Giornata del malato 2022

La Giornata mondiale del malato, della quale quest’anno ricorre il trentennale (fu istituita da Giovanni Paolo II nel 1992), è tra le iniziative più significative dell’Associazione di volontariato cristiano “Agape”.
Come ogni 11 febbraio, anche quest’anno i volontari si sono recati presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”. Non è stata la consueta visita, perché le precauzioni in tempo di pandemia non sono mai troppe. Insieme al parroco don Marco Larosa abbiamo comunque voluto fare sentire la nostra vicinanza agli ospiti e agli operatori della struttura, per cui ci siamo limitati ad un veloce saluto dalla soglia e alla consegna di un crocifisso da parte della presidentessa Iole Luppino, dopo una Decina del Rosario che abbiamo recitato all’esterno della struttura.
Tema della trentesima Giornata è la misericordia («Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso»): nel suo messaggio, Papa Francesco ricorda che «La misericordia è per eccellenza il nome di Dio, che esprime la sua natura non alla maniera di un sentimento occasionale, ma come forza presente in tutto ciò che Egli opera. È forza e tenerezza insieme».
La pandemia ha accresciuto la solitudine di tutti, provocando sofferenza soprattutto agli anziani ammalati, ai quali è mancato anche il conforto delle visite, di una chiacchierata, di un momento di distrazione. «Il malato – osserva il Pontefice – è sempre più importante della sua malattia, e per questo ogni approccio terapeutico non può prescindere dall’ascolto del paziente, della sua storia, delle sue ansie, delle sue paure. Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua patologia».
Anche a noi volontari mancano questi momenti e ci auguriamo che, presto, possiamo ritornare alla normalità delle visite e degli incontri.


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Intervista a Pont’i carta

Da dove nasce questo libro, e pensi sia davvero quello che possa chiudere il cerchio riguardo i tuoi scritti sulla storia di Sant’Eufemia?
Il libro nasce dall’esigenza mia personale di riassumere in un unico volume il risultato di oltre 15 anni di studio sulla storia di Sant’Eufemia. Ho pensato di approfondire temi e questioni che avevo già affrontato anche alla luce di documenti nuovi di cui sono venuto in possesso. L’aspetto che più mi piace sottolineare è che ho voluto dare al lettore, la possibilità di confrontarsi con contesti nuovi. Ad esempio con scritti che non sono stampati, come i discorsi del sindaco Pietro Pentimalli o di Michele Fimmanò. Opuscoli che erano stati pubblicati all’epoca e che si trovano soltanto nelle biblioteche. Io ho pensato di recuperare questi documenti e di metterli a disposizione della collettività.
Riguardo se sarà l’ultimo, allo stato delle cose penso di sì ma non per mia volontà, ma perché effettivamente tutta la documentazione reperibile l’ho già ampiamente studiata e al momento non ci sono altri documenti. Se in un futuro prossimo, attraverso ad esempio l’istituzione dell’Archivio storico comunale, ci sarà la possibilità di consultare anche la documentazione relativa al ‘900, gli atti amministrativi, può darsi ci sarà un seguito. A me piacerebbe.

Mi ha colpito molto il racconto dell’incendio del 18 settembre 1902 del quartiere”Burgu” nel rione Petto. Ho sempre avuto racconti dei miei nonni e dei miei zii, i quali abitavano quel quartiere, e seppur all’epoca non presenti, ebbero modo di avere racconti diretti di chi visse quell’evento, oltre che di toccarne con mano alcuni disastri non risolti. Dai loro racconti ricordo quella gara di solidarietà che tu citi nel libro. Ti va di ripercorrere la vicenda? Perché gli interventi e le stime dei danni furono così tardivi? E soprattutto, credi la solidarietà sia ancora un tratto comune di noi eufemiesi, oppure il tempo ha cristallizzato anche determinati valori?
Bisogna dire che episodi del genere sono molto frequenti nella storia di Sant’Eufemia. Questo è quello più eclatante perché ha fatto maggiori danni, basti pensare che nell’incendio andarono distrutti circa 150 abitazioni, lasciando per strada circa 500 persone. Disgrazia nata tra l’altro da un episodio bizzarro, che a ripensarci oggi verrebbe quasi da sorridere. Un bambino segue un gatto con una lampada, finiscono nel fienile e da lì scoppia poi l’incendio.
C’è da dire che le abitazioni erano baracche in legno, e credo che anche sul discorso dei ritardi vadano un po’ contestualizzati gli eventi. Se noi pensiamo che per certi aspetti Sant’Eufemia sia isolata oggi, proviamo a immaginarla 120 anni fa. Al tempo non c’era ancora la littorina, non c’erano mezzi di trasporto e di comunicazione adeguati, non c’era il Corpo dei Vigili Urbani. Per cui gli interventi sono stati quelli delle famiglie che si sono adoperati per cercare di spegnere l’incendio senza purtroppo riuscirci. Quindi c’è stata certamente questa grande gara di solidarietà, ma è quello che poi nei nostri paesi succede anche oggi. Riusciamo anche oggi infatti a stringerci quando accade una disgrazia ad una o più famiglie. Credo sia un tratto caratteristico delle popolazioni del Sud e anche di Sant’Eufemia. Siamo generosi.

Gli eventi che hanno segnato inevitabilmente il nostro paese sono i due terremoti del 1783 e del 1908, quest’ultimo cambiando profondamente anche la struttura urbana di Sant’Eufemia. Possiamo dire che Sant’Eufemia come la conosciamo oggi nasce da quel tragico evento. Oggi il paese attraversa un periodo difficile, dallo spopolamento, al commissariamento, fino ad un’apatia (purtroppo anche tra i pochi giovani rimasti) che rasenta la rassegnazione. Riprendo una frase di Pietro Pentimalli, all’indomani della posa della prima pietra del Palazzo Comunale. “Questa prima pietra ha per noi un contenuto ampio… è la consacrazione tangibile di una fede accomunata, di un nuovo e concorde proposito di tendere a più alta e proficua meta”. Allora il Paese, seppur lacerato dal disastro e dai campanilismi, seppe ripartire. Pensi possa accadere anche oggi?
Dividiamo in due la risposta. Sicuramente la storia di Sant’Eufemia è profondamente segnata dagli eventi naturali. Sant’Eufemia era il Paesevecchio fino al 1783 e poi dopo quel primo terremoto cominciò a svilupparsi verso il Petto. Il terremoto del 1908 invece, giunge su una situazione che era già ampiamente compromessa dal punto di vista della tenuta delle abitazioni, perché c’erano già stati i terremoti del 1894, del 1905 e del 1907 i quali avevano danneggiato gran parte delle abitazioni del paese. Il terremoto del 1908 colpisce in una situazione già fragile, segnando uno spartiacque decisivo per la nostra storia, perché cambiò tutto il paese sia dal punto di vista urbanistico, sia anche sociale (vi fu una polemica tra chi voleva ricostruire nel Paesevecchio e chi nel rione Piazzagrande). Viene fuori un paese nuovo, sia fisicamente che culturalmente. Mentre prima era orientato più verso l’entroterra, con la ricostruzione Sant’Eufemia si apre verso la Piana, anche perché negli anni Venti verrà costruita la linea ferroviaria, con la littorina, che consentirà di raggiungere agevolmente Palmi e Gioia Tauro.
Riguardo oggi, si è vero c’è una situazione difficile, seppur non paragonabile a quella. Si nota una certa stanchezza, un certo disimpegno. La pandemia poi è stata la mazzata finale rispetto a un declino che era già in corso da anni, ma che secondo me non è imputabile esclusivamente agli eufemiesi. Ci sono delle condizioni strutturali per cui ad esempio tanti giovani, che sono la parte vitale di un paese, finiscono per emigrare. Sono forze, competenze, passioni che vengono sottratte a Sant’Eufemia. Oltre quest’aspetto il paese si impoverisce anche quando i pochi giovani che restano sono comunque sempre più proiettati verso l’esterno, rispetto ad un impegno per il proprio paese. Per cui per la ripresa penso che serva uno sforzo collettivo, non esiste una persona che possa avere la bacchetta magica. Più che altro di quel tempo servirebbe lo spirito. Pietro Pentimalli seppe riunire attorno a sé le energie migliori del paese per farlo rinascere sulle basi di un progetto unitario e inclusivo. Servirebbe l’attitudine di pensare che alla fine quelli che sono, siamo rimasti in paese dobbiamo cercare di restare uniti, di ricercare soluzioni più possibili unitarie senza rifugiarsi nell’ambizione personale. E’ sempre legittima per carità, ma non bisogna fare discorsi sui nomi, tutti devono pensare di poter fare qualcosa per Sant’Eufemia. Soprattutto quelli che hanno deciso di restare e di vivere qua.

Quanto le due guerre mondiali hanno cambiato il popolo eufemiese? Ho l’impressione che la prima molto più della seconda, viste le testimonianze raccolte. È un dato semplicemente storico o è effettivamente così? Sono pochi i documenti storici riguardo la seconda guerra mondiale?
Non sono pochi i documenti storici riguardo la II guerra mondiale, semplicemente non li ho studiati. Il libro sulla I guerra mondiale è stato un lavoro durato 4 anni, perché si trattava di consultare circa 280 volumi. Sicuramente il materiale storico esiste anche per la II, ma ci vuole tempo. Serve qualcuno che vada a fare un lavoro molto complesso, e soprattutto lungo. Penso comunque che siano due situazioni differenti. La I guerra mondiale è stata vissuta con maggiore distacco dagli eufemiesi, poiché il fronte non era qua, a differenza della II dove comunque la comunità ha vissuto i bombardamenti, che seppur non hanno colpito Sant’Eufemia hanno comunque colpito i paesi vicini. Inoltre gli eufemiesi hanno vissuto il coprifuoco ad esempio, rifugiandosi nella galleria del ponte della stazione. Quindi diciamo che la II guerra mondiale è stata vissuta dagli eufemiesi, mentre la I guerra mondiale è stata più una guerra lontana, vissuta soprattutto tra le trincee del nord Italia. Tra l’altro anche i mezzi di comunicazione tra una guerra e l’altra erano differenti, basti pensare all’uso della radio nel secondo conflitto mondiale. La II guerra mondiale ha avuto un’incidenza maggiore sulla vita delle famiglie, poiché, anche dai racconti dei nostri nonni, l’eredità di quel conflitto è stata per anni la fame, la povertà e la miseria. In tutto ciò, va detto che la prima guerra mondiale ha fatto più vittime tra gli eufemiesi rispetto alla seconda.

Quale tra tutte le personalità che hanno fatto la storia di Sant’Eufemia, che hai raccontato negli anni e in questo libro, ti ha colpito maggiormente? E quale, secondo te, servirebbe oggi al paese? Io ti dico Giuseppe Chirico, detto “Don Pepé”. E Carlo Muscari, a cui sono legato dallo stesso giorno di nascita, oltre che dal nome della via in cui vi è casa mia.

La personalità più importante della storia di Sant’Eufemia per me è stata Michele Fimmanò. Anche per la durata nel tempo, considerando che lui è stato sindaco sia nell’ultima fase del periodo borbonico, sia dopo l’Unità d’Italia. Poi è stato anche consigliere provinciale per quasi 50 anni. Ha vissuto fino al 1913 ed era il punto di riferimento delle istituzioni provinciali ma anche nazionali. E’ lui che è stato decisivo nei momenti più importanti della storia del paese. Era lui che portava le istanze anche a livello parlamentare. Anche per le sue capacità amministrative, secondo me è lui la personalità più eminente. Sicuramente tra quelle che ho studiato io. Tuttavia, credo che ad esempio Pietro Pentimalli, sia un’altra figura che andrebbe studiata, se uno riuscisse a recuperare del materiale storico. Nella storia di Sant’Eufemia vedo queste due figure su tutti. Poi ci sono anche personalità, diciamo più romantiche, come Carlo Muscari, eroe della Repubblica napoletana. Ma la mia impressione è che l’impatto di Muscari sulla storia reale di Sant’Eufemia sia minore, perché Muscari appartiene ad una famiglia di notabili che vive a Napoli, non qua. A Sant’Eufemia viveva il fratello Mercurio, mentre un altro fratello, Gregorio, che fu un grande giurista, visse anch’egli a Napoli. Muscari possiamo dire di averlo scoperto noi dopo, anche i cittadini eufemiesi dell’epoca non avevano la percezione di chi fosse, né che fu un eroe dei moti del 1799.
Riguardo la personalità che servirebbe oggi al paese ti direi la stessa cosa di prima. Non serve una figura specifica, ma uno spirito unitario che consenta di mettere da parte campanilismi e personalismi. Lo spirito post terremoto è esemplificativo. Nei momenti difficili bisogna unirsi, non dividersi.

La storia degli ultimi 50-60 anni del nostro paese è attraversata da personalità diverse e dall’indiscutibile spessore umano e anche professionale. Penso ad esempio alla rivista “Incontri” e alle persone che vi erano attorno a quel progetto. Professionisti, professori, persone che in ruoli diversi hanno fatto grande Sant’Eufemia dal dopoguerra e almeno sino agli anni ’90. Perché oggi è così difficile replicare o quanto meno prendere ad esempio quei modelli, circondandosi di persone di quella caratura, che pure nel paese non mancano?
Io non penso che una volta fosse sempre meglio rispetto ad oggi. Secondo me abbiamo la tendenza a guardare gli avvenimenti del passato con gli occhi di oggi. Questo perché si sono già sviluppati. Non penso che Sant’Eufemia negli ultimi anni sia stata una realtà completamente ferma. Ad esempio un tratto caratteristico della storia recente di Sant’Eufemia è quella della vivacità delle associazioni. E, tralasciando gli ultimi anni, questo tratto si è sempre mantenuto. Penso alla Pro Loco o al Terzo Millennio. Noi ora li guardiamo con normalità perché li abbiamo vissuti, ma magari tra 50 anni chi studierà questo periodo potrà vedere come nei primi anni 2000 ci sono stati ragazzi, giovani e meno giovani, che si davano da fare per il paese. Penso a voi di Pont’i Carta ad esempio. Ma penso che a tutti quelli che in questi anni si sono impegnati per il paese vada riconosciuto questo merito. E’ ovvio che adesso noi non cogliamo pienamente l’importanza. Ma così come 30 o 40 anni fa non si coglieva ad esempio l’importanza dell’Associazione Sant’Ambrogio, anzi per certi aspetti vi era anche un certo campanilismo per cui non tutti apprezzavano quello che faceva l’Associazione Sant’Ambrogio. E oggi magari la rimpiangiamo. La questione alla fine è sempre una, e cioè che bisogna impegnarsi, e poi alla fine spetterà ai posteri giudicare. Non ci si può certo autoincensare. E’ la storia, la vita che si svolge così. Uno deve vivere il tempo in cui si trova, nel posto in cui si trova, perché se aspetta che arrivi qualcosa dall’esterno non si realizzerà mai niente. Capisco che i tempi siano tristi, ma se già uno fa qualcosa getta un seme, offre una speranza, indica una via. Tutto è importante nella vita di una comunità.

La mia ultima domanda parte dalla tua prima pagina. Perché hai voluto dedicare questo lavoro a Vincenzino Fedele? E infine, cosa ti auguri per la storia futura di Sant’Eufemia, quella che deve essere ancora scritta?
Ho voluto dedicare questo lavoro a Vincenzino Fedele perché è una personalità che si è tanto spesa per il paese. E’ stato un esempio per me fin da ragazzo. Un uomo perbene, disinteressato, che ha fatto tanto per il paese con un’associazione culturale, quindi con qualcosa di gratuito, senza secondi fini. Poi l’ho dedicato a lui perché la passione per la storia di Sant’Eufemia l’ho appresa durante un convegno organizzato proprio dall’Associazione Sant’Ambrogio, nel 1990. Ero ancora un liceale, era un convegno sulla storia di Sant’Eufemia, e penso che la scintilla di questa mia passione sia nata proprio in quell’occasione. Oltre alla passione per la storia in generale, a cui devo dire grazie al mio professore di Liceo, Rosario Monterosso. I buoni professori lasciano un segno.
Per il futuro innanzitutto mi auguro che ci sia qualcuno che abbia voglia e tempo di scriverla. A me piacerebbe che qualche giovane si appassionasse agli studi e alla ricerca storica. Io mi sono ritrovato a studiare la storia di Sant’Eufemia, e più l’ho studiata più volevo studiarla ancora. Ho questa curiosità nel voler conoscere la storia del mio paese perché le mie radici sono qua. Penso che debbano esserlo anche per tanti giovani che magari ancora non percepiscono l’importanza di avere una storia alle spalle. Mi auguro che per il futuro ci siano le condizioni per una crescita culturale e sociale del paese, pur nelle difficoltà che non possiamo nasconderci.

*Intervista realizzata da Francesco Martino. Link originale: Alla ricerca delle nostre radici: incontro con lo storico Domenico Forgione

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Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea – Premessa

Da quasi un quindicennio mi occupo della ricostruzione della memoria storica di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea e, forse, è giunto il momento di porre un punto. Il senso di questo libro sta proprio nella necessità di dare organicità e sintesi in un unico volume a tre lustri di ricerche e di pubblicazioni. Nelle pagine che seguono il lettore troverà la ricostruzione di eventi storici e medaglioni biografici oggetto di studio già nei precedenti lavori, qui oggetto di approfondimento e di revisione, ma anche pagine inedite.
Ci sarebbe molto altro da scrivere sulla storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte, ma per poterlo fare in maniera compiuta sarebbe necessario l’impegno culturale delle istituzioni, in primis per facilitare l’attività di reperimento delle fonti storiche. È questo lo scoglio più arduo per chi si approccia agli studi di storia locale e si trova a battagliare con fonti sparse e incomplete, sufficienti per alcuni periodi storici e assolutamente carenti per altri.
Per tale ragione ho ritenuto opportuno ricorrere ad un’impostazione “a quadri”, strutturando il volume in tre specifiche sezioni e i paragrafi in unità autonome. Nella prima parte, gli eventi della storia locale si intrecciano con la “storia grande”: i terremoti, il Risorgimento, la Prima guerra mondiale. La seconda è dedicata ad aspetti significativi della società eufemiese nel XX secolo. Nella terza, prendono corpo le biografie delle personalità più eminenti nell’arco temporale in esame.
Il risultato ottenuto non ha la pretesa di essere esaustivo. Altri avvenimenti avrebbero meritato di essere ricostruiti, così come altri protagonisti cittadini sarebbero stati meritevoli di un medaglione biografico. Ma i libri di storia si scrivono sulla base dei documenti pubblici e privati reperibili, che per Sant’Eufemia sono quelli custoditi presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria, pochissime carte private e pubblicazioni pressocché introvabili.
L’auspicio è che in un futuro non troppo lontano si riesca ad istituire l’Archivio storico comunale, che salverebbe dal degrado le carte stipate negli scantinati del palazzo municipale e consentirebbe agli studiosi di avere accesso ad una documentazione completa, almeno per tutto il XX secolo.
Sento il dovere di ringraziare la direttrice Maria Fortunata Minasi e il personale dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria; Maria Pillari e Vincenzo Papalia dell’Ufficio anagrafe e Stato civile del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Margie Silvani, il cui contributo è stato fondamentale per il completamento della biografia del nonno Giuseppe Silvani. Pasquale Federico, che mi ha “regalato” la storia della “pulicia rizza”. Nino Giunta per la testimonianza sull’esperienza da direttore della rivista “Incontri”. Gaetano Chirico, che ha accolto con molto favore l’invito a rispondere alle domande sul padre, “don Pepè”. Erminia Forgione per il ricordo della nonna, la levatrice Giuseppina Pinneri. Enzo Fedele per avere messo a mia disposizione il patrimonio documentario dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”. Elisa Lupoi e Rosa Fedele per il supporto ormai datato ma preziosissimo alle mie attività di ricerca. Domenico Antonio Tripodi per le telefonate e i pacchi postali gonfi di materiale biobibliografico sulla storia della “dinastia d’arte” dei Tripodi.
Un particolare ringraziamento a Carmelita Tripodi per il racconto dell’incontro con Rostislav Pietropaolo, per le lettere di Mimì Occhilaudi, per il ricordo personale della sua collaborazione con la rivista “Incontri”.
Infine, un grazie sentito a Gresy Luppino, Carmen Monterosso e Mariella Flores, che hanno materialmente posto a Nino Condina e a Carmela Cutrì le domande sul secolo di vita attraversato.

[Tratto da: Domenico Forgione, Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore, Reggio Calabria 2021, pp. 9-10]

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Novità in libreria: Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea

È in vendita il mio ultimo lavoro: Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea. Storia, società, biografie.
A Sant’Eufemia lo trovate presso:

  • Cartolibreria Giusy Violi
  • Circolo Pegaso (Bar Mario)
  • Edicola Riv. Tabacchi n. 4 di Violi Franca
  • Edicola Tabaccheria ricevitoria Carbone Vincenzo
    Nei prossimi giorni il libro sarà disponibile presso la libreria Ave-Ubik di Reggio Calabria, oltre che acquistabile sul sito di Amazon.
    Chi acquista il libro riceverà un grazioso segnalibro, omaggio dei ragazzi del blog eufemiese Pont’i Carta, che ringrazio per l’affettuosa amicizia.
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Scusate il ritardo

Finalmente ci siamo: nei prossimi giorni sarà in vendita il mio nuovo libro. Avevo iniziato a lavorarci nel 2019, ma non avevo fatto i conti con l’imponderabile, per cui la sua pubblicazione è slittata di un anno. Ci tenevo a riprendere un discorso interrotto, a ricominciare dal mio personale “dove eravamo rimasti?”. Questi ultimi due anni non sono acqua passata, ma sono utili per ricordarmi che la vita, nel bene e nel male, riserva sorprese con le quali tutti siamo chiamati a fare i conti. Ora mi sento sollevato.
Non voglio aggiungere altro, se non ringraziare Katia Colica e Antonio Aprile (Il Rifugio Editore), per avermi supportato con affetto e professionalità, e Gresy Luppino, che ha realizzato graficamente una splendida copertina.
Un ultimo pensiero desidero rivolgerlo a due personaggi straordinari che purtroppo non ci sono più, ma che mi hanno donato la testimonianza di un secolo di vita vissuta a Sant’Eufemia: Carmela Cutrì e Nino Condina.

Dalla quarta di copertina:
Sant’Eufemia nell’età contemporanea presenta il risultato delle ricerche condotte dall’autore negli ultimi quindici anni. Le tre parti che compongono il volume affrontano per “quadri” gli eventi significativi della storia eufemiese dalla fine del 1700 ai giorni nostri. La storia “piccola” si intreccia con quella “grande”, nel contesto generale si inseriscono gli episodi particolari e le biografie dei protagonisti. Una cavalcata nei secoli che dà voce all’alto e al basso, al nobile e al popolano, facendo ricorso a fonti scritte, orali e bibliografiche: documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria, preziose testimonianze raccolte con le interviste, sconosciute pubblicazioni sepolte nelle biblioteche pubbliche o in possesso di privati. L’affresco di un’epoca affida così alle mani del lettore il filo rosso che, unendo il passato al presente, riscopre vicende personali e collettive paradigmatiche dello sviluppo storico e dell’evoluzione sociale di un paese dell’Aspromonte.
[Domenico Forgione: Sant’Eufemia nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore, 2021, pp. 336]

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Brunali ’u vurparu e la cancel culture

Qualcuno si ricorda ancora del vecchio “Brunali”. Ma chissà poi qual era il vero nome dell’ultimo cacciatore di frodo vissuto a Sant’Eufemia nella metà del secolo scorso. Di lui si è tramandato il soprannome, Brunali appunto: forse il nome Bruno storpiato, ma l’origine della ’ngiuria potrebbe anche essere diversa. Gli anziani raccontano di una figura corpulenta, almeno nei suoi ultimi anni. Colpa del peso aumentato dopo un incidente sul lavoro, per così dire. Si era infatti introdotto dentro una tana, ma il piede gli era rimasto incastrato in una radice e, forzando il movimento nel tentativo di liberarsi, si era procurato un infortunio che sottovalutò e non curò adeguatamente, da un ortopedico o in ospedale nella vicina Palmi, che avrebbe potuto raggiungere con la littorina. Guarì, ma si portò per il resto della vita una vistosa zoppia che comunque gli permise, a fatica, di continuare l’attività di bracconiere.
Le sue prede erano tassi, ricci, lepri, ma soprattutto volpi, il cui vello aveva mercato nella produzione di cappotti, colli e altro. L’animale scuoiato restava all’acquirente, il quale ne ricavava un lauto pranzo, mentre la pelliccia veniva portata ai conciatori di Palmi, che la essiccavano (per bloccare il processo di putrefazione) e la lavoravano in modo da mantenerla resistente, elastica e morbida: pronta per i mastri sarti che procedevano alla realizzazione dei capi di abbigliamento.
L’area di caccia di Brunali si estendeva da Candilisi a Crasta e al ponte della ferrovia. Non era insolito, a tarda sera, intravedere nel buio quest’uomo claudicante il quale, insieme alla gamba, trascinava due sacchi contenenti le tagliole e le lische di pesce stocco o le interiora che utilizzava come esca, da disseminare lungo il tragitto e da recuperare la mattina successiva. Brunali preferiva la tagliola d’acciaio al sistema a scatto con il cappio (in genere il laccio dei freni di una bicicletta) legato al ramo di un albero, che procurava la morte della selvaggina per impiccagione. Per cui spesso gli toccava finire a colpi di legno l’animale intrappolato.
Perché racconto questa storia? Perché non si può guardare al passato con gli occhi del presente. Credo che uno dei più grandi mali della società attuale risieda proprio nell’incapacità di contestualizzare fatti e personaggi storici. Ciò che oggi viene considerato un crimine barbaro, ancora sessanta o settanta anni fa veniva pacificamente accettato. Brunali, che “si mbuscava a campata” cacciando di frodo, non suscitava alcuna riprovazione sociale.
Tra piccola e grande storia non c’è differenza. L’estrapolazione degli avvenimenti dal contesto storico di riferimento è alla base della cosiddetta cancel culture, la furia iconoclasta che, trasferendo nel passato le considerazioni etiche del presente, ne impedisce la comprensione e porta i talebani del politicamente corretto a reclamare la cancellazione dei nomi delle strade, a richiedere l’abbattimento dei monumenti, la messa all’indice di opere letterarie e cinematografiche o la loro “correzione”. In sintesi, la cancel culture determina la condanna del processo evolutivo che ha determinato ciò che oggi siamo. È la morte dello storicismo, inteso come ricerca del senso storico degli avvenimenti mediante il loro inquadramento nel periodo e nel contesto sociale in cui si sono sviluppati.
Un popolo di contemporanei, senza futuro proprio perché senza memoria, non è affatto una buona notizia.

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Francesco e Pasquale, morti per la patria a 18 anni

La propaganda e la letteratura patriottica definirono “ragazzi del ’99” i soldati italiani chiamati alle armi non ancora diciottenni, a partire dai primi mesi del 1917, e inviati al fronte dopo un addestramento approssimativo nei giorni successivi alla disfatta di Caporetto. Furono i più giovani combattenti della Grande Guerra ed il loro contributo fu decisivo per la tenuta della linea difensiva del Piave nella battaglia del Solstizio e per la successiva controffensiva che portò al trionfo di Vittorio Veneto.
Non furono tuttavia i più giovani eroi di guerra. In previsione di un’eventuale offensiva nella primavera del 1919, nel corso del 1918 fu infatti chiamata la classe 1900, che non partecipò ad azioni di guerra, essendo ancora nella fase di addestramento, ma “ufficialmente” fu impiegata soltanto nei servizi territoriali e nelle retrovie. Ma poiché in guerra le vittime non si raccolgono soltanto sui campi di battaglia, anche la classe 1900 diede il suo contributo di eroi.
D’altronde, per circoscrivere le statistiche a Sant’Eufemia d’Aspromonte, degli 88 caduti (il monumento ai caduti riporta erroneamente 92 nominativi) su circa 600 chiamati alle armi, 39 morirono in combattimento, 15 in seguito alle ferite riportate e 5 per gli effetti dei gas asfissianti; mentre 6 perirono nei campi di prigionia, 21 per malattia e 2 per infortunio.
Si calcola che nell’esercito italiano furono circa 100.000 i decessi per malattia: patologie dovute alla cattiva alimentazione, che avveniva in ambienti sporchi e con cibo conservato male, o causate dalle aberranti condizioni igieniche delle trincee, che facilitavano la diffusione di malattie infettive. Si moriva di colera, tubercolosi, tifo, malaria, meningite, “spagnola”, dissenteria. Si moriva per il freddo, causa principale delle malattie respiratorie e del congelamento degli arti.
Anche Sant’Eufemia pianse due giovanissime vite strappate agli affetti familiari. Il contadino Francesco Luppino (di Domenico e Condina Maria Eufemia), arruolato nel 6° reggimento fanteria, morì il 12 ottobre 1918 presso l’ospedale militare di riserva “Vittorio Emanuele” di Palermo, a causa di una non meglio specificata malattia.
Il pastore Pasquale Saccà (di Giuseppe e Morabito Nunziata), arruolato nel 4° reggimento alpino, spirò invece il 31 ottobre 1918 presso l’ospedaletto militare di Aosta, stroncato da una polmonite da influenza.
I loro nomi sono incisi a futura memoria nel monumento ai caduti al quale un gruppo di volontari, con grande senso civico, ha deciso di dare dignità e decoro in vista del 4 novembre, dandosi appuntamento il giorno prima per ripulire l’area.

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L’uomo non è il suo reato

Ripensavo a Vincenzo Pinneri proprio ieri, nel giorno del suo compleanno. Era infatti nato il 23 ottobre del 1924 ed è morto nel 2012, quasi novantenne. Un’età che forse nemmeno lui si sarebbe aspettato di raggiungere. Anzi, sono quasi certo che gli è dispiaciuto esserci arrivato.
Gli sono stato amico, come tanti in paese. Nonostante il suo caratteraccio, Pinneri era capace di gesti affettuosi, addirittura commoventi. Perché rispolvero il ricordo di un uomo che in gioventù commise crimini imperdonabili? La sua storia è nota, io stesso ne scrissi anni fa. Non mi interessava allora e non mi interessa adesso il mito che in qualche modo ne ha accompagnato la vita, trascorsa per 36 anni in prigione. Interessante può essere invece ribadire che l’uomo non è il suo reato.
La carriera criminale di Vincenzo Pinneri inizia nel 1942 con l’assassinio del fratello. Caino che uccide Abele. Sangue del proprio sangue. Si può commettere un delitto più grave? No, non si può. Nemmeno se il fratello maggiore era violento nei confronti del minore, sin da quando il ragazzino andava dietro ai muli e agli asini per raccogliere in un secchio gli escrementi da portare agli gnuri del paese, che li utilizzavano come concime per l’orto. Un contesto di degrado e di assoluta povertà, al quale fece da detonatore la fame portata in dote dalla seconda guerra mondiale.
La banda Pinneri, che nacque nello sbandamento economico, sociale e politico-istituzionale vissuto dopo l’8 settembre 1943, è finita sui libri di storia: della faida e delle altre poco sue edificanti gesta si sa tutto. Omicidi, assalto alla caserma dei carabinieri di Sant’Eufemia, attentato contro il questore di Reggio Calabria. Io stesso ho raccolto il suo punto di vista sulle vicende di quel lontano 1944, in una lunghissima intervista che non ho mai pubblicato e che doveva essere il canovaccio di un libro mai scritto.
Pinneri riacquistò la libertà nel 1978, dopo avere girato tutti gli istituti penitenziari di massima sicurezza: da Pianosa all’Asinara, da Porto Azzurro al carcere di Favignana, con le celle scavate nella roccia sotto il livello del mare: prive di finestre e talmente umide da infracidirgli i polmoni e costringerlo, nei suoi ultimi anni, a portarsi appresso la macchina per l’ossigenoterapia. Libero dopo avere conosciuto il morso delle cinghie dei letti di contenzione, i cui segni gli rimasero per sempre impressi sulla pelle.
In ricordo della lunghissima detenzione divenne per tutti “Ceo Galera”, ma del giovane sbandato e violento sopravviveva soltanto un residuo di irascibilità caratteriale. L’ho visto commuoversi per i giovani che non riuscivano a trovare lavoro ed erano costretti ad emigrare; l’ho visto piangere per la morte di una giovane ragazza, alla quale sinceramente avrebbe donato la propria vita, considerata ormai inutile. Ho ammirato la sua imbarazzante generosità. Mi sono emozionato per l’affetto che nutriva nei confronti dei bambini.
Non credo sia rilevante sapere se abbia cercato di riscattarsi rispetto a ciò che era stato nel primo mezzo secolo di vita, se abbia così consumato la sua personale espiazione.
La storia di Pinneri è invece paradigmatica della natura umana. Racconta che ognuno di noi è un mistero affascinante e terribile, capace di grandi nefandezze così come di sorprendenti atti d’amore. Spiega che non siamo una monade inscindibile e immutabile, bensì un caleidoscopio di sentimenti che, nell’arco di una vita, prevalgono o soccombono. Conferma infine che è sbagliato impiccare l’essere umano ad immagini e fatti cristallizzati.
Eraclito ci ha insegnato che se l’acqua del fiume non è mai la stessa, il fiume non è mai lo stesso. E così l’uomo.

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Sant’Eufemia a Londra

«Perché non porti una statuetta di Sant’Eufemia nella parrocchia che frequenti a Londra? Sarà un modo per sentirsi a casa e poi sai che bello, per un eufemiese che dovesse capitare a Londra, sapere che anche là può andare a trovare la sua santa patrona!». È nata così l’idea che, tramite mio fratello Mario, il parroco della chiesa di Ognissanti a New Cross Road ha accolto con molto entusiasmo.
Father Grant, le cui omelie sono seguite con attenzione dai fedeli che ne apprezzano l’arte oratoria, è un sacerdote energico, affabile e dotato di un alto senso dell’umorismo, che nei rapporti interpersonali non guasta mai. Di origine giamaicana, ha inoltre una sensibilità particolare per le problematiche delle minoranze che compongono la multietnica comunità di New Cross.
La chiesa di Ognissanti, che dista circa trenta minuti da Trafalgar Square, è infatti un crocevia multietnico che rispecchia la vivacità e la varietà culturale del quartiere nel quale è stata edificata nel triennio 1869-1871, tra Southwark e Lewisham (Sud-Est di Londra), su progetto degli architetti Arthur Billing e Arthur Shean Newman, molto attivi nella costruzione e nella restaurazione di chiese a Londra e nel sud dell’Inghilterra. In stile neogotico con ampio rosone, tra i banchi delle tre navate i parrocchiani inglesi siedono accanto ai fedeli di origini africane e caraibiche, in linea con la mission che campeggia sulla pagina ufficiale All Saints Church New Cross: «Siamo una parrocchia anglicana di rito cattolico nel cuore della vibrante comunità di New Cross. Non vediamo l’ora di darti il benvenuto chiunque tu sia, comunque tu possa identificarti. Tutti sono benvenuti!».
La reazione di grande accoglienza è tutta nelle parole di una parrocchiana: «È bellissima, ha l’aspetto di una che ascolta. Le porterò dei fiori: tutti meritiamo di essere ascoltati».
Sant’Eufemia sarà presentata “ufficialmente” alla comunità religiosa di New Cross nella celebrazione eucaristica di domani mattina. Verrà collocata al centro di una delle finestre della chiesa, con un candelabro e un vaso di fiori, ai quali in un secondo momento sarà affiancata un’iscrizione illustrativa.

*Indirizzo: All Saints New Cross, 105, New Cross Road, New Cross London SE14 5DJ

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Al mare con l’Agape

Illustrazione realizzata da: Officina Grafica Gracy

Un modo per riprendere un discorso interrotto. La necessità di stare nuovamente insieme, per tentare di superare un anno e mezzo difficile, pesante. Certamente più pesante per chi non ha molte occasioni di svago e spende gran parte del tempo tra le mura di casa.
Dopo lo stop forzato dell’estate scorsa, è stato emozionante lasciarsi contagiare dall’allegria di sette tra i ragazzi che da oltre 20 anni l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” di Sant’Eufemia d’Aspromonte accompagna al mare.
«Mi siete mancati». Be’, ci sei mancata anche tu. Ci siete mancati voi, con le vostre canzoni, i vostri abbracci, il vostro affetto rigenerante. La settimana trascorsa sotto gli ombrelloni del Lido Nausicaa Beach di Favazzina ha impegnato undici volontari dell’associazione, quattro dei quali non vivono più a Sant’Eufemia. C’è della magia nel filo della solidarietà che annoda queste vite. Che spinge chi è emigrato a far coincidere la data delle ferie con la colonia dell’Agape, per poter dare una mano.
L’orologio del tempo torna indietro, a quando tutto è iniziato. Lo spirito rimane quello, animato dal desiderio di fare qualcosa di utile per i soggetti più fragili della nostra comunità.
Niente di straordinario. Ma oggi, evidenziava Lucio Dalla, l’impresa eccezionale è essere normale. Ciò che può sembrare banale, non lo è affatto. Acqua, salsedine e sole sulla pelle. Un gelato. Una canzone intonata o stonata (chissenefrega) insieme. Ballare con la sabbia che punge i piedi.
La colonia è una bolla di felicità che conosciamo bene e che, sì, l’anno scorso è mancata a tutti.
Bisognava ripartire. Per chi ha avuto il covid e ci ha fatto spaventare, per chi si è ritrovata senza mamma, per l’Agape che tra qualche mese festeggerà i suoi trent’anni di attività, per noi stessi. Eccoci.
Nelle estati passate la signora Angiolina, la nonnina di tutti, attendeva il passaggio del pulmino per rivolgere il suo consueto augurio ai volontari: «Sempre avanti!». Ci piace pensare che l’abbia fatto anche quest’anno, da lassù.

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