Motivi personali

È l’espressione più in voga, una specie di mantra da ripetere per convincere e convincersi che tutto va bene, la pillola da assumere al bisogno, quando la temperatura sale un po’ troppo. Serve per nascondere la polvere sotto il tappeto, soltanto che il tappeto ora sta toccando il soffitto.
Si avverte qualche scricchiolio inquietante all’interno della maggioranza che amministra il nostro paese. Un paio di mesi fa, le dimissioni da presidente del consiglio comunale sventolate da Tonino Alati, alle spalle un corposo curriculum amministrativo sempre al fianco del sindaco, Enzo Saccà. “Motivi personali”, la versione ufficiale impressa in calce alla lettera di congedo protocollata al comune. Alzi la mano chi se l’è bevuta.
Qualche giorno fa, il passo indietro di Pippo Ascrizzi, il vicesindaco annunciato già nel corso della passata campagna elettorale, la cui nomina era stata presentata come architrave di un’operazione politica complessa e per certi versi ardita, quindi pesante quanto un carico da undici. Per due motivi: perché ha fatto sedere allo stesso tavolo e mettere d’accordo senza che nessuno si graffiasse due avversari fino ad allora irriducibili, con alle spalle quasi trent’anni di accesa conflittualità; perché si trattava di una nomina esterna, in quanto tale ancor più significativa. Anche in questo caso, “motivi personali”.
Per carità, potrebbe anche essere. Nel senso che nel nostro paese non si fa vera politica dagli anni Novanta, per cui tutto si riduce a rapporti personali. La contrapposizione Fedele/Saccà ha praticamente fatto terra bruciata, impedendo non solo la formazione di un’alternativa, ma anche lo sviluppo di un dibattito minimo, una presa di posizione politica qualsiasi, al di là della semplificazione – a volte un alibi per lasciare le cose come stanno – rappresentata dall’antitesi tra i due uomini forti della politica eufemiese. In questo senso, si potrebbe parlare di “motivi personali” perché non esistono più questioni politiche, ma questioni esclusivamente personali.
Se il cigolio proveniente da piazza della Libertà dovesse aumentare d’intensità, potrebbe sorgere qualche problema. Ma forse si temporeggerà un po’: azzardiamo fino alle provinciali della prossima primavera. Certo, se un manipolo di uomini di buona volontà si risolvesse a staccare la spina, chiudendo anticipatamente questa esperienza amministrativa, a occhio e croce non dovrebbero essere in tanti a strapparsi i capelli.

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Volevo morire in Piazza Grande

A guardare le piazze del mio paese, anche Lucio Dalla si sarebbe ricreduto e avrebbe riformulato il desiderio di morire nella sua adorata Piazza Grande, “tra i gatti che non han padrone come me”. In tempi di politically correct anche il bruttume ha diritto di cittadinanza, non fosse altro che per segnalare alle giovani generazioni le cose da non fare per salvaguardare un minimo di armonia e bellezza nello spazio che ci circonda. Non può esserci altra argomentazione valida per giustificare lo scempio architettonico – e non solo – delle piazze di Sant’Eufemia.
I luoghi dell’incontro e della memoria, per dirla con le parole della traccia di un tema di maturità di alcuni anni fa, stanno diventando aree poco fruibili, fatta esclusione per piazza Matteotti, che però presenta una serie di altre gravi problematiche.
Alcune non hanno neanche un nome, segno di inequivocabile povertà culturale: possibile che dal secondo dopoguerra non ci sia stato un eufemiese degno di essere ricordato nella toponomastica cittadina? La piazzetta in via maggiore Cutrì appartiene a questa categoria: quella – per intenderci – senza ringhiera, senza un cespuglio, un albero o un fiore, con panchine simili ai tavoli di un obitorio e con una ghigliottina limacciosa al posto della fontana. Così come quella in via De Nava, che come altre ha una spiccata polifunzionalità, tanto da fungere indifferentemente da piazza e da parcheggio.
Piazza Azzolina ne è l’esempio più eclatante, ma è addirittura preferibile nelle condizioni attuali rispetto all’iniziale piramide (o “supposta”) al centro della piazza e alla sudiceria della fontana che era diventata un cassonetto della spazzatura. Un altro bel parcheggio è stato ricavato nel largo Giovanni Paolo II, inaugurato in fretta e furia per ragioni politiche alla vigilia delle passate elezioni comunali. In barba, evidentemente, al ben noto motto “scherza con i fanti ma lascia stare i santi”. E definiamo scherzo tutta l’operazione politico-mediatica sorta intorno a quella inaugurazione per carità di patria. Paradossalmente, se ora quell’area fosse davvero utilizzata come parcheggio risolverebbe i problemi di congestione del traffico che nell’area attorno a piazza Matteotti fanno imprecare gli automobilisti costretti a incolonnarsi dietro le macchine di coloro che per entrare nelle attività commerciali di via Vittorio Veneto sostano impunemente dove non si dovrebbe.
Già, piazza Matteotti. La piazza dei ventinove lampioni che incredibilmente non assicurano una completa illuminazione; delle poche e scomodissime panchine (piangiamo quelle di prima, che erano sistemate in modo da consentire la conversazione a gruppi di una decina di persone); dell’inutile chiosco; delle pendenze che raccolgono al centro la pioggia creando una suggestiva piscina; della leggendaria palla, assurta a metafora di un’intera amministrazione comunale.
A breve dovrebbero iniziare i lavori di riqualificazione di piazza don Minzoni: incrociamo le dita.

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L’uomo e la regina

La passione per il teatro, così come quella altrettanto intensa per i classici greci, traspare un po’ ovunque tra le pagine del bel romanzo di Aldo Coloprisco, L’uomo e la regina (Laruffa editore, Reggio Calabria 2009). L’incipit stesso, con il protagonista che si guarda allo specchio e si sistema il cappello con cura, rimanda alle indicazioni per la messa in scena di un’opera teatrale. C’è un’attenzione per i dettagli nella descrizione sia dei posti che dei comportamenti dei personaggi che ci riporta all’attività di regista e di autore teatrale di Coloprisco: “il bastone di legno leggero dal manico d’osso” del protagonista; la donna che ha “il mento appoggiato sul manico della scopa” mentre conversa; la preparazione meticolosa del caffè, la descrizione minuziosa della bottega del “restauratore”, o quella della cappella privata, nella scena che introduce, in pagine di grande lirismo, il toccante ricordo delle dolci carezze all’anziano padre e della morte della madre.
Credo quindi che il romanzo debba molto all’amore del suo autore per il teatro, inteso secondo il celebre aforisma di Eduardo De Filippo: “lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”.
Questa cura per i particolari a volte sembra avere anche altre ascendenze. Mi riferisco alla descrizione della stanza e degli oggetti che circondano il protagonista nel passaggio in cui ricorda le veglie notturne, nell’attesa del ritorno a casa dei figli. Si possono infatti rilevare delle assonanze con “le buone cose di pessimo gusto” di Guido Gozzano nella poesia L’amica di nonna Speranza, oppure – operando un collegamento al di fuori della letteratura – con la canzone Vite, di Francesco Guccini, nella quale il cantautore si pone le stesse domande del protagonista del romanzo sul destino degli oggetti e delle persone che, nel fluire del tempo, li hanno di volta in volta posseduti e utilizzati.
La vicenda si consuma nell’arco di una giornata, nel corso della quale il protagonista rivive tutta la propria vita, come nel nastro di un film riavvolto, ma incontra anche tutta una serie di personaggi che danno un senso alla sua intera esistenza nelle ore che precedono il suo distacco dalle cose terrene. La complessità delle tematiche affrontate non impedisce all’autore di riuscire a farsi leggere sovente col sorriso sulle labbra. Il romanzo è infatti pervaso da un’ironia ora sottile ora corrosiva, ma in nessun caso triviale. Penso ad alcune riflessioni sulle giovani donne che sposano uomini molto più maturi, sugli intellettuali che polemizzano sui massimi sistemi e sul sesso degli angeli; o all’incontro con il “restauratore”, un personaggio che sembra uscito dalla fortunata tradizione letteraria romanesca che va da Gioacchino Belli a Trilussa.
Lo svolgimento dell’intreccio avviene su più piani, sia temporali che spaziali, grazie al sapiente ricorso al flash-back come artificio narrativo efficace per tenere insieme una trama ricca di storie e di personaggi. Tra le pieghe dei ricordi si intravedono persone e luoghi che fanno senza dubbio parte dell’album autobiografico dell’autore.
Il presente – in una città caotica e dai ritmi forsennati – rivela tutte le rughe fisiche e interiori che comporta l’incedere della vecchiaia e si contrappone ad un passato quasi onirico nel quale situazioni e personaggi affollano la mente del protagonista come fantasmi che appaiono all’improvviso, in una Calabria che è “terra selvaggia ma bellissima”, soggiogata dalla violenza che governa la natura e la società. Una terra in cui è ancora possibile assistere al delitto d’onore di un giovane per mano dei suoi “tre più cari amici”, sulla scorta di accuse probabilmente false. In pagine che riecheggiano il migliore Corrado Alvaro, viene descritta la morte di massaro Rocco, “travolto con le sue pecore dalla furia di fango e di pietre”. Altrove, il barbaro assassinio di Antonio – un giovane che si era ribellato ai soprusi e al malaffare e che aveva osato candidarsi a sindaco in un paese di “quattro case e un forno” – si pone invece nel solco tracciato da un altro calabrese d’esportazione, il carfizzoto Carmine Abate. Il paesino di Calabria è soprattutto il luogo dell’infanzia e della giovinezza, rappresentato da un ciliegio fiorito che rimanda ad uno dei più bei libri di Enzo Biagi, L’albero dai fiori bianchi, anch’esso venato da una forte nostalgia per i luoghi e i volti della gioventù. Volti, in alcuni casi, mai rivisti nel corso degli anni. Storie consumate nell’arco di un pomeriggio, come l’amore per Elisa, della quale il protagonista non sa più nulla, ma il cui ricordo continua a provocare un’emozione intensissima. “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”, canta d’altronde Fabrizio De Andrè nella canzone Giugno ’73. Un microcosmo destinato forse a scomparire (“il paese muore – ammonisce l’autore – senza che nessuno faccia niente per salvarlo”), agonizzante a causa dell’emorragia costante di giovani che emigrano alla ricerca di lavoro, che si contrappone alla Capitale, “una camera a gas” popolata da esseri inscatolati in trabiccoli metallici, alienati e frenetici nel loro andare senza meta e con un bisogno pressante di stare in mezzo alla folla per sentirsi vivi, anche soltanto per sproloquiare su qualsiasi argomento (tempo, governo, calcio, salute). Nel caos quotidiano, anche un’azione apparentemente insignificante come quella di lasciare a casa volontariamente il telefonino può costituire un gesto di grande libertà, un volersi riappropriare della propria esistenza di fronte alle invasioni che la nostra privacy di continuo subisce. Coloprisco non rinuncia ad aprire una finestra sull’attualità, lasciandosi andare a considerazioni mai banali sulla libertà, la democrazia, il potere della televisione e la condizione dell’uomo nella società dei consumi. Mai come in questo momento, di fronte ai tentativi di omologazione cui siamo quotidianamente sottoposti, allo squallore intellettuale di chi vuole farci credere che questo è il migliore dei mondi possibili e che è sovversivo chiunque non lo riconosca, servono voci limpide e terse che denuncino l’inganno. Altrimenti diventa impossibile accorgersi di un’umanità dolente, che può assumere le sembianze di una donna “tradita e delusa” che improvvisamente si dedica soltanto alle faccende domestiche, rinunciando ad avere qualsiasi altro ruolo nella famiglia e nella società; di un disoccupato che “non sa dove sbattere la testa”; di un ragazzo che pensa di superare i propri problemi esistenziali togliendosi la vita; di un barbone che mendica qualche spicciolo; di una prostituta che per necessità o per costrizione vende il proprio corpo. Coloprisco ci presenta questa umanità con delicatezza, con quella “com-passione” che, come ci spiega l’etimologia, rende partecipi della sofferenza altrui ed esalta la pietas che sta alla base dell’amore e del rispetto per il prossimo. L’incontro con Marisa, che si definisce “un trenino rotto” e che convive con il dolore atroce causato dalla morte del figlio per overdose, non è soltanto la denuncia contro uno dei mali più subdoli della nostra società, ma offre anche all’autore lo spunto per affrontare una questione sulla quale più volte ritorna: il rapporto problematico con la religione. La posizione intellettualmente più saggia non può che essere rappresentata dall’agnosticismo, che non va confuso – come spesso accade – con l’ateismo. L’ateo nega l’esistenza di Dio, l’agnostico non si pronuncia, in quanto non può dare una risposta razionalmente sicura, per cui lascia aperto il campo a qualsiasi ipotesi. C’è però un bisogno di fede e di certezze difficile da nascondere, una ricerca ossessiva che forse, come sosteneva Sant’Agostino, è essa stessa fede. Strettamente legato a questo è poi il tema della morte, colei che finalmente darà le risposte alle infinite domande che ognuno si pone e che Coloprisco propone in pagine altamente introspettive.
L’inseguimento tra il protagonista e la “regina” si conclude con l’incontro finale. Questa donna che appare e scompare, rinviando di fatto l’appuntamento dell’uomo con la morte ricorda, per certi versi, il celebre film di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, nel quale il cavaliere e la morte giocano una partita a scacchi dall’esito scontato mentre attraversano i mali della società. Anche Coloprisco ci fa vedere le piaghe del mondo, prima fra tutte la guerra, contro la quale scaglia un anatema vigoroso (“maledetti gli uomini che vogliono la guerra, bestie più delle bestie”) e contemporaneamente ci fa commuovere con la “favola della stella” che una nonna racconta al proprio nipotino. Per altri versi, credo sia invece possibile azzardare un paragone con la produzione teatrale (ma non solo) di Samuel Beckett. Anche gli eroi beckettiani – ad esempio i protagonisti di L’ultimo nastro di Krapp; Finale di partita; Aspettando Godot – sono generalmente colti nel momento che precede la fine, una fine che inconsciamente cercano. Come il protagonista de L’uomo e la regina, sono personaggi un po’ avanti negli anni che si raccontano e ci raccontano delle storie nel tentativo di prolungare così la loro agonia perché sentono “l’obbligo di esprimere in un mondo in cui non c’è niente da esprimere”, rinviando così il raggiungimento di quella fine che pure desiderano perché “non c’è più niente da rimpiangere, non ci sono anni da rivolere indietro”.
Il protagonista del romanzo di Coloprisco va incontro al suo destino, come gli eroi delle tragedie greche, senza tentare di procrastinare un incontro che comunque avverrà, con un’ansia di affrontare l’ignoto paragonabile alla smania di Ulisse nel ventiseiesimo canto dell’Inferno di Dante. Nonostante l’epilogo tragico, l’autore riesce a consolarci con parole e immagini di speranza e di vita perché – come egli stesso ci ricorda – è vero che sono stolti gli uomini che vogliono conoscere il proprio destino, ma è anche vero che è saggio l’uomo che nel suo piccolo spende la vita per lasciare alle generazioni future un mondo migliore di quello ereditato dai suoi predecessori.

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