che da allora non ho dimenticato. Si dirà che i tempi sono cambiati: ora gli alunni si rivolgono ai propri insegnanti dandogli del “tu”, una cosa impensabile quando frequentavo io la scuola elementare. I tempi sono cambiati, d’accordo. Ma a me pare che il riconoscimento di quell’autorevolezza non esista più e non è un bene, né per le istituzioni scolastiche, né per gli adulti di domani.
Nei piccoli paesi esistevano autorità riconosciute, oltre a quelle istituzionali del sindaco, del parroco e del brigadiere: l’insegnante, il farmacista, il medico. Non è più così: oggi tutti sono insegnanti anche se non hanno mai letto un libro di pedagogia, sanno cosa un docente deve insegnare e come si deve comportare con i ragazzi. Tutti si collegano a Internet e sanno da quale malattia sono afflitti, di quale terapia hanno bisogno, addirittura se i vaccini vanno fatti o meno.
Me la ripeto spesso quella lezione sul rispetto dei ruoli e cerco di applicarla nella vita di tutti i giorni, perché senza questa consapevolezza la società perde punti di riferimento fondamentali, si perde essa stessa nella confusione tra diritti, doveri e responsabilità. Non ho mai preso uno schiaffo dai miei insegnanti, ma me la facevo addosso solo al pensiero di un rimprovero, terrorizzato dall’eventualità che i miei genitori potessero essere convocati a scuola perché sapevo che, in quel caso, avrei fatto fare alla mia famiglia una cattiva figura.
Il professore Aldo Coloprisco mi ha insegnato che non basta sapere le date storiche più importanti o la biografia personale e professionale degli autori più famosi. Con il suo teatro mi ha insegnato ad essere un cittadino della comunità in cui vivo, perché ognuno di noi, con i propri talenti, ha il dovere di impegnarsi per rendere più bello il posto in cui vive. Il teatro del professore Coloprisco serviva a responsabilizzare i ragazzi, che assumevano un impegno che poi doveva essere portato a compimento. Serviva a farci capire che questo posto è nostro e che buon cittadino è colui che si spende per dare un contributo alla sua crescita facendo aggregazione, coinvolgendo nei processi di integrazione soprattutto coloro che in genere ne vengono esclusi. Anche questa è una lezione che custodisco nel profondo e che cerco di applicare alle cose che faccio nel mio piccolo, nelle associazioni o soltanto scrivendo della storia del paese.
Il professore Rosario Monterosso mi ha insegnato ad amare la storia. Devo a lui i libri che ho scritto. Era un hombre vertical, un uomo tutto d’un pezzo, dalle convinzioni solide e non barattabili. Un uomo che mi ha insegnato a guardare la vita e le persone con occhio da indagatore, che non deve mai fermarsi alle apparenze, che – di fronte a una “verità” – deve cercare sempre di comprendere le ragioni di chi quella verità cerca di confutare. Magari mantenendo le proprie idee, ma sempre rispettando quelle degli altri. Se si hanno delle idee e dei valori ai quali non si è disposti a rinunciare, si sarà sempre se stessi. Non esiste cosa più degna del non dovere mai fingere di essere altro dalla propria natura e dai propri convincimenti. Stare a posto con la propria coscienza, essere coerenti con i propri ideali e leali con il prossimo. Dare l’esempio della possibilità di una strada diversa, perché la vera sconfitta nella vita è rassegnarsi e subire passivamente ciò che accade intorno a noi.
Questi sono stati i miei maestri, in ordine rigorosamente cronologico. Come loro, molti altri hanno allevato generazioni di eufemiesi e a tutti loro dobbiamo essere grati.

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Viva il liceo “Enrico Fermi”

Non mi sento un diplomato di serie B, ora che la Fondazione Agnelli ha collocato il liceo “Enrico Fermi” di Bagnara-Sant’Eufemia all’ultimo posto tra i licei scientifici della provincia di Reggio Calabria, in una graduatoria stilata sulla base del rendimento universitario degli studenti provenienti dagli istituti superiori selezionati. Soprattutto, cosa ben più importante, non mi sento un cittadino di serie B.
Dal liceo, negli ultimi quattro decenni, hanno spiccato il volo avvocati, medici, ingegneri, architetti, biologi, docenti che hanno fatto e fanno la fortuna delle realtà in cui vivono e operano. Le sue aule sono state palestra di formazione per professionisti eccellenti; ma, in un campo più largo, hanno fornito a chi le ha frequentate gli strumenti indispensabili per decodificare e interagire con il mondo, insegnamenti che vanno al di là del contenuto dei libri di testo. Il liceo “Fermi”, per Sant’Eufemia, è stato ed è una benedizione di Dio: un presidio culturale dall’impatto decisivo nel contesto locale. Per questo motivo, le graduatorie e le statistiche vanno maneggiate con cura. Le fredde cifre non tengono conto dell’aspetto più nobile nell’operato di una scuola, vale a dire la sua incidenza nel tessuto sociale.
La scuola non può essere un ospedale che cura i sani e respinge i malati: don Milani aveva pienamente ragione. Quindi, i dati vanno analizzati con il sentimento della visione, con la serietà della critica che non nasconde i problemi ma ci si scontra quotidianamente per tentare di risolverli. Il liceo “Fermi” ha allevato professionisti, donne e uomini impegnati nelle associazioni e nella politica, gente che si sporca le mani nella trincea quotidiana della lotta per fare della nostra realtà un mondo migliore, sulla scorta di lezioni di vita che una classe docente sempre all’altezza cerca di trasmettere ai propri studenti. Perché, se la scuola si riduce a deposito di nozioni che passano dai contenitori più grandi a quelli più piccoli, ha fallito la propria missione.
La domanda alla quale statistiche del genere non forniscono risposta è quanto la formazione degli studenti nelle scuole e nelle università del Mezzogiorno contribuisca, paradossalmente, a scavare un solco sempre più profondo tra Nord e Sud. Il problema principale rimane sempre quello dell’irrisolta questione meridionale, che nel passato provocava dal Sud un’emorragia di braccia da lavoro e che oggi assume anche i caratteri dell’emigrazione intellettuale. Il problema è quanto si arricchiscano le regioni settentrionali grazie alla professionalità di giovani meridionali e quanto, di contro, si impoverisca il Sud per l’esodo del proprio straordinario patrimonio di intelligenze ed energie. Ma prima che lavoratori, numeri da incasellare sotto le colonne dei dati sull’occupazione dopo la conclusione del percorso di studi e l’ingresso nel mondo del lavoro, siamo cittadini che vivono di sentimenti e di valori.
No: non mi sento né diplomato, né cittadino di serie B.
Il professore Francesco Idotta, docente di storia e filosofia nella sezione eufemiese del “Fermi”, ha commentato con sintesi efficace: «Le classifiche hanno un senso per chi aspira ad essere il migliore, ma noi aspiriamo ad essere migliori». Parole essenziali per dire tutto quello che c’è da dire.

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La classe mista di via Regina Margherita, anno scolastico 1952-53

Quando ancora non era stato costruito l’edificio dell’attuale Scuola elementare “Don Bosco” (1957), le varie classi venivano ospitate in differenti case private o baracche edificate dopo il terremoto del 1908. In una di queste abitazioni, che si trovava in via Regina Margherita, mio zio Carmelo e mio cugino Gaetano frequentarono la prima classe “mista”, nel primo giorno di scuola accompagnati per mano – come ama ricordare Gaetano – da mia nonna Ciccia.
La maestra che impartì ai due bambini i primi insegnamenti si chiamava Calogera Sciacca. Le lezioni vertevano sulle seguenti discipline: religione; educazione morale, civile e fisica (che comprendeva anche la condotta); lingua italiana; aritmetica e geometria; disegno e bella scrittura. A partire dalla terza classe, a queste andavano aggiunte altre materie: lavoro; storia e geografia; scienze e igiene; canto.
Nella fotografia scattata poco prima delle vacanze di Natale, da destra verso sinistra – in posa davanti alla maestra Sciacca – sono riuscito a identificare i primi quattro alunni: Antonino Luppino, Graziella Ortuso, Carmelo Pentimalli, Gaetano Comandè. L’alunna alla sinistra della maestra è Maria Monterosso; quella accanto all’albero di Natale è invece Annunziata Surace.

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Sosteniamo il nostro liceo

Non ho difficoltà a confessare la mia assoluta e volontaria mancanza di neutralità in tutte le questioni che riguardano il liceo scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia. Questione di cuore, probabilmente. Ma non è solo questo. Certo, la circostanza che là dentro io vi abbia trascorso anni formidabili – dal punto di vista della formazione, ma anche sotto il profilo della crescita personale – ha indubbiamente il suo peso. È, insomma, qualcosa che ha molto a che fare con il sentimento della gratitudine. Proprio per questo, ogni qual volta me ne viene data l’opportunità, sono lieto di poter “restituire” qualcosa del tanto che mi è stato dato: si tratti di incontrare gli studenti per parlare di libri o di volontariato, oppure collaborare per l’organizzazione di iniziative culturali.
Sono fermamente convinto che il liceo “Fermi” rappresenti un baluardo di civiltà e la speranza di un futuro migliore per i ragazzi del nostro territorio. Pertanto occorre difenderlo con tutte le forze e spendersi per far sì che sia messo nelle condizioni di crescere sempre di più.
Nella sua storia quarantennale, è stata costante la presenza di un corpo docente qualificatissimo, per preparazione e per doti umane. Professoresse e professori che hanno inteso e intendono il proprio lavoro come un servizio alla comunità che li ha adottati, riconoscente. Un privilegio che, sommato alla presenza di alcune vivaci realtà associative, negli anni ha notevolmente contribuito alla crescita culturale e civile di Sant’Eufemia. Ciò costituisce un patrimonio di inestimabile valore, che non possiamo permetterci il lusso di disperdere se non vogliamo rischiare pericolosi salti all’indietro.
A partire dal prossimo anno scolastico (2016/2017), l’indirizzo di studio scientifico sarà affiancato dal liceo delle scienze umane e dal liceo linguistico. Un risultato straordinario per Sant’Eufemia, che pone la nostra cittadina sullo stesso piano di realtà più popolose e per il quale grande merito va riconosciuto alla tenace dirigente Graziella Ramondino. Ma si tratta soprattutto di un’opportunità che le famiglie eufemiesi devono cogliere senza esitazioni, considerato che l’ampliamento dell’offerta formativa consentirà a un numero maggiore di ragazzi provenienti dalla scuola media di non doversi necessariamente spostare per frequentare istituti superiori corrispondenti alla propria indole e ai propri interessi culturali.
Chiunque abbia a cuore le sorti della comunità eufemiese, deve augurarsi il successo di una proposta che ha tutti i presupposti per riuscire e per produrre un significativo salto di qualità: nuova sede e docenti molto preparati in primis. Bisogna però anche darsi da fare per favorire questo risultato. Come? Semplice: con il contributo che, da cittadini protagonisti della realtà in cui viviamo, saremo in grado di offrire incoraggiando l’iscrizione dei nostri figli presso gli istituti superiori presenti a Sant’Eufemia. D’altronde, se a tutte queste ottime ragioni ne vogliamo aggiungere una più “materiale”, perché andare a cercare fuori ciò che si può avere in casa con minore dispendio di energie (alzarsi presto, rientrare nel pomeriggio) e di denaro (abbonamento per l’autobus o comunque spese per il trasporto e, più in generale, i costi della trasferta)?

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Via Grande

Più di venti anni fa Nino Caserta, maestro elementare di generazioni di eufemiesi, in cinque puntate raccontò per la rivista “Incontri” (edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio dal 1988 al 2005) la storia del giornale murale “Via Grande”, realizzato dai suoi alunni sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso. “Un’occasione – spiegò – per fare il punto su un’epoca, su quel senso della famiglia e della vita, sui valori che hanno irrobustito quelle generazioni”.
Per ricostruire il “piccolo mondo antico” della Sant’Eufemia uscita dal dopoguerra e pronta ad offrire le braccia dei propri figli alle fabbriche del Nord o alle lontane terre d’Oltreoceano Caserta spulcia vecchie pagine ingiallite che riproducono poesie, favole, disegni, lettere, proverbi, spaccati di vita quotidiana. Il risultato finale è un affresco di gente semplice e laboriosa, dignitosa anche quando soffre il freddo e la fame, animata dalla speranza di un futuro migliore, confortata dal prevalere di sentimenti di condivisone, solidarietà. Rileggendo le parole scritte dai nonni di oggi rivediamo il paese di allora, i suoi costumi, la sua storia: San Bartolo con i vecchi muri del monastero, la chiesetta e la “Fontana dei Monaci”, la promessa di fidanzamento di una giovane coppia, il carnevale per le strade e nelle case, i giochi di piazza, il mercato settimanale con i prodotti della terra e il pesce fresco delle gerle che le bagnarote trasportavano sulla testa. Il duro lavoro dei campi e la consapevolezza del valore della fatica e delle rinunce: “Gesù fa che mio padre e mio fratello non si facciano male al lavoro”, supplica un bambino costretto a crescere in fretta, perché i bisogni materiali rendono maturi e responsabili sin da piccoli.
Il titolo del giornale non è casuale. Rimanda a una delle strade più antiche del paese, situata nell’attuale Vecchio Abitato (o Paese Vecchio), “grande” se confrontata con i vicoli caratteristici dell’originario assetto urbano di Sant’Eufemia, precedente ai terremoti del 1783 e del 1908. Su via Grande, larga un paio di metri, si innestavano stradine secondarie ancora più strette e corte, per tutto il tragitto che collegava la chiesa Matrice con piazza Mercato (oggi piazza Purgatorio). Una scelta identitaria, che sottintende la volontà di raccogliere “la memoria delle cose più lontane”, di riscoprire – annota Caserta – “costumi e valori, figure e usanze che poi ciascuno si porta dietro come corredo e ricchezza dell’essere figlio di una patria, quella piccola del paesino e quella grande col nome Italia, con la coscienza più o meno acquisita di essere egli stesso tessera dell’immenso mosaico che dalla singola persona può giungere all’armonica convivenza di una società”.
Scopriamo che nell’anno scolastico 1958-59 la scuola elementare “Don Bosco” fu sede provinciale della sperimentazione del C.R.E.S. (centro ricreativo educativo scolastico). Al termine dell’orario delle lezioni i bambini consumavano il pranzo nello stesso edificio scolastico, quindi venivano affidati a un’equipe di insegnanti che coordinava le attività formative del Centro (studio e ricerca; canto e danza; tecniche pittoriche e manuali; teatro e giochi): lavori di falegnameria, di carta e di creta, ma anche dipinti, lettura di libri, esecuzione di canzoni, giochi nel cortile.
Lorenzo fissa sulla carta bambini intenti a soffiare sui bracieri non sempre di ottone, che Felice rivela essere accesi prima di entrare nell’aula: “accendiamo i bracieri, poi li portiamo in classe e quando abbiamo le mani fredde andiamo a riscaldarcele, perché fa molto freddo”. D’altronde ha ragione Andrea quando osserva che con le mani fredde è impossibile scrivere bene. Fuori dalla scuola è diverso: “quando le mani si raffreddano, entriamo in una casa qualsiasi e ci riscaldiamo”, dichiara Diego. Mentre Giovanni racconta che, quando nevica, i bambini costruiscono una slitta con due tavolette di legno e si lanciano nelle discese del paese.
Sono fanciulli attenti alla natura che li circonda: il canto degli uccelli, la fioritura degli alberi e l’esplodere della primavera. Conoscono il mutare delle stagioni e il fenomeno della transumanza delle greggi e delle famiglie, raccontata con parole che sembrano prese in prestito da Corrado Alvaro. Giuseppe annota che “i pastori non ci sono più: sono andati in pianura, vicino al mare, dove fa più caldo”; e Stefano, di rimando: “sull’Aspromonte ci sono tanti greggi e tanti pastori. Proprio accanto a casa mia abitano sei pastori. Qualche volta essi portano le loro pecore al pascolo nelle mie terre e le portano perché c’è tanta erba e non si può falciare. Quando viene il mese di gennaio e fa freddo, essi se ne scendono con le pecore e le portano a Rosarno. Nel mese di marzo se ne tornano ancora sui monti perché laggiù comincia a fare caldo”.
Dal locale al globale, gli alunni del maestro Caserta si interessano anche della corsa allo spazio tra Unione Sovietica e Stati Uniti, una delle tante pagine della guerra fredda combattuta dalle due superpotenze mondiali. Dieci anni prima che Tito Stagno pronunciasse in diretta televisiva “ha toccato: l’uomo è sbarcato sulla Luna”, Lorenzo disegna Un razzo verso la Luna e commenta: “La Russia e l’America vogliono sapere cosa c’è sull’altra faccia della Luna. Siccome la Luna a noi fa vedere una sola faccia, essi mandano dei razzi e li fanno posare sopra la Luna. Ancora nessun razzo si è posato sulla Luna, ma gli scienziati prevedono che questo che c’è in volo forse si poserà”.
Il giornale si occupa anche di televisione, nuovissimo mezzo di comunicazione che in quegli anni cominciava ad entrare nelle case dei più benestanti, non in quella della maggior parte dei piccoli redattori di “Via Grande”. Nelle case dei pochi possessori di un televisore la gente delle rughe si radunava per assistere alle trasmissioni del tempo. A Gilberto piace “La TV per i ragazzi”, in particolare la serie televisiva Ivanoe, tratta dall’omonimo romanzo storico di Walter Scott, che fece conoscere al grande pubblico l’attore Roger Moore, il futuro James Bond.
Il programma del momento è però Il Musichiere, condotto da Mario Riva: “è un gioco divertente e ci sono concorrenti di ogni regione d’Italia”, spiega Sergio per descrivere la trasmissione diventata molto popolare tra il 1957 e il 1960. Non appena l’orchestra di Gorni Kramer accennava un motivetto, due concorrenti in scarpette da tennis saltavano dalla sedia a dondolo e scattavano per suonare la campana e poter così tentare di dare la risposta esatta.
A una puntata del Musichiere prese parte l’eufemiese Pippo Pecora, un portento nel riconoscere le canzoni che per la troppa foga, tuttavia, cadde sulla canzone September in the rain, celebre brano interpretato da molti artisti, tra i quali Frank Sinatra. La conosceva, ma invece di “settembre” pronunciò “novembre”, per la delusione delle centinaia di spettatori che in quel lontano sabato sera riempirono piazza Matteotti per vedere il proprio compaesano nel televisore issato sul muretto da Cosimo ’u cipuddaru, che li vendeva.

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Compagni di scuola in una foto degli anni Cinquanta

Eccoli qua i nostri genitori, i nonni di molti che scruteranno la foto con la
curiosità del visitatore di una mostra sulla condizione delle famiglie povere
del secolo scorso. Non ci vuole molta fantasia per riconoscere i nostri
lineamenti in questi volti seppiati di metà anni ’50, nel lungo ciuffo di lato
che sembra ricordare la recente tragedia della guerra scatenata dal criminale nazista,
nelle maglie a righe lavorate ai ferri, spesso il prodotto di un’economia che
ancora era da baratto e che non riusciva a riempire la pancia di chi non aveva almeno
una striscia di terra da coltivare.

Non ride quasi nessuno tra gli alunni in posa per la foto di una terza classe
elementare di Sant’Eufemia, forse nel primo anno scolastico svolto nell’attuale
edificio della “Don Bosco”. Erano state da poco abbandonate le classi dislocate
in diverse baracche del paese, con i pennini che se non li sapevi trattare con
delicatezza finivano per allargare chiazze nere sui fogli e i calamai riempiti
ogni mattina a metà, all’origine delle punizioni più severe per i ragazzini che
anche soltanto fortuitamente ne avessero rovesciato sul banco l’inchiostro.   

Bambini e bambine di tutte le tutte le “taglie”, i regolari accanto ai ripetenti di
lungo corso, questi ultimi solitamente provenienti da famiglie poverissime per
le quali le priorità erano altre rispetto alla frequenza scolastica dei figli. 
Con loro il maestro Chiné, che arrivava tutti i giorni da Reggio Calabria percorrendo
la strada provinciale a bordo di una Vespa in compagnia del collega Errera. La costruzione dell’autostrada era ancora un lontano miraggio. Personaggi appartenenti agli anni mitici del servizio vissuto come una missione da svolgere nella trincea dell’Aspromonte. Con il caldo e con il
freddo, oppure sfidando Giove pluvio coperti alla meglio dalla cerata che molto,
tuttavia, lasciava al dominio della pioggia battente. Sia detto senza retorica:
due insegnanti eroici. Memorabile quella volta che la motoretta sbandò in un tornante tra Scilla e Bagnara, trascinando i due maestri a terra. Per lo stupore degli alunni che assistettero al loro sofferente ingresso in classe, lacerati
e con i pantaloni a brandelli.   
Non ridono Bazzicotto, Straccio e tutti gli altri figli del secondo dopoguerra, di lì a poco artefici del riscatto di una generazione che non aveva niente e che in paese, al Nord Italia o all’estero sarebbe riuscita a realizzare il miracolo: assicurare ai propri figli condizioni di vita neanche immaginabili
negli anni della grande miseria.   
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Il 2014 del Csv dei Due Mari

C’è anche un pezzetto di Sant’Eufemia nel video che racconta le attività svolte nel 2014 dal Centro Servizi al Volontariato dei Due Mari con associazioni, scuole e terzo settore della provincia di Reggio Calabria. In particolare, ci sono i ragazzi del liceo scientifico “Enrico Fermi”, impegnati nel progetto “Per il nostro bene comune”, realizzato in collaborazione con l’amministrazione comunale e con le associazioni di volontariato “Agape” (Sant’Eufemia) e “Asproverde” (Sinopoli).
Circa un anno fa, avevo raccontato l’evento conclusivo di questa bella iniziativa nell’articolo Seminatori di bellezza (qui).

*Il video, realizzato da Lucia Griso, è tratto dal profilo Facebook “Scatti di Valore”.
Buona visione.


UN ANNO INSIEME!In questo video il racconto per immagini del cammino fatto dal CSV dei Due Mari con le Associazioni della provincia di Reggio, ma anche con le Scuole, il Terzo Settore e la comunità territoriale nel 2014
Posted by Scatti Di Valore on Venerdì 12 giugno 2015

  

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Abbasso le bombe, viva la bellezza

Una reazione istantanea come un riflesso condizionato. Come il piede che scalcia non appena il martello colpisce il ginocchio. Come il sorriso che scatta naturale davanti alla bellezza di questi ragazzi colorati e con gli occhi pieni di speranza. Occhi che non si arrendono, che non possono arrendersi perché se lo fanno loro c’è davvero da abbassare la saracinesca e sparire. Lasciare il campo ai bruti che sabato notte, ma neanche tanto (alle 21.40 circa), hanno tentato di colpire al cuore l’avamposto più alto della cultura eufemiese, quel liceo scientifico che rappresenta la speranza e l’argine. La speranza di un futuro migliore; l’argine alla barbarie che pure resiste e rilancia. Per questo motivo non occorre abbassare la guardia e insistere, tenere i riflettori accesi perché anche se non sono stati rilevanti i danni materiali dell’esplosione nei locali che ospiteranno il liceo “Fermi”, è grave l’azione subita da tutta la città. Non è stato colpito il liceo, attentati del genere feriscono il futuro di un’intera comunità, che per questo è chiamata a reagire. A schierarsi. A metterci la faccia. Accanto ai ragazzi e ai loro bellissimi striscioni di vita, contro la morte della violenza e della sopraffazione.

Farlo con ancora più forza di quella espressa stamattina nel corteo partito dalla sede attuale del liceo e che, percorrendo le vie del paese, ha fatto tappa nei locali dell’ex scuola elementare “Purgatorio” e da lì è poi approdato nella sala consiliare del Palazzo municipale, dove due portavoce degli studenti hanno rivolto al sindaco di Sant’Eufemia Mimmo Creazzo l’invito a non indietreggiare nell’impegno a favore della legalità e della civiltà:

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, 
e fui contento, perché rubacchiavano. 
Poi vennero a prendere gli ebrei, 
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. 
Poi vennero a prendere gli omosessuali, 
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. 
Poi vennero a prendere i comunisti, 
e io non dissi niente, perché non ero comunista. 
Un giorno vennero a prendere me, 
e non c’era rimasto nessuno a protestare”. (Martin Niemöller) 
Iniziamo con la citazione di questo testo, perché pensiamo che un episodio come quello avvenuto sabato sera, un ordigno esploso dentro la nuova scuola, non possa (e non deve!!!) passare sotto silenzio. 
Il silenzio delle persone genera l’indifferenza: l’indifferenza uccide! 
Noi non possiamo tacere sull’uso di metodi che generano violenza e paura. 
Sogniamo un luogo, e Sant’Eufemia può essere quel luogo, dove non abbiamo più paura e dove pensiamo che lavorare per il Bene Comune sia un valore irrinunciabile. Perseguire il Bene Comune vuol dire, soprattutto, tutelare i diritti dei più deboli, di quelli che stanno ai margini della società, di chi non ha voce. 
Sogniamo un luogo in cui possiamo vivere relazioni basate su collaborazione e concordia, perché pensiamo che la Pace sia una delle condizioni fondamentali per vivere felici e vivere una vita autentica. 
Per questo scendiamo in piazza e ci mettiamo la faccia, perché il nostro futuro sia possibile e non venga precluso da chi crede di opprimere e prevaricare sugli altri. 
Chiediamo a chi gestisce la cosa pubblica di testimoniare in modo più responsabile la tutela dei diritti dell’uomo e la promozione della bellezza della condizione umana. 

Un inno alla partecipazione contro il disimpegno, l’indifferenza e l’apatia, per una battaglia che è di tutti. Che ognuno di noi deve sentire propria. Perché, come ha sottolineato nel suo intervento la dirigente scolastica del “Fermi” Graziella Ramondino, “la scuola è da sempre stata il tempio della cultura e della civiltà: la profanazione di una sua istituzione, quale che sia la matrice, simboleggia comunque un attentato alla civiltà e al progresso degli uomini e va respinta con ogni forza ed energia per evitare che conquiste millenarie dell’occidente civilizzato regrediscano d’un colpo nella barbarie”.
In una comunità che deve essere solidale, il momento dello scontro e delle divisioni non può sussistere quando viene colpito il futuro delle nuove generazioni. L’auspicio è che siano organizzate altre iniziative, oltre a questa spontanea e “improvvisata” dalla sera alla mattina attraverso il tam-tam dei social sulla spinta emotiva dell’indignazione, alla quale non tutti coloro che avrebbero voluto hanno potuto partecipare. Un consiglio comunale aperto darebbe una dimensione ufficiale e un taglio istituzionale, com’è giusto che sia quando episodi così gravi colpiscono la cittadinanza.
Questo è il momento dell’unità, l’ora in cui la comunità diventa testuggine. L’ora in cui tutti devono dare un contributo di civiltà, la goccia che insieme ad altre gocce diventa mare. L’ora in cui l’I care di don Milani diventa azione.
Perché quel “me ne importa, mi sta a cuore” contiene la forza rivoluzionaria del cambiamento reale, quello delle coscienze che la scuola è chiamata a formare. Delle donne e degli uomini che verranno e che vogliamo migliori di noi.

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Una scuola da difendere, senza se e senza ma

Ciò che saremo è, per lo più, ciò che siamo stati. Ecco perché periodicamente la scuola si ritrova al centro del dibattito sul futuro della società. In genere ci finisce dopo qualche episodio spiacevole, esecrabile, vergognoso. Aggettivi appropriati per definire l’aggressione subita da Rosanna Gallucci, vicepreside del liceo classico “Telesio” di Cosenza, ad opera dei genitori di una quattordicenne fresca di bocciatura.
Si dirà che è un caso isolato, che può capitare. Che si tratta di una famiglia emarginata. Lo sosterranno anche altri genitori e altri studenti. Ogni volta che accettiamo una spiegazione-giustificazione del genere facciamo un danno incalcolabile ai nostri ragazzi, a noi stessi e alla collettività. Perché è evidente, al di là del caso specifico, che si è innescato un pericolosissimo corto circuito nel rapporto tra scuola e famiglia. Le due principali agenzie educative non riescono a parlarsi, ma soprattutto non riescono a riconoscere e a rispettare i rispettivi ruoli, che dovrebbero essere distinti e convergenti, non confusi e sovrapponibili. Ci sono i docenti e ci sono i genitori: l’uovo di Colombo è che ognuno faccia il proprio mestiere, senza invasioni di campo.
Nessuno si augura il ritorno degli insegnanti dallo schiaffo facile, i ceci sotto le ginocchia, le bacchettate, i pizzicotti e le orecchie tirate fino alle lacrime. Non è per questa via che la scuola riacquista autorevolezza, il grande assente nelle istituzioni scolastiche di oggi. Un’autorevolezza che non viene riconosciuta anche per una semplice, errata, deduzione. Molti dei genitori attuali hanno lo stesso titolo di studio, se non addirittura più alto, di quello dei docenti dei propri figli: “chi è quel docente, che ne sa meno di me, per valutare i miei figli?”, una frase che capita di sentire o leggere in sguardi stizziti.

Mentre un tempo i ragazzi venivano “affidati” a maestri e professori con smisurata fiducia, oggi vengono “parcheggiati” a scuola con supponente diffidenza. Tanto, nella maggior parte dei casi il pezzo di carta arriverà, in un modo o nell’altro, docenti o non docenti. Per cui, se qualcuno fa notare che va avanti solo chi lo merita, può ritrovarsi sbattuto a terra, preso a calci e pugni, piegato da un modello di società fondato sui vincenti, non sugli sfigati bocciati al primo anno di liceo. Occorre ripartire da una filosofia che contempli la possibilità dell’errore, che consideri utili i fallimenti personali e professionali, che indichi nella caduta il primo passo verso un nuovo e più maturo riscatto.

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Cari ragazzi, in bocca al lupo

Eccoli qua i giorni e le ore tanto attese. Il momento in cui diventa quasi insopportabile il peso della responsabilità per l’esito di un processo di formazione che va oltre la semplice didattica, anche se il sigillo sarà un voto. La cifra che dovrebbe racchiudere un lustro di esperienze, gavettoni e pallonate, compiti in classe e pomeriggi sui libri, sorrisi e pianti, ciò che si era a quattordici anni e ciò che si è diventati a diciotto. Una tappa di avvicinamento alla maturità vera e propria, per chi proseguirà negli studi e per chi dirà basta.
C’è un mondo che vi aspetta. Aspetta tutti voi, perché sarà vostro. Dovrà essere vostro. Di voi che sudate al solo pensiero di questi esami. Di voi che risolvete la questione con strafottenza, perché tanto sapete che in qualche modo riuscirete a sfangarla.

La conosco l’ansia di questo momento, perché è stata la mia. Perché negli anni più volte mi è capitato di sognarmi alle prese con il compito di matematica e non vi dico il sollievo, al risveglio, nel realizzare che si trattava solo di un incubo notturno. Perché anch’io la mattina dell’orale ebbi la sensazione di andare incontro a un plotone d’esecuzione che forse mi avrebbe risparmiato, se solo fossi riuscito ad essere convincente. Solo contro tutti, con in testa un mantra che da allora mi ripeto ogni volta che la posta in gioco appare troppo alta, ogni volta che il bivio atterrisce, ogni volta che le conseguenze di una decisione o di un evento atteso tolgono il sonno: “stai tranquillo. Domani a quest’ora sarà tutto finito da un po’, comunque andranno le cose”.
Il mio auspicio è che il patrimonio di speranza che rappresentate non vada disperso. Ho avuto modo di ascoltare alcuni di voi, anche negli anni scorsi. Non tutto è perso a Sant’Eufemia: c’è del bello anche grazie a questo nostro caro liceo, ai suoi docenti e agli studenti. Perciò non mi stancherò mai di ripetere che va custodito come una gemma preziosa.
Un consiglio solo mi sento di darvi. Partecipate. Partecipate alla vita del nostro piccolo paese, nei modi che ritenete più opportuni. Però fatelo. Nelle realtà associative già presenti sul territorio o in nuove aggregazioni che inventerete voi stessi. Siate protagonisti e date libero sfogo all’entusiasmo che avete in corpo. Ci sarà tempo per le delusioni, purtroppo. Ora è il tempo della semina, la vostra.
Tra un paio d’anni ricorderete questi giorni, prima con il sorriso sulle labbra, poi con il rimpianto per un passato di leggerezza che vi costerà fatica riuscire a mantenere nel tempo. Perché la vera sfida sarà quella della vita quotidiana, con i suoi mille piccoli problemi. Sarà capire non tanto che gli esami non finiscono mai, bensì accettare con serenità che non sempre si vince. Che perdere non è un dramma, ma una possibilità a volte necessaria. Che le sconfitte servono a preparare le vittorie e che entrambe non sono mai eterne. Che il viaggio è più affascinante della meta. Che dare tutto per realizzare qualcosa in cui si crede è una virtù che prescinde dal risultato.
Non abbiate mai timore di fare domande, scavate in profondità e siate sempre curiosi, capaci di stupirvi e di emozionarvi per ogni (apparente) piccola cosa.
Capaci di sognare.

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